Mutatio ed emendatio libelli

Mutatio ed emendatio libelli

Il nuovo orientamento giurisprudenziale sulla modificazione della domanda giudiziale dopo la nota pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite.

Con la sentenza 12310 del 15 giugno 2015 le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno risolto uno dei dibattiti più accesi, sia in dottrina che in giurisprudenza, delineando in modo chiaro i confini tra mutatio ed emendatio libelli. La Corte, con tale rivoluzionaria pronuncia, ha mutato indirizzo in tema di modifica della domanda e, pur mantenendo fermo il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso della lite, ha ampliato notevolmente il diametro della modifica consentita, propendendo per un’impostazione più elastica, incentrata sull’intera vicenda sostanziale intercorsa fra le parti.La soluzione ha avuto un effetto dirompente in quanto ha ribaltato l’impostazione precedente e posto le basi per un’estensione dell’oggetto del giudizio nel corso della prima udienza o nelle memorie ex art. 183, 6° co. n. 1 c.p.c., senza che questo comporti, tuttavia, un pregiudizio al diritto di difesa o un ostacolo all’economia processuale. Il Supremo Collegio, infatti, nel tentativo di decodificare il silentium legis relativo all’ampiezza della variazione consentita ex art. 183, comma 6 c.p.c., ricostruisce la distinzione tra domande nuove, modificate e precisate, propendendo per un’impostazione più elastica, incentrata sull’intera vicenda sostanziale dedotta in giudizio.

Anzitutto la disposizione normativa oggetto della pronuncia prevede al comma sesto n. 1) che “se richiesto, il giudice concede alle parti (…) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte (…)”.

L’individuazione della portata precettiva della disposizione costituisce uno degli snodi fondamentali del processo civile, concretandosi nella delineazione dei margini di ammissibilità della modifica di domande ed eccezioni, inizialmente richieste con l’atto introduttivo del giudizio.

L’annoso dibattito, in particolare, concerneva l’indicazione del limite oltre il quale la domanda eventualmente formulata nei termini ex art. 183 c.p.c., se diversa da quella proposta nell’atto introduttivo del giudizio, potesse ritenersi ammissibile in quanto semplice precisazione/ modificazione di quella originaria (emendatio libelli) o, piuttosto, inammissibile in quanto totalmente diversa e nuova (mutatio libelli). “Precisare” e “modificare” (cd. emendatio), infatti, non vuol dire modificare totalmente la domanda o, tanto meno, formulare domande nuove; ma soltanto rettificare (senza, di regola, mutare i fatti principali allegati) la portata delle domande con riguardo al medesimo petitum ed alla medesima causa petendi. Se, invece, si “mutasse” uno o entrambi questi elementi, si darebbe luogo alla proposizione di una domanda nuova, il cui divieto è implicito nella norma in discorso, e d’altra parte, imposto dalle esigenze del contraddittorio[1]. Secondo l’opinione prevalente in dottrina, in sede di precisazione, è consentito alla parte di chiarire le precedenti deduzioni ove oscure, di rendere esplicito l’oggetto della domanda, se necessario anche mediante allegazione di fatti c.d. secondari, in quanto tali inidonei ad un mutamento della domanda[2]. Più ampia portata riveste, invece, l’attività di modificazione che consente la deduzione di fatti principali nuovi, ammettendosi, pertanto, anche la sostituzione di alcuni elementi costitutivi, sempre che ciò non comporti un mutamento radicale del petitum e della causa petendi originariamente indicati, in particolare dovendosi escludere che possa essere inciso il “nucleo originario” dei fatti costitutivi allegati con gli atti introduttivi[3].

Al di fuori dei limiti sopraindicati, il mutamento della domanda o dell’eccezione è da considerarsi illegittimo poiché rientra nell’ipotesi della “mutatio libelli”, ossia il mutamento in senso proprio, ed il relativo vizio può essere rilevato d’ufficio dal giudice[4].

Pertanto, ciò che crea maggiori problemi, ai fini del corretto esperimento del dovere decisorio, è la differenza sostanziale tra l’attività – ammessa e lecita – di precisazione e modificazione della domanda e delle eccezioni, e quella – non ammessa – di mutamento delle stesse, e quindi della nota distinzione tra emendatio e mutatio libelli.

L’impostazione giurisprudenziale classica prevedeva, infatti, “si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un “petitum” diverso e più ampio oppure una “causa petendi” fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice “emendatio” quando si incida sulla “causa petendi”, sicché risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul “petitum”, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.[5]

La giurisprudenza in materia sembrava univoca nell’affermare il principio secondo il quale sono ammissibili solo le modificazioni della domanda introduttiva che costituiscono semplice emendatio libelli, ravvisabile quando non si incide né sulla causa petendi ma solo sulla interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, né sul petitum, se non nel senso di meglio quantificarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere; mentre sono assolutamente inammissibili le modificazioni della domanda che costituiscono mutatio libelli, ravvisabile quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su un fatto costitutivo differente, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto, di conseguenza, di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo[6].

