Natura ed effetti del diritto di recesso: nel contratto codicistico, nei contratti del consumatore e nel terzo contratto

Natura ed effetti del diritto di recesso: nel contratto codicistico, nei contratti del consumatore e nel terzo contratto

Il recesso è il negozio unilaterale, espressione di un diritto potestativo, con cui la parte di un rapporto contrattuale determina lo scioglimento del relativo vincolo.

Tale diritto potestativo può derivare ex lege o ex contractu. Nel primo caso saremo di fronte ad un recesso di fonte legale, nel secondo ad un recesso convenzionale.

Da tale breve definizione possiamo già cogliere come il recesso incida sul momento dinamico del rapporto contrattuale, elidendone gli effetti e determinandone così una sopravvenuta inefficacia. Il recesso si distingue in ciò dalla revoca che, pur essendo anch’essa espressione di un potere unilaterale, colpisce piuttosto l’atto giuridico (per lo più di valore dichiarativo), del quale determina la radicale cancellazione dal mondo giuridico.

Trattandosi di un negozio unilaterale, l’atto della parte preordinato all’esercizio del diritto di recesso sottostà alla regola della ricettizietà di cui all’art.1334 c.c., di talché esso potrà produrre il suo precipuo effetto solo a condizione che e dal momento in cui pervenga a conoscenza dell’altra parte (o comunque dal momento in cui giunga al suo indirizzo, integrandosi in tal caso la presunzione juris tantum di conoscenza dell’atto da parte del suo destinatario).

L’inefficacia del contratto determinata dall’esercizio del diritto di recesso convenzionale può essere diversamente modulata nel tempo a seconda di come le parti, nell’espletamento della loro autonomia negoziale, abbiano inteso allocare rischi e vantaggi contrattuali. In altri termini, è rimessa ad una scelta della parti siccome consacrata nel regolamento contrattuale, l’operatività irretroattiva o retroattiva del recesso. Fermo restando ovviamente il limite – laddove le parti optino per la retroattività – della salvezza dei diritti acquistati dai terzi.

Laddove si tratti di un contratto ad esecuzione continuata o periodica, l’art.1373 co.2 c.c. prevede invece che il recesso non può travolgere le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione. Si prevede dunque in tal caso un limite alla retroattività del recesso; limite la cui portata è in realtà alquanto ridimensionata, stante la natura non imperativa e dunque derogabile della norma de qua.

Nel silenzio della parti troverà invece applicazione la disciplina prevista dalla legge per le svariate ipotesi di recesso tipicamente previste.

Una volta chiarito in cosa consista il diritto di recesso e con quali modalità esso possa incidere sul vincolo contrattuale, occorre adesso analizzare le molteplici tipologie di recesso che il diritto civile conosce, le quali differiscono tra loro per ratio e conseguentemente per effetti.

Va tuttavia premessa una considerazione di fondo: il recesso mina alla stabilità e alla cogenza del vincolo contrattuale, che l’art.1372 c.c. afferma avere tra le parti una forza assimilabile a quella della legge. Nel ribadire con ancora maggiore veemenza il principio pacta sunt servanda, la norma prosegue specificando che il contratto non può essere sciolto che per mutuo dissenso o per cause ammesse dalla legge.

Ciò induce a configurare il recesso come un istituto di carattere eccezionale. Deve dunque essere esercitato nel rispetto di quanto pattuito dalle parti nonché delle limitazioni previste dalla legge, pena l’inefficacia del recesso stesso.

Il fatto che il recesso si atteggi a rimedio eccezionale – costituendo un sostanziale vulnus al suesposto principio pacta sunt servanda – non deve tuttavia far cadere nell’equivoco che esso sia visto con profondo sfavore dall’ordinamento e che sia, conseguentemente, quasi osteggiato.

Anzi, il complessivo quadro di norme che il codice civile dedica al recesso lascia intendere che esso sia piuttosto visto come uno strumento che consente una fisiologica allocazione degli interessi delle parti contrattuali.

Infatti, da un lato, sono previste molteplici ipotesi di recesso di fonte legale e, dall’altro, l’art.1373 c.c. ammette con una norma di carattere generale la possibilità per l’autonomia privata di pattuire il diritto di recedere dal contratto nel rispetto delle limitazioni poste dalla norma; limitazioni che peraltro sono superabili, stante la derogabilità della norma stessa.

