Mobilizzazione di beni immobili e limiti di operatività dell’aggravante dell’uso della violenza sulle cose nel reato di furto
Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 128 del 27.01.2017, ha circoscritto i limiti di operatività dell’aggravante della violenza sulle cose nell’ambito del reato di furto, con riferimento al tema della mobilizzazione di beni immobili. In particolare, la fattispecie posta all’attenzione del Tribunale ha ad oggetto la contestazione del reato previsto e punito dagli artt. 624, 625, n. 2, c.p, per essersi, l’imputato, impossessato, al fine di trarne profitto, della legna derivante dall’abbattimento di dieci piante di castagno, sottraendola al detentore, con l’aggravante di avere commesso il fatto mediante l’uso di violenza sulle cose.
Come noto, l’art. 625, n. 2, c.p. prevede una circostanza aggravante ad effetto speciale per i casi in cui il colpevole del furto “usa violenza sulle cose”.
La motivazione addotta a sostegno dell’inconfigurabilità dell’aggravante prende le mosse da un orientamento giurisprudenziale abbastanza consolidato secondo il quale, in tema di furto, sussiste l’aggravante della violenza sulle cose tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, fa uso di energia fisica, provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o determinandone il mutamento della destinazione; è, inoltre, necessario, a tal fine, che la violenza sia esercitata non già sulle res oggetto di sottrazione ma su altre cose il cui danneggiamento o modificazione si riveli strumentale all’amotio della prima[1].
Il suddetto principio di diritto è stato ritenuto strumentale, a contrario, ai fini della risoluzione della questione di diritto posta all’attenzione del Tribunale, che ha ritenuto di escludere la sussistenza dell’aggravante della violenza sulle cose nel furto nel caso in cui “la res oggetto di sottrazione e quella oggetto di danneggiamento siano coincidenti, per cui manca uno dei requisiti necessari per ritenere sussistente la contestata aggravante”.
La decisione si pone nel solco di un dibattitto dottrinario e giurisprudenziale, nell’ambito del quale si ravvisano plurimi orientamenti con riferimento al tema della configurabilità della circostanza aggravante dell’uso della violenza sulle cose in caso di mobilizzazione della cosa immobile ovvero mediante distacco dalla cosa principale (si ha riguardo, ad esempio, ai furti di piante, parti di piante e/o frutti).
Secondo una prima tesi, che ha avuto un certo seguito nella giurisprudenza a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, si dovrebbe propendere per la risposta affermativa al quesito. La giustificazione addotta a sostegno dell’assunto consiste nell’affermare che, poiché la fattispecie base prescinde dalla violenza, l’aggravante in questione sussiste tutte le volte in cui viene esercitata una violenza a prescindere dalla sua entità.
Tale orientamento è disapprovato da parte della dottrina[2], perché la violenza contemplata dalla legge deve essere logicamente un quid pluris di quella che è necessaria per mobilizzare cose immobili e, quindi, rendere possibile il furto. Si aggiunge, inoltre, che non può parlarsi neppure di quel mutamento di destinazione che è una delle forme in cui può manifestarsi la violenza sulle cose (cfr. art. 392 cpv), quando l’albero era destinato al taglio o alla potatura.
Ne consegue che, ponendo l’attenzione sulle concrete modalità di asportazione, un fatto che costituisce il minimo indispensabile per poter commettere il reato e che non esclude alcuna difesa dell’avente diritto non può essere assunto a circostanza aggravante, presupponendo quest’ultima un quid pluris di violenza rispetto a quella assolutamente indispensabile per la commissione del furto e l’apprensione della cosa.
La ricostruzione ermeneutica appena rappresentata è criticata da altra parte della dottrina, che ritiene non condivisibile la tesi che per l’aggravante in questione va alla ricerca di un quid pluris di violenza rispetto a quella necessaria per la mobilizzazione della cosa “perché essa postula erroneamente che la mobilizzazione sia necessariamente il risultato di un’azione violenta. Inoltre, seguendo la tesi criticata, sarebbero ritenute penalmente irrilevanti eventuali violenze sulle cose comunque strumentali alla commissione del furto”[3]. Dunque, secondo tale orientamento, che affonda le proprie radici nelle argomentazioni di avveduta dottrina[4], ai fini della verifica della sussistenza dell’aggravante dell’uso della violenza, occorre spostare l’ottica dalle modalità di asportazione, nonché dalla cosa asportata, al bene cui l’oggetto deriva. Conseguentemente, potrebbero venire in rilievo due differenti situazioni:
1) il distacco non violento comporta l’inconfigurabilità dell’aggravante. Ammesso che la sottrazione della cosa mobile altrui possa avvenire mediante distacco dalla cosa immobile alla quale era connessa, va da sé che il distacco non violento delle due cose non realizza l’aggravante in questione;
2) l’aggravante in questione viene in rilievo in tutte le ipotesi in cui “la mobilizzazione ha comportato – sia se inevitabile per la commissione del furto, sia se non necessaria ma comunque posta in essere dall’agente – il danneggiamento, la trasformazione o il mutamento di destinazione del bene”[5]. Sostanzialmente, se la cosa principale è rimasta danneggiata dal distacco significa che c’è stata violenza sulle cose, quindi si configura l’aggravante.