Come si evince dalla giurisprudenza è stretta la correlazione tra emendatio/mutatio libelli e la portata della causa petendi (che a sua volta influisce sulla determinazione dell’ambito del giudicato), per tale ragione, si è cercato di risolvere i problemi relativi alla portata di quest’ultima con una serie di criteri di orientamento elastici[7]. Tra questi criteri, infatti, vengono in rilievo quelli secondo cui “si ha mutamento della domanda quando muta il nucleo dei fatti che sono causalmente collegati con l’oggetto della domanda” e “quando si introduce un tema di indagine nuovo, tale da disorientare la difesa dell’altra parte.” [8] Tuttavia, in linea generale, si devono applicare i criteri di identificazione dell’azione, e quindi, appare evidente che, ferma la modificabilità in ogni momento del nomen iuris e, fermo che la modificazione integrale della causa petendi implica mutatio della domanda, e non semplice emendatio, allora la causa petendi cambia soltanto quando ci si riferisce ad un fatto costitutivo completamente diverso, ma non cambia quando si mutano talune circostanze, anche di rilievo, nell’ambito del medesimo fatto.

Nonostante ciò, non risultava sempre facile stabilire quando la precisazione raggiungesse il livello della modificazione. Il criterio distintivo potrebbe ravvisarsi in ciò: mentre con la precisazione non si allarga l’ambito del giudizio postulato, ciò avviene, invece, con la modificazione quando è fondata sull’allegazione di fatti principali nuovi, anche se coordinati con quelli già allegati[9]. Ferma, quindi, la preclusione per le domande totalmente nuove, entrambe le parti possono effettuare le precisazioni e le eventuali modificazioni nei limiti ora visti, così come le allegazioni di nuovi fatti secondari o finalizzati ad eccezioni rilevabili d’ufficio[10].

Questa apparente uniformità di principio (che relegava senza incertezze nel campo dell’inammissibile la mutatio libelli) sottendeva, tuttavia, una realtà più frastagliata, posto che, se pure nessuna pronuncia avesse esplicitamente affermato che sono ammissibili domande “nuove” (intese come tali quelle delle quali risultano modificati in tutto o in parte il petitum e/o la causa petendi), nei singoli casi si era in concreto giunti a ritenere sostanzialmente ammissibili anche domande che presentavano invece mutamenti in ordine ai suddetti elementi identificativi[11].

Per tale ragione, le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la pronuncia n. 12310 del 15 giugno 2015[12], hanno tracciato i confini in merito al noto binomio mutatio-emendatio libelli che, da sempre, rappresentava un tema particolarmente controverso, soprattutto per l’assenza di criteri distintivi univoci elaborati in sede giurisprudenziale.

Con tale rivoluzionaria pronuncia le Sezioni Unite, infatti, pur mantenendo salda l’impossibilità di introdurre una mutatio nel corso della lite, hanno ampliato notevolmente i margini di ammissibilità dell’emendatio, possibile purché la domanda, così modificata, risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio.

Infatti, come afferma la Corte nella richiamata pronuncia: “la modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali.[13]

In linea generale, come si evince dalla massima, non v’è dubbio sulla contrapposizione teorica fra mutatio libelli (vietata) ed emendatio libelli (consentita), tuttavia la Corte sostiene che la mutatio  libelli, da reputarsi in assoluto preclusa, si riscontrerebbe soltanto laddove “(…) si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima, ed in particolare su di un fatto costitutivo differente, così ponendo al giudice un nuovo tema d’indagine e spostando i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo (…)”[14].

Nel chiarire ulteriormente questa contrapposizione la pronuncia modifica l’orientamento in merito alla “semplice emendatio”, quale esercizio lecito del jus poenitendi dell’attore nel giudizio di primo grado, unicamente ravvisabile, prima della dell’intervento della Cassazione, laddove essa, lungi dall’incidere sulla causa petendi come tale, si rifletta sulla mera interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo, allegato a fondamento del diritto azionato, senza tantomeno intaccare il petitum, se non nel limitato senso di “meglio quantificarlo”, in funzione di una maggiore effettività della forma di tutela, invocata a difesa di quel medesimo diritto.

Le Sezioni Unite ritengono di dover rilevare la sussistenza di un “contrasto di sistema” in merito alla portata dell’emendatio, pure acuito dalla presenza di opinioni dottrinali contrarie ad un’eccessiva fissità o rigidità dei petita (e delle correlate causae petendi) nella fase iniziale del primo giudizio, ossia in un momento processuale preparatorio, nel quale il thema decidendum è ancora fluido e l’intera fase istruttoria deve ancora essere programmata. Nell’opinione delle stesse, ad incidere sul mutamento del quadro normativo generale (e, quindi, a stimolare un ripensamento di quei consolidati principi) sono intervenuti due fattori: il primo di essi è, certamente, l’elaborazione scientifica e giurisprudenziale della nozione di “giusto processo”, inserita nell’art. 111, commi 1 e 2, Cost. dalla riforma del 1999; il secondo, nel rifarsi all’esigenza di assicurare ad ogni costo la “coerenza circolare del sistema”, postula come necessaria una sensibile revisione (ed un razionale potenziamento) del ruolo attivo del giudice. La Corte, infatti, sottopone a critica il tradizionale principio, in forza del quale si avrebbe una semplice emendatio della causa petendi (lecita ed ammissibile, ai sensi dell’art. 183) soltanto laddove l’attore si limiti a variare (o comunque a modificare) la qualificazione giuridica dei fatti costitutivi allegati con la domanda introduttiva, senza immutarli ontologicamente in alcun modo. Essa sottolinea la concreta superfluità di una siffatta postulazione, giacché il generale potere di “riqualificazione giuridica” del fatto, rientrando in ogni caso nell’officium judicis[15], non potrebbe mai dirsi sottratto (od, in qualche misura, negato) alle stesse parti nel corso dell’intero giudizio, anche a prescindere dall’individuabilità di una previsione normativa ad hoc.