Le ipotesi di recesso legale previste dal cod. civ. sono sussumibili entro tre macro-categorie: il recesso c.d. determinativo, il recesso di autotutela e il recesso ad nutum.

Il recesso determinativo è quello che può esercitare previo preavviso ciascuna delle parti di un rapporto contrattuale di durata a tempo indeterminato, appunto per porre fine allo stesso (si pensi, a titolo esemplificativo all’art.1569 per la somministrazione, all’art.1810 per il comodato, all’art.1845 per il contratto di conto corrente o, ancora, all’art.2285 che disciplina il recesso dal contratto di società a tempo indeterminato).

Il mancato assolvimento dell’obbligo di preavviso entro i termini previsti può avere l’effetto di impedire il recesso (in tal caso si configura come un preavviso avente carattere reale) oppure quello di obbligare solamente la parte recedente a risarcire i danni che l’altra provi avere patito per non essere stata informata tempestivamente della volontà della prima di sciogliersi dal contratto (in tal caso il preavviso ha una mera funzione obbligatoria).

La ratio di tale tipologia di recesso si rinveniva in passato in un atteggiamento di sfavore del legislatore nei confronti dei vincoli perpetui. Una parte della dottrina ha poi, forse più correttamente, messo in luce come la sua funzione sia semplicemente quella di colmare una lacuna del regolamento contrattuale, consistente nella mancata indicazione del termine di durata del rapporto. Del resto si è osservato che, laddove il legislatore ha ritenuto non meritevoli di tutela degli specifici rapporti perpetui, li ha implicitamente vietati prevedendo un termine di durata legalmente imposto.

La facoltà di recedere dal contratto può essere poi accordata alla parte per consentirle di reagire ad eventi sopravvenuti che minacciano i suoi interessi contrattuali. In ciò consiste il c.d. recesso di autotutela, quale espressione di autotutela privatistica.

Tali eventi sopravvenuti possono essere fatti che modificano l’assetto contrattuale siccome originariamente voluto dalle parti. Si pensi al diritto di recesso che l’art.1464 c.c. accorda al creditore in caso di impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione, oppure a quello che l’art.1660 riconosce all’appaltatore laddove sopravvenga la necessità per il committente di introdurre notevoli variazioni al progetto. Talora il diritto di recesso viene attribuito per consentire lo scioglimento del rapporto al contraente che subisce un (legittimo) ius variandi di controparte, come le variazioni di prezzo che a certe condizioni può imporre l’agenzia di viaggio al cliente.

In altri casi la legge da rilevanza, quale fatto sopravvenuto legittimante il recesso di autotutela, ad un qualunque evento che integri il concetto di “giusta causa” (si pensi al recesso dal contratto di lavoro ex art.2119 c.c.).

Le fattispecie più numerose di recesso di autotutela sono comunque quelle che consentono ad una parte di sciogliersi dal contratto a fronte dell’inadempimento dell’altra, laddove operino delle forme di risoluzione stragiudiziale. Tale conclusione è di tutta evidenza nell’ipotesi in cui, al momento della conclusione del contratto, sia stata data una caparra confirmatoria: l’art.1385 c.c. dispone espressamente che, se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere ritenendo la caparra; se invece ad essere inadempiente è la parte ha ricevuto la caparra, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della stessa.

Ma a rifletterci bene, e al di là della letterale allusione da parte delle norme ad una facoltà di recedere dal contratto, tutte le ipotesi di risoluzione stragiudiziale (siano esse di fonte legale o convenzionale) si sostanziano nell’esercizio di un recesso dal contratto giustificato dall’altrui inadempimento.

Pensiamo alle ipotesi di risoluzione stragiudiziale di fonte legale, che sono la diffida ad adempiere e il termine essenziale: un parte provoca lo scioglimento unilaterale del contratto – vale a dire, recede -, a fronte di un vizio del contratto consistente nell’altrui inadempimento, in alternativa alla tutela giurisdizionale.

