Moltiplicazione dei pani e dei cognomi
La negoziabilità del cognome, argomento che ha destato stupore soprattutto sotto il profilo culturale e del buon costume nonché di rilevante interesse dal punto di vista giuridico, risulta centrale nella comprensione della mutazione sociale a cui il legislatore deve necessariamente adeguarsi con risultati proporzionati alla richiesta e con una tutela rispettosa degli interessi coinvolti.
Si è discusso del superamento della norma consuetudinaria ex art. 262 c.c. in quanto non rappresentativa della realtà sociale nella misura in cui prevede l’attribuzione automatica del cognome paterno ai figli.
La Corte Costituzionale si è espressa [1] asserendo la fondatezza della questione nella misura in cui tale norma risulta non esaustiva degli interessi coinvolti; precisamente si sottolinea come tale automatismo non rappresenta più le aspettative di unità familiare e di riconoscimento di identità del figlio e pertanto apporre il cognome materno oppure entrambi, risulterebbe invece espressione di bisogni attuali.
La posizione della Corte, anche se ispirata a valori costituzionali, genera non poche perplessità di ordine giuridico rispetto alla funzione di razionalizzazione dei rapporti tanto che per dissipare contrasti è ricorsa al principio dell’accordo. C’è da dire però che è un principio che soffre nell’ambito di relazioni non patrimoniali ed in secondo luogo non dà vita ad una soluzione efficiente.
In linea di principio la Corte ha affermato la regola generale che prevede l’assunzione da parte del figlio del cognome di entrambi i genitori, salvo accordo tra le parti sull’unico cognome da attribuire. Diventa l’accordo criterio elettivo e non sussidiario. In mancanza di accordo resta salvo l’intervento del giudice.
Le novità non sono poche se si tiene in considerazione la demolizione della vecchia regola – figlio assume il cognome del padre salvo accordo tra i genitori – e le ragioni di incostituzionalità che hanno portato a tale risultato.
In primis, i riferimenti normativi sono: art. 2, 3, 117 Cost. [2] e art. 8 e 14 CEDU [3] .
Gli articoli 2 e 3 Cost. sono richiamati per affermare la piena parità dei genitori sul riconoscimento della discendenza del figlio; diversamente opinando appare diseguagliativa la scelta del solo cognome paterno.
Formante internazionale è l’art. 8 CEDU che contemplerebbe, su base giurisprudenziale, il diritto all’identità.
L’Art. 14 è una clausola fondamentale cd.‘’Grundnorm’’, idonea a creare il diritto e ad affermare il principio di non discriminazione.
La Corte di Cassazione nel 2006 [4] aveva già sancito come il diritto all’identità venisse soddisfatto dalla funzione di tutela del nome. L’ordinamento tutela il nome come affermazione dell’identità personale, pertanto la tutela si estende alla persona e non solo alla famiglia intesa come costituzione sociale.
Tuttavia il riferimento della Corte Costituzionale all’identità del figlio non convince perché nel momento in cui si introduce come principio generale nell’attribuzione del cognome, l’accordo tra le parti, viene confermata l’identità personale.
Se si ritiene che l’identità sia meglio salvaguardata dalla previsione che salvo diverso accordo l’attribuzione di entrambi i cognomi sia più idonea al raggiungimento di tale risultato, si dovrebbe spiegare come in mancanza di accordo valgono entrambi i cognomi ma se c’è accordo sull’attribuzione di uno soltanto dei cognomi – eventualmente quello paterno – non vi sarebbe più connessione tra esigenza di salvaguardare l’identità e quella di applicare la regola del doppio cognome salvo accordi visto che ben potrebbe continuare ad aversi uno solo perché i genitori cosi avranno deciso. E allora discendenza ed identità vengono salvaguardate in tal caso? Appare contraddittorio.