La Corte, nel proseguo del ragionamento, pertanto, finisce per considerare nuove – e, quindi, inammissibili – solo le domande che siano “altre” rispetto a quella originaria (e che, in quanto tali, a quella si aggiungono); mentre tali non sono le domande, che pur alterate negli elementi oggettivi (in uno solo od entrambi), non sono “altre” rispetto a quella originaria, perché non si aggiungono ad essa ma la sostituiscono e si pongono, pertanto, in rapporto di alternatività rispetto alla stessa[16]. In altre parole, secondo le Sezioni Unite, la domanda modificata, quindi tout court ammissibile (senza che ciò le derivi dal nesso di dipendenza dall’attività difensiva del convenuto), è quella che, pur alterata negli elementi oggettivi, riguarda la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque si riconnette ad essa in tutte i casi di connessione previsti dal codice di rito, venendo in considerazione soprattutto l’ipotesi peculiare di connessione per alternatività[17].

L’impostazione messa a punto nella pronuncia, proprio perché particolarmente attenta all’impatto pratico che presenta la questione, non può realizzarsi se non nel rispetto del principio del contraddittorio e della ragionevole durata; in virtù di ciò, il giudice-interprete può applicare un tale orientamento solo qualora non vengano pregiudicate le potenzialità difensive di controparte e non si determini un inammissibile ed ingiustificato allungamento dei tempi processuali di giustizia[18]. In una tale valutazione comparativa, infatti, la figura del giudice svolge un ruolo concretamente direttivo e, nello stesso tempo, propulsivo, il che trova una supplementare giustificazione proprio nella grande difficoltà pratica, cui il giudice non può sottrarsi, quando è chiamato a tracciare caso per caso, nella variabilità delle fattispecie concrete, un plausibile discrimine tra la mutatio libelli e la mera emendatio. L’autorità giudiziaria deve prediligere una decisione orientata alla giustizia sostanziale, evitando l’applicazione meccanica di regole processuali astratte, il suo ruolo attivo[19], nell’ambito di un processo realmente “giusto”, gli impone di attuare un responsabile bilanciamento fra l’esigenza di massima effettività della tutela invocata dall’attore e la contrapposta esigenza di salvaguardare, ad ogni costo, i diritti di difesa della controparte. È la stessa Corte a sottolinearlo quando, in uno degli snodi più significativi della sentenza, esalta la figura del giudice imponendogli, nel rispetto della garanzia costituzionale di un processo giusto, “di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre (e quindi ogni volta) se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste, evitando che, in mancanza di tale necessità, il rispetto di una ermeneutica tralaticia sottratta alla necessaria verifica in rapporto al caso concreto, si traduca in un inutile complessivo allungamento dei tempi di giustizia ed in uno spreco di risorse, con correlativa riduzione di effettività della tutela giurisdizionale.”

Per mezzo della sentenza in commento, pertanto, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno delineato in modo chiaro i confini tra emendatio e mutatio libelli, ribaltando l’impostazione precedente pone le basi per un’estensione dell’oggetto del giudizio nel corso della prima udienza o nelle memorie ex art. 183, 6° co. n. 1 c.p.c., senza che questo comporti un pregiudizio del diritto di difesa o un ostacolo all’economia processuale.

Infatti, come abbiamo visto, posto che secondo le Sezioni Unite, la differenza tra le domande nuove e quelle modificate è da rinvenirsi nel fatto che le prime si aggiungono a quelle originarie ed estendono l’oggetto del giudizio, mentre le seconde non si aggiungono alle iniziali bensì si pongono, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività; allora la conseguenza logico-giuridica di una simile impostazione è che la modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c., può  riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima, quando tale modifica costituisca la soluzione più adeguata agli interessi della parte in relazione alla vicenda sostanziale dedotta in lite. Ne consegue che “l’attore, implicitamente rinunciando alla precedente domanda mostra chiaramente di ritenere la domanda, come modificata, più rispondente ai propri interessi e desiderata rispetto alla vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio”. Unico limite alla modifica della domanda, che poi costituisce il vero discrimen tra ammessa emendatio ed inammissibile mutatio è che l’originario elemento identificativo soggettivo delle persone rimanga immutato e che la vicenda sostanziale sia uguale, o quantomeno collegata (perché connessa a vario titolo) a quella dedotta in giudizio con l’atto introduttivo. Con siffatta interpretazione, pertanto, la Suprema Corte ha inteso garantire una maggiore economia processuale, una maggiore stabilità delle decisioni giudiziarie, nonché una migliore giustizia per tutte le parti[20].