Tale orientamento intermedio risulta condiviso dalla giurisprudenza maggioritaria, la quale, in materia di furto posto in essere mediante mobilizzazione di beni immobili, ha ravvisato la sussistenza della aggravante dell’uso della violenza nei casi di: furto di piante in buono stato di vegetazione soggette a vincolo forestale, il cui taglio prematuro aveva determinato un mutamento della loro destinazione sia sotto l’aspetto materiale che sotto il profilo giuridico[6]; di furto di piante non ancora giunte a maturazione, in quanto costituisce violenza l’avere impedito che le piante percorrano il loro ciclo vegetativo[7]; furto (tentato) di un albero ornamentale, previo abbattimento dello stesso, nell’ambito del quale, in una recente sentenza, la giurisprudenza ha avuto modo di ribadire, in relazione all’aggravante della violenza sulle cose nel furto, che “essa è configurabile tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, manomette l’opera dell’uomo posta a difesa e a tutela del suo patrimonio in modo che per riportarla ad assolvere la sua originaria funzione sia necessaria un’attività di ripristino (vds. per tutte le recente sez. V, sentenza n. 7267 dell’8.10.2014, dep. 2015, Gravina, Rv. 262547); e proprio il fatto di provocare il danneggiamento, più o meno irreversibile, il deterioramento, la trasformazione o il mutamento di destinazione della res, e di rendere necessaria per la persona offesa (laddove, ovviamente, possibile) un’attività di ripristino, implica un disvalore aggiuntivo della condotta, tale da giustificare il più grave regime sanzionatorio”[8].
Invece, l’aggravante è stata esclusa: nel furto di piante erbacee, perché essendo destinate ad essere tagliate, la recisione non costituisce né un quid pluris del necessario per impossessarsi della cosa, né un mutamento di destinazione, bensì il modo unico e naturale per l’apprensione e l’uso di essa[9]; nel furto di piante o rami destinati, rispettivamente, al taglio o alla potatura.
Ad ogni buon conto occorre rappresentare che, nonostante l’orientamento intermedio appena rappresentato costituisca certamente la tesi prevalente rispetto alle altre, nella giurisprudenza, anche recente, si registrano isolate voci contrastanti che sono addivenute a conclusioni diverse. In particolare, in un caso di furto di 300 alberi di ontano sottratti al Comune, la Cassazione ha avuto modo di affermare che “alla stregua della espressione letterale dell’articolo 625 c.p., n. 2, la violenza può essere commessa “sulle cose”, ovvero tanto sulla cosa oggetto di amotio che su altre il cui danneggiamento o mutamento di destinazione è funzionale all’amotio”[10].
Si auspica, pertanto, un intervento dirimente delle S.U. volto a delineare l’ambito e i limiti di operatività dell’aggravante in questione, con particolare riferimento alla materia della mobilizzazione di beni immobili.
[1] Cass. pen., sez. V, n. 5266 del 17.12.2013 – dep. 3.02.2014, Vivona, Rv. 258725 (Fattispecie concernente il taglio di cavi di rame utilizzati per la messa a terra della linea elettrica destinata all’alimentazione dei convogli ferroviari); conf. Cass. pen., sez. V, n. 24029 del 14.5.2010, Vigo,, rv. 247302; Cass. Pen., n. 41952 del 6.11.2006, in Guida dir. 2007, 6, 66;
[2] Manzini, Trattato, IX, 233; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. I, ed Giuffrè 2008, 323 e ss.;
[3] G. Petragnani Gelosi, I delitti di furto, in Trattato di diritto penale, parte speciale, diretto da A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa, vol. X, ed. Utet Giuridica, 2011, 114 e ss.;
[4] A. De Marsico, Delitti contro il patrimonio, Napoli, 1951, 42; F. Mantovani, voce Furto, in Dig. D. pen., Utet, 1991, vol. V, 356;
[5] E. Aprile – Dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose e alle persone, in Codice penale-Rassegna di giurisprudenza e dottrina, diretta da G. Lattanzi, E. Lupo, vol. XII, Ed. Giuffrè, 2010, 71 e ss.;
[6] Cass, sez. II, 18.4.1973, Fabio, in Giust. Pen. 1974, 26; Cass, sez. II, 21.1.1970, Vivace, ivi 1971, 159;
[7] Cass. pen., sez. IV, sentenza n. 31331 del 22.4.2004, , C.E.D. Cass., n. 228840;
[8] Cass. pen, sez. IV, sentenza n. 26466 del 24.06.2016;
[9] Cass. pen., sez. II, 12.3.1973, Gioffredi, Giust. Pen. 1974, 435;
[10] Cass. pen., sez. IV, sentenza n. 43617 del 29.10.2015.
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Iris Lidonnici
Avvocato penalista
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