Lo stesso dicasi per quei meccanismi risolutori stragiudiziali che si attivano in forza, non di una previsione legale, ma di un accordo delle parti. Vale a dire – oltre alla caparra confirmatoria – la clausola risolutiva espressa e la c.d. condizione risolutiva di inadempimento (ove, quest’ultima, fosse ritenuta ammissibile).

Oltre al recesso determinativo e al recesso di autotutela, il codice civile conosce anche una terza tipologia di recesso unilaterale, consistente nel c.d. recesso libero o ad nutum.

Come si evince già dalla terminologia, è un recesso che è rimesso alla piena discrezionalità della parte che non ha più interesse a rimanere vincolata al contratto, la quale può esercitarlo a prescindere dalla ricorrenza di qualsivoglia presupposto integrante una giusta causa e a prescindere dalla indeterminatezza temporale del vincolo contrattuale.

È un recesso la cui ratio è da rinvenirsi sostanzialmente nell’esigenza di realizzare una quanto più efficiente allocazione delle risorse economiche derivante dal contratto, offrendosi esso come alternativa all’inadempimento e alla conseguente esposizione della parte inadempiente all’obbligo di risarcire i danni.

Detto in altri termini, alla parte che ha interesse a sciogliersi dal contratto viene data la possibilità di recedere immotivatamente versando all’altra una somma (talora qualificata come indennizzo, talaltra come risarcimento) che è parametrata al danno emergente e al lucro cessante da essa patito per avere subito uno scioglimento del contratto da essa non voluto. Una somma che, dunque, coincide con il quantum risarcitorio che la parte che vuole sciogliersi dal contratto dovrebbe pagare in conseguenza dell’inadempimento.

Così si spiegano le molteplici norme contenute nel codice civile che prevedono il recesso ad nutum per quella macro-categoria di negozi contrattuali che attengono alla “locatio operis” e per i contratti d’opera intellettuale. Si tratta di tipi contrattuali il cui elemento preponderante al punto da colorarne la causa è costituito dal carattere intrinsecamente fiduciario del rapporto. Di talché si rende necessario offrire uno strumento che consenta di sciogliersi dal vincolo – laddove quel rapporto fiduciario dovesse, per le più svariate ragioni, venire meno – offrendo all’altra parte una somma che compensi integralmente la lesione dell’affidamento da essa giustamente riposto sull’esecuzione del contratto.

Pensiamo al diritto di recesso dal contratto di appalto che l’art.1671 c.c. accorda al committente a fronte del pagamento all’appaltatore di una indennità che consta tanto delle spese sostenute, quanto dei lavori eseguiti, quanto del mancato guadagno (è un diritto di recesso accordato per legge e che dunque si colloca su un piano diverso rispetto a quello che può essere eventualmente pattuito su base convenzionale ex art.1373 c.c. e subordinato al pagamento di una somma a titolo di multa penitenziale quale corrispettivo dell’esercizio del diritto di recesso. Come ha avuto modo di ribadire la Cass. con una recentissima sentenza del 2018, il recesso convenzionale ex art.1373 c.c. può essere esercitato fintantoché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione; laddove l’art.1671 c.c. consente di recedere in qualsiasi momento posteriore alla conclusione del contratto, e dunque anche se è iniziata l’esecuzione. Inoltre, mentre la somma dovuta a titolo di multa penitenziale ex art.1373 co.3 integra un debito di valuta, l’indennità di cui all’art.1671 non può che assurgere a debito di valore, stanti le considerazioni finora svolte in merito alla funzione di tale ipotesi di recesso legale).

Pensiamo agli artt.1725, 1734, 1738 – relativi rispettivamente al mandato, alla commissione e alla spedizione – i quali, pur facendo letteralmente riferimento ad un potere di revoca dell’incarico o dell’ordine, di fatto prevedono un diritto di recesso dal contratto, dal momento che la volontà unilaterale incide su un rapporto contrattuale già perfettamente concluso.

Ritornando adesso ad analizzare l’atteggiamento del legislatore nei confronti del recesso, non si può non notare come esso muti, colorandosi di un certo sfavor, laddove ci si sposti dal piano del contratto codicistico a quello della contrattazione asimmetrica. Ovverossia laddove venga in rilievo un rapporto giuridico tra due soggetti che, per svariate ragioni, si pongono tra loro in una situazione di diseguaglianza – giuridica o economica – che determina la qualificazione di uno dei due contraenti come parte debole e dell’altro come parte forte del sinallagma contrattuale.