Tale rivoluzionaria sentenza testimonia, infatti, la tendenza del Supremo organo nomofilattico ad una più attenta e compiuta ricognizione dei principi del giusto processo.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite è, oltretutto, condivisa dalla dottrina,[21] essa si fonda su una scelta chiara in ordine ai valori di fondo del sistema: il processo è fatto per attribuire un bene della vita e per risolvere, in modo stabile e definitivo, la controversia insorta tra le parti sul piano sostanziale; la sentenza di merito, quindi, deve riconoscere o negare, in modo incontrovertibile, il bene della vita richiesto con la domanda giudiziale.Ne discende che, nel delineare l’ambito delle modificazioni ammissibili della domanda, deve essere privilegiata la soluzione che consenta al processo di recepire la vicenda sostanziale nella sua completezza e di evitare la reiterazione dei giudizi in ordine alla medesima lite. Viene definitivamente superato, infatti, il consolidato orientamento giurisprudenziale, che fa della distinzione tra emendatio e mutatio libelli, una questione di variazione quantitativa degli elementi oggettivi della domanda giudiziale; si tratta di un criterio non corretto sul piano sistematico e scarsamente soddisfacente sul lato pratico, come del resto riconoscono le stesse Sezioni Unite. Secondo la Corte, bisogna abbandonare questo parametro, di carattere formale, e guardare al dato sostanziale: all’interesse perseguito in giudizio con la domanda, alla vicenda esistenziale che vi è sottesa, all’unitarietà della lite che ha dato occasione al processo.

La modifica della domanda è ammessa, in conclusione, tutte le volte che in cui l’attività emendativa sia funzionale a risolvere la controversia insorta sul piano sostanziale tra le parti e ad evitare la reiterazione dei giudizi in ordine ad essa.


[1] Cfr. C. MANDRIOLI-CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag. 87 ss.

[2] Cfr. V. G. FINOCCHIARO ed ENRICA POLI in Commentario del codice di procedura civile, tomo II, diretto da COMOGLIO, CONSOLO, SASSANI e VACCARELLA, Milano, 2012, pag. 210; Cfr. CARRATTA-TARUFFO – Poteri del giudice: art 112-120, in Commentario del Codice di procedura civile a cura di Sergio Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, Bologna, 2011, pag 87-88; COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, I, Bologna, 2011; pag. 409, in cui per TARUFFO la precisazione consiste nell’aggiunta di specificazioni alle domande o eccezioni già formulate, ma può ricomprendere anche l’indicazione di ulteriori fatti secondari e circostanze collaterali idonee a chiarire il contenuto delle allegazioni relative ai fatti principali di causa. Invece, parte della dottrina reputa, invece, la mera precisazione delle domande e delle eccezioni deve intendersi liberamente consentita per tutto il corso del processo, ammettendosi inoltre, che in tale ambito possano farsi rientrare “le allegazioni che si traducono nella specificazione o nella modificazione di elementi del tutto marginali relativi ai fatti principali”, v. BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. It, 1996, IV, pag. 276 ss.

[3] Sull’argomento v. A. PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Comm. c.p.c. diretto da E. Allorio, I, Torino, 1973, pag. 1059 ss; G. GIANNOZZI, La modificazione della domanda, Milano, 1958, pag. 79; CONSOLO, Domanda giudiziale, in Digesto civ., VII, Torino, 1991, pag 36 ss.

Occorre chiarire a tal proposito la distinzione tra fatti principali e fatti secondari. In TARUFFO, La prova nel processo civile, Milano, 2012, p. 32-33 si legge che i fatti principali comprendono i fatti costitutivi o i fatti c.d. “nuovi”, mentre i fatti secondari sono delle circostanze che il giudice potrà utilizzare come fonti di prova. In G. FRUS, Il principio di non contestazione tra innovazioni normative, interpretazioni dottrinali e applicazioni giurisprudenziali: soggetti, oggetto e modalità della contestazione, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2015, 1, pag. 75 si legge che i fatti principali sono “quelli immediatamente rilevanti per la singola fattispecie, quali fatti costitutivi posti a fondamento del diritto dedotto in giudizio, oppure quali fatti impeditivi, modificativi o estintivi, posti a fondamento di un’eccezione”; i fatti secondari, invece, “sono fatti dedotti in giudizio con esclusiva funzione probatoria, al fine di dimostrare l’esistenza dei fatti principali”. Cfr. anche PROTO PISANI, Appunti sulle prove civili, in Foro it., parte V, col. 49, 1994, in particolare §2.1, 2.2. per la distinzione tra fatti principali e fatti secondari. Cfr. anche CARRATTA, Principio della non contestazione e art. 115 c.p.c., in Libro dell’anno del diritto-Encicl. giur. Treccani, Roma, 2012, 630; C. M. CEA, L’evoluzione del dibattito sulla non contestazione, in Foro it., parte V, col. 99, 2011 in particolare §5.

[4] Cfr. CARRATTA-TARUFFO – Poteri del giudice: art 112-120, in Commentario del Codice di procedura civile a cura di Sergio Chiarloni, Libro primo: Disposizioni generali, Bologna, 2011, pag. 91ss., in particolare secondo CARRATTA la differenza della modificazione dalla precisazione sarebbe data dalla circostanza che con la prima attività la parte allega nuovi fatti principali rispetto a quelli originari posti alla base della domanda o dell’eccezione ma in modo tale da non comportare anche un mutamento della causa petendi e del petitum, mentre con la seconda si limita o ad esplicitare il contenuto dei fatti (principali) già allegati o ad allegare nuovi fatti secondati; v. anche FORNACIARI, La definizione del thema decidendum e probandum nel processo civile ordinario (art. 183, commi 3,4,5, c.p.c.), in Giust. Civ. 2002, II, pag 298, in nota 2, dove per modificazione si intende “il passaggio da un fatto costitutivo o impeditivo/modificativo/estintivo ad un altro, allorché questo non determini l’individuazione di un diverso diritto o di una diversa eccezione”; ATTARDI, Le preclusioni nel giudizio di primo grado, in Foro it. 1990, V, pag. 386-387.