In lettura degli artt. 2 e 3 Cost., le ragioni di iscrizione del solo cognome maschile risiedevano in ragioni di unità familiare oltre che di evitabilità del doppio cognome. Pur nella discriminazione, si riteneva che questa fosse una deroga prevista dall’art. 29 Cost. il quale rendeva possibile al legislatore di stabilire limiti per salvaguardare la Famiglia.
Famiglia fondata come unione naturale sul matrimonio ed espressiva della concezione patriarcale.
Cadendo però di fatto tale ideologia, ossia la famiglia formata non solo su padre ma su due genitori – come nel 2016 è stato legiferato [5] – dovrebbe cadere tale questione. L’evoluzione dell’ordinamento sottolinea che la disparità di trattamento non è giustificabile; a meno che non si tratti di situazioni diverse a cui non possono applicarsi trattamenti uguali peccando di irragionevolezza.
Si riteneva inoltre che il patronimico garantisse una maggiore riconoscibilità della stirpe nel ruolo sociale, ma si è formata una forma mentis che ha lasciato andare questa riconoscibilità ed ha abbracciato l’idea di riconoscibilità nel nome maschile avulsa dal ruolo sociale del padre.
Oggi prescindendo da un ruolo sociale che non c’è più, tendiamo a ravvisare nel patronimico il segno distintivo di una discendenza.
Se la logica è la violazione del principio di uguaglianza, non è soddisfacente la sola introduzione di questa previsione, ma bisognerebbe dire che l’unità della famiglia che si reggeva sulla regola del patronimico viene ugualmente assicurata dalla regola che si è introdotta.
La regola primaria è l’attribuzione del cognome frutto dell’accordo tra i genitori.
In assenza di accordo si attribuiscono entrambi i cognomi (regola suppletiva). Se non c’è l’accordo deve intervenire il Giudice.
In che ordine, nel caso di entrambi i cognomi, questi vengono scritti? E cosa succede se due genitori con doppio cognome decidano di attribuire entrambi i loro cognomi? Vi sarebbe un raddoppio progressivo, verosimilmente.
Si nota la densità di difficoltà esplicative che non soddisfano né la logica della discendenza né quella dell’art. 29 Cost [6].
In mancanza di accordo, si è detto, si rimetterebbe al Giudice la scelta in una materia cosi discrezionale.
Per empirica evidenza, in un negozio bilaterale personalistico con oggetto eventuale ossia la scelta del nome, non appare funzionare adeguatamente e soprattutto quale sarà l’inevitabile scelta che il legislatore deve compiere per far venire meno un cognome? Il principio dell’accordo vale come regola primaria, ma sembra valere anche come regola secondaria in virtù di questa riflessione. Le parti quindi si accordano per eliminare una di esse.
La decisione del giudice sembrerà sempre, per la sua elevata discrezionalità, irragionevole.
Nel diritto il principio fondamentale è la regolazione dei rapporti. Il principio si applica però secondo la sensibilità di un popolo; ma è anche vero che il diritto è un dover essere e non deve solo uniformarsi all’essere ma deve quantomeno orientarlo.
Se si ha avesse a che fare con le leggi naturali, nulla quaestio. Per le leggi sociali, invece, il legislatore deve disciplinare la materia a seconda dell’impatto sociale e della sua applicazione fattuale.
[1] Sent. Corte Cost. n. 131 del 27.4.2022, in gazzettaufficiale.it
[2] Art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale’’; Art. 3 Cost.: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’’; Art. 117 Cost.: ‘’La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali’’
[3] Art. 8 Cedu: ‘’Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza’’; Art. 14 Cedu: «Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione». All’art. 14 della CEDU corrisponde l’art. 21 (non discriminazione) della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007
[4] Sent. Corte di Cass. n. 61 del 2006 in giurcost.org
[5] Legge 20 maggio 2016, n. 76 in gazzettaufficiale.it
[6] Art. 29 Cost.: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare’’
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Dott.ssa Mary Sequino
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