Si allude, evidentemente, al contratto tra professionista e consumatore di cui al cod. cons. (d.lgs. 206/2005) nonché al c.d. terzo contratto che vede come protagonisti del rapporto contrattuale due operatori economici professionali di cui l’uno si trova in una posizione di dipendenza economica – dunque di dominanza relativa – rispetto all’altro.

In tali contesti si pongono evidentemente delle esigenze di tutela più o meno rafforzata del contraente debole. Ciò onde evitare che l’autonomia privata costituisca, più che strumento per la realizzazione di interessi meritevoli di protezione, veicolo per l’imposizione di svantaggi ingiusti, in totale spregio di quei doveri di solidarietà sociale che l’art.2 Cost. impone in qualsivoglia ambito giuridico.

A dire il vero, anche nel codice civile si rinvengono delle istanze di protezione di una parte dall’esercizio di un recesso contrario a buona fede dell’altra. Istanze protettive generate, ancora una volta, dalla posizione di debolezza in cui si può venire a trovare un contraente (a prescindere dalla sua qualificazione come consumatore) in determinati casi. E segnatamente laddove sia posto nella condizione di sottoscrivere un contratto il cui regolamento sia stato il frutto, non di una trattativa tra le parti, ma della predisposizione unilaterale del testo contrattuale ad opera di controparte. Sicché alla parte viene data una sola alternativa: aderire al regolamento contrattuale siccome prospettato da controparte, o rinunciare alla sua conclusione.

Gli artt. 1341 e 1342 c.c. prevedono così una tutela ante litteram della parte debole del rapporto contrattuale, che si snoda su due punti: innanzitutto l’aderente può dirsi vincolato alle varie clausole contrattuali solo nella misura in cui le stesse siano state effettivamente da lui conosciute o quantomeno conoscibili con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza; inoltre, è necessaria una specifica approvazione per iscritto delle c.d. clausole onerose. Per tali intendendosi quelle che aggravano la posizione contrattuale dell’aderente, privandolo di diritti e di poteri che gli sarebbero spettati in base alla disciplina generale o imponendogli obblighi o soggezioni che altrimenti non avrebbe avuto.

Ebbene, tra tali clausole onerose – che vengono elencate in modo tassativo – rientrano quelle che attribuiscono al predisponente la facoltà di recedere.

Resta il fatto, comunque, che la disciplina codicistica appresta al contraente debole una tutela che si arresta ad un piano strettamente formale (dal momento che è sufficiente l’assolvimento del requisito di forma-contenuto affinché l’aderente si trovi vincolato a clausole per lui particolarmente gravose e dal momento che, comunque, vi sono clausole molto dure ma che non rientrano nel suddetto elenco, come ad esempio quelle che prevedono lo ius variandi del professionista).

Ove ci si sposti al piano della contrattazione asimmetrica tra professionista e consumatore, si rinviene una disciplina volta ad apprestare a quest’ultimo una tutela di carattere più sostanziale.

Per quello che a noi più interessa, la disciplina in tal sede riservata al recesso unilaterale denota una duplice tendenza: da un lato quella di imbrigliare la facoltà di recedere del professionista (anche ove accettata dal consumatore e così consacrata nel regolamento contrattuale) entro limitazioni e vincoli sconosciuti alla disciplina codicistica, che è invece fortemente improntata al dogma della volontà. Dall’altro lato, il diritto di recesso viene valorizzato quale strumento che, ove accordato al consumatore, può consentire un riequilibrio delle posizioni contrattuali.

Sotto il primo profilo, si allude evidentemente alla qualificazione come presuntivamente vessatorie delle clausole che consentono al professionista di recedere dal contratto a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso.