[5] Così Cass. sez. III, 12 aprile 2005, n. 7524 (in www.dejure.com).

[6] Numerose sono le sentenze che si esprimono in questi termini v. T. Grosseto, 15 luglio 2015; Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 2015, n. 1585 in cui la Corte sostiene che: “si ha mutatio libelli quando la parte immuti l’oggetto della pretesa ovvero quando introduca nel processo, attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell’azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio”; Cass. civ., sez. trib., 20 luglio 2012, n. 12621: “si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.”; Cass. civ., sez. lav., 27 luglio 2009, n. 17457; Cass. civ., sez. lav., 25 giugno 2008, n. 17300; Cass., sez. III, 07 dicembre 1990, n. 11763; Cass. civ., 15 gennaio 1985, n. 77 (in Foro it. on line) dove si afferma che “sussiste soltanto modificazione della causa petendi e non mutamento della domanda allorché, dopo la proposizione in via principale dell’azione contrattuale, l’attore proponga, in un secondo tempo, l’azione di arricchimento fondata sulla stessa situazione”; cfr. anche a tal proposito in Giur. it., 1985, I, 1, 1230, la nota di CERINO-CANOVA.

[7] Si veda in dottrina a tal proposito MANDRIOLI- CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol II, Torino, 2015, pag 91 nota 43; C. CANOVA, La domanda giudiziale ed il suo contenuto, in Comm. c.p.c., Allorio II, Torino, 1980, pag. 77; PROTO PISANI, Appunti sul giudicato civile e sui suoi limiti oggettivi, in Riv. dir. proc., 1990, 386 ss.; C. FERRI, Struttura del processo, Padova, 1975 pag. 94 ss.

[8] Cfr. Cass., sez. lav., 21 febbraio 2007, n. 4003; Cass. civ. sez. III, 6 aprile 2001, n. 5152, (in Foro it on line) in cui la corte afferma che “la legittima configurabilità di una mutatio libelli – non consentita in grado di appello – postula che la parte abbia, in quella sede, radicalmente immutato il fatto giuridico costituito dal diritto originariamente vantato, ponendo a fondamento della pretesa fatti nuovi e diversi mai dedotti in primo grado, ed introducendo un tema di indagine e decisione completamente nuovo”; Cass. civ. sez I, 4 ottobre 1994, n. 8043, (in Foro it. on line); Cass. civ., sez. I, 27 marzo 1995, n. 3592 (in Foro it. on line); Cass. civ., 19 maggio 1983, n. 3490.

[9] Cfr. MANDRIOLI –CARRATTA, Diritto processuale civile, Il processo ordinario di cognizione, vol. II, Torino, 2015, pag 91 nota 44. Inoltre si legge in E. GABRIELLI, Della tutela dei diritti, art 2907-2969, in Commentario del codice civile a cura di BONILINI e CHIZZINI, 2016; sub art 2932 §2, “la giurisprudenza quindi, sino alla recente e fondamentale sentenza a Sezioni Unite, ha adottato una soluzione che faceva della distinzione tra modificazione della domanda, consentita in corso di causa, e mutamento della stessa, vietata nel corso del giudizio, una questione di carattere prevalentemente quantitativo. La seconda figura, infatti, ricorrerebbe quando la parte deduca quale oggetto di giudizio una diversa pretesa, e ciò avverrebbe, se la parte introduca nel processo “attraverso la modificazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell’azione, un tema di indagine e di decisione completamente nuovo, fondato su presupposti totalmente diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo e tale da disorientare la difesa della controparte e da alterare il regolare svolgimento del contraddittorio” (Cass. civ. sez. II, 28 gennaio 2015 n. 1585). In applicazione di questo orientamento, si è negato, ad esempio che: a) proposta una domanda di risarcimento per responsabilità contrattuale, sia consentito far valere una forma di responsabilità extracontrattuale, giacché questa è fondata su petitum e causa petendi differenti (Cass. civ. sez. III, 10 maggio 2013 n. 11118; Cass. civ. sez. III, 10 ottobre 2008 n. 24996); b) richiesto il risarcimento del danno ex art 2043 c.c. sia possibile valorizzare una figura speciale di responsabilità extracontrattuale, poiché si tratta di una domanda nuova, a meno che le allegazioni dell’attore nell’atto introduttivo siano idonee ad integrare anche la fattispecie di quest’ultima Cass. civ. sez. III, 25 febbraio 2014 n. 4446; Cass. civ. sez. III, 5 agosto 2013 n. 18609; Cass. civ. sez. III, 21 giugno 2013 n. 15666; Cass. civ. sez. III, 20 agosto 2009 n. 18520 c) domandato l’adempimento del contratto, possa essere chiesto l’ingiustificato arricchimento, in quanto viene in rilievo una domanda diversa, proponibile solo se sia conseguenza delle difese dell’avversario. (Cass. S.U. 27 dicembre 2010 n. 26128).