Sotto il secondo profilo, il cod. cons. accorda ex lege al consumatore un diritto di recesso di pentimento da contratti caratterizzati da modalità di conclusione particolarmente insidiose (contratti a distanza, contratti stipulati fuori dei locali commerciali e contratti di multiproprietà). La tutela del consumatore risulta peraltro in tal caso rafforzata dal fatto che il diritto di recesso viene elevato ad oggetto di uno specifico obbligo informativo a carico del professionista nei confronti del consumatore (obbligo informativo che deve essere assolto per iscritto, assurgendo a requisito di forma-contenuto). La violazione del suddetto obbligo informativo è sanzionata con un rimedio di carattere reale, consistente in ciò che il diritto di recesso – non solo viene comunque accordato, la sua fonte essendo individuabile nella legge e non in una convenzione delle parti – ma per di più si realizza uno slittamento in avanti di 12 mesi del termine entro il quale il diritto di recesso stesso può essere esercitato.

Le considerazioni finora svolte in merito alla ratio della contrattazione asimmetrica ci consente di comprendere, e dunque di giustificare, lo spazio che ivi viene concesso ad un sindacato del giudice sull’equilibrio contrattuale.

La logica protettiva del contraente debole, che costituisce diretto precipitato di quei doveri di solidarietà sociale garantiti ed imposti dalla Costituzione, diviene talmente importante da giustificare una attenuazione della cogenza del vincolo contrattuale e da ammettere una più o meno penetrante intromissione del giudice nella regolamentazione del rapporto negoziale. Il potere equitativo del giudice assume dunque una rilevanza tale da assurgere a fonte eteronoma di integrazione del regolamento contrattuale, anche a fronte di previsioni contrarie stabilite dall’autonomia contrattuale.

A dire il vero, anche il codice civile conosce delle ipotesi in cui l’equilibrio contrattuale viene sindacato. Ma si tratta di ipotesi specifiche e residuali e, soprattutto, in cui la soglia di equità viene fissata dalla legge. Il giudice interviene, dunque, sul complessivo assetto contrattuale al fine di renderlo conforme a dei vincoli posti dal legislatore. Pensiamo alle norme eccezionali con cui il legislatore impone un prezzo minimo o massimo che opera tramite il meccanismo di sostituzione automatica di clausole ex art.1419 co.2 c.c., come nei contratti di locazione abitativa o di lavoro subordinato; oppure alla disciplina dell’usura, che oggi conosce una soglia (la cui individuazione è demandata dall’articolo 644 c.p. ad un complesso procedimento amministrativo) superata la quale si sfocia nella pattuizione di interessi usurari e nella conseguente nullità della clausola che li prevede.

In altre ipotesi specifiche l’equità assurge a strumento di eterointegrazione del contratto rimesso alla discrezionalità giudiziale, in assenza di soglie di equità legislativamente previste. Così si spiega il potere di riduzione della clausola penale eccessivamente onerosa che l’art.1384 c.c. accorda eccezionalmente al giudice o il potere di riduzione dell’indennità in caso di risoluzione della vendita con riserva di proprietà ex art.1526 c.c.

Ma si tratta pur sempre di ipotesi del tutto eccezionali e che non minano alla regola generale per cui l’autonomia contrattuale è tendenzialmente insensibile al sindacato giudiziale sull’equilibrio e sull’equità del contratto. Almeno fintantoché lo squilibrio tra le parti non sfoci in un vizio del contratto e non ricorrano, dunque, ipotesi di annullabilità, nullità (per difetto o illiceità di causa in concreto), risoluzione (per eccessiva onerosità sopravvenuta), rescissione.

Nell’ambito del c.d. terzo contratto, che viene stipulato tra soggetti aventi tutti la qualifica di professionisti, si è posta l’esigenza di ricercare degli strumenti idonei a contrastare le conseguenze patologiche che possono derivare da situazioni di dipendenza economica di un operatore rispetto ad un altro.

Infatti, se nei contratti del consumatore la debolezza deriva essenzialmente dal deficit informativo, nel terzo contratto essa genera dal possibile abuso che il contraente economicamente più forte potrebbe fare della pur fisiologica debolezza economica dell’altro. Debolezza economica originata dalla precedente stipula di un contratto che risulta essere squilibrato in quanto attribuisce ad un contraente delle facoltà che, se esercitate in modo contrario a buona fede, possono pregiudicare gli interessi economici dell’altro.

I contratti da cui può derivare una situazione di dipendenza economica sono infatti per lo più contratti di durata stipulati tra imprese che operano a diversi livelli della produzione, in cui la durata pattuita non è sufficientemente lunga da assicurare al contraente – che così diventa debole – il recupero dell’investimento specifico da esso sostenuto in vista di quel contratto.

C’è dunque il rischio che l’impresa debole possa subire un ricatto post-contrattuale ad opera dell’altra, la quale potrebbe abusare di quei diritti che pure le spettano in base al contratto validamente stipulato.

In ultima analisi, la dipendenza economica deriva dunque dal fatto che un’impresa è in grado di determinare, nei suoi rapporti commerciali con un’altra, un eccessivo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivante dal fatto che (a differenza dell’altra) può trovare delle valide alternative sul mercato.

Nella pratica, la scelta poco avveduta del contraente debole può consistere: o nell’avere riconosciuto all’altra la facoltà di scegliere di volta in volta se acquistare (o vendere, a seconda dei casi), o nell’avere accettato un termine di durata troppo breve rispetto a quello necessario per l’ammortamento dell’investimento o, soprattutto, nell’avere riconosciuto all’altra impresa una facoltà di recesso ad nutum.

In tali casi si rende necessario predisporre degli strumenti che consentano un riequilibrio delle posizioni contrattuali e che tutelino il contraente debole, non dalla situazione di debolezza economica in sé (che è del tutto fisiologica), ma dall’eventuale abuso che di essa l’altro contraente dovesse farne.

Tali strumenti non possono, evidentemente, essere rintracciati tra i rimedi che il codice civile predispone a fronte dei vizi che in vario modo possono inficiare il contratto.

La dipendenza economica infatti presuppone un contratto a monte validamente stipulato, e il problema riguarda le modalità con cui i diritti che da esso sorgono possono essere esercitati dal titolare.

La disciplina prevista dal legislatore è alquanto frammentata, ma la norma chiave è costituita dall’art.9 L.192/1998 (L. subfornitura). Essa sancisce testualmente la nullità di un qualsiasi patto attraverso cui si realizza l’abuso di dipendenza economica. Tale norma dunque, ad onta della sua collocazione sistematica, trascende il campo di applicazione oggettivo proprio della legge nella quale è inserita, essendo idonea a sanzionare qualsiasi forma di dipendenza economica che si realizzi anche al di fuori di rapporti di subfornitura (i quali evidentemente costituiscono il principale terreno d’elezione del fenomeno de quo).

Risultano dunque chiare le conseguenze di un abuso di dipendenza economica: l’accordo da cui esso origina è affetto da nullità, con la conseguenza che l’impresa non potrà esercitare le facoltà astrattamente riconosciutele.

Meno chiaro, o meglio, più arduo è capire in quali casi possa dirsi concretamente sussistente un’ipotesi di abuso di dipendenza economica.

La questione deve essere ricollegata alla tematica dell’abuso di diritto, fenomeno della cui configurabilità all’interno del nostro ordinamento la giurisprudenza si è a lungo interrogata.

Esso consiste in uno sviamento dell’esercizio del diritto dallo scopo per il quale lo stesso è attribuito. Si configura, cioè laddove un soggetto esercita un diritto (qualunque esso sia: assoluto, relativo, potestativo) per realizzare un obiettivo diverso da quello – meritevole di tutela giuridica – per il quale gli viene accordato dall’ordinamento.

Il divieto di abuso del diritto, ancorché non espressamente codificato, viene predicato quale diretto corollario dei doveri di solidarietà sociale di cui all’art.2 Cost, e viene così ritenuto un limite interno a qualsiasi diritto soggettivo. Più nello specifico, discenderebbe dal divieto di atti emulativi ex art.833 c.c. – per quanto attiene ai diritti reali -, e dal dovere di buona fede ex artt.1174 e 1375 – per quanto attiene ai diritti di credito -.

L’abuso del diritto costituisce, come ribadito a più riprese dalla Cassazione, <<criterio rivelatore della violazione del principio di buona fede oggettiva>>. Dunque, un sindacato del giudice sulle modalità di esercizio del diritto si impone al fine di verificare eventuali abusi nell’esercizio del diritto stesso e, dunque, al fine di appurare eventuali violazioni dell’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto.