[10] La questione relativa alla possibilità di allegare fatti nuovi a sostegno delle eccezioni rilevabili d’ufficio non è affatto pacifica in dottrina. Infatti l’allegazione, successivamente agli atti introduttivi, di fatti del tutto nuovi appare consentita, secondo parte della dottrina, ove essi possano essere oggetto di un rilievo d’ufficio, in specie, possono essere introdotti nuovi fatti modificativi, impeditivi, estintivi a fondamento delle eccezioni rilevabili d’ufficio, anche in forza della lettera dell’art 167, 2 comma, che circoscrive alle eccezioni in senso stretto l’operatività della decadenza. Di questo parere LUISO, Diritto processuale civile, II, Milano, 2009, p. 37 ss. Devono evidenziarsi anche le opinioni dissonanti che ammettono l’allegazione di nuovi fatti storici, ove oggetto di eccezioni in senso lato, anche in un momento successivo al maturare di preclusioni. In questo senso BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. It, 1996, IV, p. 277. Al contrario, in considerazione del disposto dell’art 183 che esclude il potere di mutamento delle parti sia con riguardo alle domande, sia con riguardo alle eccezioni, una parte della dottrina ritiene che sia preclusa alle parti, in sede di prima udienza, la proposizione di nuove eccezioni ove anche rilevabili d’ufficio e, conseguentemente, l’allegazione di nuovi fatti posti a loro fondamento. Infatti, in CARRATTA-TARUFFO – Dei poteri del giudice: art 112-120, in CHIARLONI (a cura di), Commentario al codice di procedura civile, Bologna, 2011 p. 103 ss. CARRATTA sostiene che stante la delimitazione del potere delle parti alla modifica e alla precisazione, non al mutamento, con riferimento tanto alle domande quanto alle eccezioni, sia preclusa la proposizione di nuove eccezioni anche rilevabili d’ufficio anche in sede di prima udienza, ossia non sia possibile allegare nuovi fatti storici che comportino nuove eccezioni. La problematica si ripercuote, evidentemente, sulla possibilità di introdurre fatti nuovi fondanti eccezioni rilevabili d’ufficio anche in sede d’appello in considerazione del noto divieto di nova in appello. Infatti, in dottrina la questione è controversa, in quanto a coloro che propendono per la tesi più permissiva, si oppone una nutrita schiera di studiosi secondo i quali, invece, il giudice del gravame potrebbe esercitare il rilievo officioso soltanto ove i fatti a sostegno delle eccezioni rilevabili d’ufficio risultino già dagli atti e nel rispetto delle preclusioni maturate nella fase del procedente giudizio. Per il primo orientamento v. MENCHINI, Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo civile, in Studi in onore di E. Fazzalari, III, Milano, 1993, pag. 42; ORIANI, Eccezione rilevabile d’ufficio e onere di tempestiva allegazione: un discorso ancora aperto, in Foro it, 2001, I, p. 127 ss; ID. Eccezione (voce) in Enc. giur., Dig. disc. priv. Sez. civ. VII, Torino, 1991; ID. Sulle eccezioni proponibili in appello, in Riv. dir. proc., 2006, 734 ss. Per il secondo orientamento v. invece FABBRINI, Eccezione (voce) in Enc. Giur., XII, Roma, 1989, p 4 ss; COLESANTI, Il processo di cognizione nella riforma del 1990, in Riv. dir. proc., 1993, p. 62 ss. In merito alla questione e ai due diversi orientamenti dottrinali v. anche SAITTA, I nova nell’appello amministrativo, Milano, 2010, pag. 152 ss.

[11] Cfr. PALAZZETTI, Domanda nuova – ammissibilità dei nova ex art. 183, 5° comma, in Giur. It., 2015, 10, 2101, in cui si afferma che “nell’alveo dell’emendatio libelli sono state ricondotte ipotesi in cui, oggettivamente, si sono ammessi mutamenti sia del petitum sia della causa petendi. Ad esempio, è stata ammessa una modifica della domanda di risoluzione del contratto in domanda di adempimento, facendo leva sulla duplice condizione che “la domanda di risoluzione sia stata proposta senza riserve” e “che esista un interesse attuale dell’istante alla declaratoria di risoluzione del rapporto negoziale” (Cass. civ. sez. III, 12 settembre 2013, n. 20899). Non si tratterebbe, secondo tale orientamento, di mutatio della originaria domanda o di domanda nuova, ma di semplice emendatio di quella originariamente proposta, che non amplia od estende il thema decidendum. Sussisterebbe mutatio libelli solo nel caso in cui “la parte faccia valere nel corso del giudizio una nuova pretesa, diversa da quella originaria, che dia luogo ad una trasformazione oggettiva della controversia, con la conseguenza di disorientare la difesa predisposta dalla controparte, e quindi di alterare il regolare svolgimento del processo” (in linea con tale orientamento anche Cass. civ. sez. trib. 20 luglio 2012, n. 12621). Ciò significa che, secondo questa tesi, nel caso di modifica della domanda di risoluzione in domanda di adempimento, la causa petendi ed i soggetti sono i medesimi ed il petitum consiste in un minus rispetto alla originaria domanda, per il caso in cui l’inadempimento non fosse considerato così grave da giustificare la risoluzione del contratto. Non si avrebbe dunque mutatio ma mera emendatio libelli. Allo stesso modo, sempre nel rispetto formale del diktat del 1996, si è più volte ricondotta la modifica della domanda da costitutiva ex art. 2932 c.c. a domanda di mero accertamento nell’alveo della semplice emendatio libelli, perché il thema decidendum della prima e della seconda “versione” sarebbe sostanzialmente identico: l’accertamento dell’esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà (come in Cass. civ, 6 novembre 1991, n. 11840 e 5 agosto 1987, n. 6740). Non si darebbe rilievo al fatto che tale strumento potrebbe essere una sentenza ex art. 2932 c.c. sulla base del previo accertamento dell’esistenza di un contratto preliminare o di un contratto definitivo già stipulato”. Inoltre gli esempi di tale modo di argomentare sono molti in giurisprudenza e per citarne uno, ad es. Cass, sez. III, 12 settembre 2013 n. 20899.

[12] La sentenza è stata ampliamente commentata in dottrina v. in tal senso D’ALESSANDRO, L’oggetto del giudizio di cognizione, Tra crisi delle categorie del diritto ed evoluzioni del diritto processuale, Torino, 2016, pag. 205 ss; MAURO BOVE Mutatio ed emendatio libelli – individuazione dell’oggetto del processo e mutatio libelli, in Giur. It., 2016, 7, pag. 1607; GIULIA PALAZZETTI Domanda nuova – ammissibilità dei nova ex art. 183, 5° comma in Giur. It., 2015, 10, pag. 2101; ELENA MERLIN Ammissibilità della mutatio libelli da «alternatività sostanziale» nel giudizio di primo grado in Riv. Dir. Proc., 2016, 3, pag. 807; S. RICCI, I nuovi confini del binomio mutatio – emendatio libelli come ridisegnati dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite del 2015, pag. 87 ss. In E. GABRIELLI, Della tutela dei diritti, art 2907-2969, in Commentario del codice civile a cura di Bonilini e Chizzini, 2016; sub art 2932 §2 si legge “Su questo quadro, sono intervenute recentemente le Sezioni Unite, con la sentenza n. 12310/2015 hanno sottoposto a revisione critica l’orientamento tradizionale, adottando un’impostazione, esplicitamente volta ad ampliare i limiti della (consentita) modificazione della domanda. Per la Corte occorre guardare non al dato meramente formale della variazione di un elemento della domanda giudiziale, bensì al dato sostanziale, ossia all’interesse perseguito in giudizio con l’azione, alla vicenda di vita che vi è sottesa, all’unitarietà della lite che ha dato occasione al processo. La modifica della domanda è ammessa, tutte le volte che l’attività emendativa consenta di “massimizzare la portata dell’intervento giurisdizionale richiesto così da risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che hanno portato le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima vicenda sostanziale” (Cfr a tal proposito Cass. S.U. 15 giugno 2015 n. 12310 in Corriere giur. 2015, pag. 961 ss. con commento di CONSOLO, “Le S.U. aprono alle domande “complanari” ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriconducibilmente) diverse da quella originaria con cui si cumuleranno”; e in Foro it. 2015, I, pag. 3190 ss. con nota di MOTTO, Le Sezioni Unite sulla modificazione della domanda giudiziale.) La ricostruzione proposta dalle Sezioni Unite, in tema di modificazione della domanda, si inscrive coerentemente in una tendenza della più recente giurisprudenza di legittimità, la quale è del tutto consonante, nelle sue linee di fondo: il processo è celebrato per attribuire un bene della vita e per risolvere, in modo stabile e definitivo, la controversia insorta sul piano sostanziale tra le parti in ordine ad esso; i principi della ragionevole durata, dell’economia e della concentrazione dei giudizi inducono a ricostruzioni degli istituti processuali e, in particolare, dell’oggetto del processo, tali da consentire la trattazione e la decisione unitarie rispetto ad un bene della vita unico (il riferimento è alle sentenze delle Sezioni Unite n. 26242 e n. 26243 del 12 dicembre 2014, nella stessa direzione Cass. S.U. 11 aprile 2014 n. 8510).

[13] Cass. civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310 (in Foro it. on line).

[14] Cass. civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310 (in Foro it. on line).

[15] In base al principio di «legalità» ed al canone jura novit curia (art. 101, comma 2°, Cost.; art. 113 cod. proc. civ.).