La giurisprudenza, specie negli ultimi anni ha valorizzato l’abuso del diritto al fine di colpire con rimedi di esecuzione in forma specifica comportamenti apparentemente legittimi ma di fatto contrastanti con la clausola generale della buona fede oggettiva.

Pensiamo alla giurisprudenza che, nell’ambito dei contratti bancari contenenti una clausola di recesso ad nutum in favore della banca, ha affermato che esso comunque incontri il limite della buona fede oggettiva, pena l’imposizione di un obbligo di rientro immediato. Pensiamo alla sentenza della Cass. che ha affermato l’invalidità della delibera assembleare laddove il diritto di voto sia stato esercitato dalla maggioranza con un intento emulativo, vale a dire al solo scopo di danneggiare la minoranza.

Più in generale, in giurisprudenza si è assistito ad una progressiva trasformazione della buona fede oggettiva da criterio di valutazione del comportamento delle parti al momento dell’esecuzione del contratto, a strumento di integrazione degli obblighi nascenti dal contratto (ulteriori rispetto agli obblighi di prestazione in senso stretto).

Analizzando la disciplina del terzo contratto alla luce delle considerazioni svolte, è evidente come il diritto di recesso riconosciuto all’impresa forte debba essere esercitato nel rispetto della buona fede, pena la configurazione di un abuso (ma secondo parte della dottrina sarebbe in tal caso più corretto parlare di uso scorretto, più che di abuso) della sua libertà di autodeterminazione negoziale.

Abuso che, peraltro, viene sanzionato con un rimedio di carattere reale, appunto consistente nella nullità del relativo accordo.

La peculiarità della disciplina del terzo contratto rispetto a quella codicistica risiede in definitiva nel fatto che l’abuso del diritto, che è una scorrettezza comportamentale, viene sanzionata con un rimedio di carattere reale, e non si arresta invece al mero piano risarcitorio. Ciò, evidentemente, per la logica più marcatamente protettiva e per la conseguente maggiore enfatizzazione della clausola generale della buona fede.

Tale conclusione, comunque, non stride con quanto ripetutamente ribadito dalla Cass. in merito alla netta separazione tra il piano delle regole di comportamento (la cui violazione può comportare solo conseguenze risarcitorie) e il piano delle regole di validità (la cui violazione prova l’attivazione di rimedi caducatori o modificativi incidenti sul contratto).

La previsione della nullità del patto con cui si realizza l’abuso di dipendenza economica è infatti un’ipotesi di nullità testuale, che dunque non contraddice quella regola generale.

Delle riserve possono essere mosse, invece, riguardo la giurisprudenza poc’anzi citata in merito al recesso della banca e all’invalidità delle delibere assembleari. La quale, accordando un rimedio di esecuzione in forma specifica a fronte di comportamenti scorretti della parte, pare sovrapporre i due piani.

Tirando le fila di tutto quanto finora detto, anche nell’ambito del c.d. terzo contratto le parti sono libere di determinare il contenuto del contratto, e di apporvi clausole che attribuiscono all’impresa forte un diritto di recesso ad nutum. In tal caso però, stanti le esigenze di protezione del contraente debole, si impone un sindacato da parte del giudice sulle modalità di esercizio del diritto, in particolare sulle ragioni della scelta di recedere dal contratto. Ove da tale sindacato emerga che il diritto non sia stato esercitato nel rispetto dell’obbligo di buona fede oggettiva ex art.1375 c.c., il recesso non potrà produrre i suoi effetti e la parte resterà vincolata al contratto.

L’abuso potrebbe realizzarsi anche tramite l’imposizione di condizione inique per la stipula di un nuovo contratto (alle quali l’impresa debole è costretta a cedere a fronte del ricatto di controparte di recedere dal contratto stipulato precedentemente). Anche in tal caso è ammesso un sindacato del giudice, che stavolta ha ad oggetto, non tanto le ragioni della scelta negoziale, ma l’equilibrio economico del contratto. Con la conseguenza che il divieto di abuso del diritto, in collegamento con l’equità quale fonte di eterointegrazione del contratto, comporterà una modifica/integrazione del regolamento contrattuale (ivi compresa della clausola sull’entità del corrispettivo) per via dell’intervento del giudice.


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