[16] V. CARIGLIA, Mutatio ed emendatio libelli – la corte di cassazione conferma il nuovo orientamento in tema di ammissibilità della domanda nuova, in Giur. It., 2016, 10, pag 2154; che sostiene che “la Cassazione e` giunta a ritenere ammissibili domande “nuove” che, tuttavia, non possono considerarsi “ulteriori” o “aggiuntive” rispetto alla domanda iniziale in quanto non si aggiungono a questa ma implicitamente la sostituiscono ponendosi, cioè, in un rapporto di alternatività. Le due domande, infatti, nonostante il mutamento intervenuto con riguardo agli elementi identificativi oggettivi della stessa, riguardano “la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque risultano essere a questa collegata”. Tale soluzione, secondo le Sezioni Unite, sarebbe apprezzabile sotto più profili. Innanzitutto, essa appare rispettosa del diritto di difesa del convenuto. Infatti, da un lato, “l’eventuale modifica avviene sempre in riferimento e connessione alla medesima vicenda sostanziale in relazione alla quale la parte è chiamata in giudizio”; dall’altro lato, il convenuto sa che una simile modifica potrebbe intervenire cosicché non si trova del tutto impreparato rispetto ad essa e dispone comunque di un congruo termine per potersi difendere e contro dedurre anche sul piano probatorio. In secondo luogo, una simile interpretazione garantisce la piena attuazione dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, in quanto non solo non incide negativamente sulla durata del processo nel quale la modificazione interviene ma è ‘‘idonea a favorire una soluzione della complessiva vicenda sostanziale ed esistenziale portata davanti al giudice in un unico contesto, invece di determinare la potenziale proliferazione dei processi’’. Infine, la ricostruzione proposta riesce ad assicurare una “migliore giustizia sostanziale”, favorendo la ‘‘stabilità delle decisioni anche in relazione alla limitazione del rischio di giudicati contrastanti, nonché dell’effettività della tutela assicurata, sempre messa in pericolo da pronunce meramente formalistiche”.

[17] Le S.U. infatti stabiliscono che “la vera differenza tra domande “nuove” implicitamente vietate (…) e domande “modificate” espressamente ammesse non sta (…) nel fatto che in queste ultime le “modifiche” non possono incidere sugli elementi identificativi, bensì nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate “nuove” nel senso di “ulteriori” o “aggiuntive” trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate (…) o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”. Riprendendo successivamente il discorso, a completamento del principio di diritto enunciato, le Sezioni Unite continuano affermando:“(…) una interpretazione come quella in questa sede proposta (…), non espone al rischio di trasformare il processo in un “tram” da prendere al volo caricandolo di tutte le possibili ed eventualmente eterogenee ragioni di lite nei confronti di una determinata controparte, se si considera che (…) la domanda modificata deve pur sempre riguardare la medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio con l’atto introduttivo o comunque essere a questa collegata”. In sintesi le Sezioni Unite affermano che le domande sono “nuove” se “ulteriori” o “aggiuntive”, mentre sono “modificate”, anche se in alcuni elementi fondamentali, quando si pongono in un rapporto di “alternatività” rispetto alla domanda originaria. Requisiti per ammettere tale modifica sono quindi: a) che la domanda modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio; b) che non si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte; c) che non si verifichi l’allungamento dei tempi processuali. In merito v. PALAZZETTI Domanda nuova – ammissibilità dei nova ex art. 183, 5° comma in Giur. It., 2015, 10, pag. 2101 ss.; COSTANZO M. CEA, Tra mutatio ed emendatio libelli: per una diversa interpretazione dell’art. 183, c.p.c.; pag. 101 ss.

[18] In merito all’economia dei giudizi v. L.P. COMOGLIO, L’economia dei giudizi come principio «ad assetto variabile» (aggiornamenti e prospettive) in Riv. Dir. Proc., 2017, 2, 331.

[19] Cfr. L. P. COMOGLIO, Modificazione della domanda, tutela effettiva ed economia dei giudizi (nuovi poteri per il giudice?) in Nuova Giur. Civ., 2016, 4, 653

[20] Cfr. M. CEA, Tra mutatio ed emendatio libelli: per una diversa interpretazione dell’art. 183, c.p.c.; pag. 109 sostiene che “se finora la preoccupazione maggiore della S.C. sembrava essere quella di dare prevalenza sempre e comunque al principio della ragionevole durata del processo, anche sacrificando a tal fine le garanzie delle parti, sembra ora emergere, in particolare nella giurisprudenza delle Sezioni unite, una più matura consapevolezza delle problematiche connesse al ‘giusto processò, da intendere come un coacervo di principi anche configgenti che vanno tra di loro contemperati. Soprattutto sembra emergere la consapevolezza che non ci può essere giusto processo se non quando la lite viene risolta da una sentenza giusta, dovendosi intendere con tale locuzione una pronuncia, fondata sull’accertamento veritiero dei fatti dedotti in giudizio, che riconosca o neghi in maniera incontrovertibile il bene della vita oggetto del processo.

[21] V. a tal proposito MOTTO, Le sezioni unite sulla modificazione della domanda giudiziale, in Foro it.,2015, parte I, col. 3190, in particolare pag. 3192.


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Martina Mazzei

Dottoressa in giurisprudenza con 110 e lode presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Ha svolto un periodo di ricerca tesi all’estero, in Francia, presso la “Bibliothèque nationale de France” ai fini della redazione della tesi sperimentale in procedura civile dal titolo “Il potere del giudice di interpretazione della domanda giudiziale”, relatore Prof. Antonio Carratta. Durante il periodo universitario ha collaborato tre anni con l’Ufficio legale e contenzioso dell’Università degli studi di Roma Tre. Svolge la pratica forense, a Roma, presso lo studio legale “Cuggiani, Necci e associati”. Tirocinante ex. art. 73 l. 69/2013 presso Procura Generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Roma. Si occupa prevalentemente di diritto civile e procedura civile ed è autrice di alcuni articoli e approfondimenti in Procedura civile.

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