Natura giuridica della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art 131-bis c.p.
L’art. 131-bis c.p. è stato introdotto dal Legislatore con il d.lgs. n. 28/15. Tale istituto costituisce una causa di esclusione originaria della colpevolezza, sussistente al momento della commissione del fatto di reato, che non esclude lo stesso ma la applicazione della pena per ragioni di opportunità. Nel caso di specie, la norma esclude la punibilità quando l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Occorre osservare che l’istituto disciplinato dalla disposizione di cui si discute risulta permeato da principi cardine dell’ordinamento, quali quello di offensività, per il quale devono essere punite solo quelle condotte che ledono il bene tutelato o lo espongono a pericolo, e quello di proporzionalità, secondo cui la pena non può mai essere più severa rispetto al fatto commesso e deve tendere alla rieducazione del soggetto, secondo quanto disposto dall’art. 27 co. 3 Cost.
Riguardo alla natura giuridica dell’art. 131-bis c.p., poi, è necessario rilevare che in materia non vi è unanimità di vedute. Da una parte, infatti, si afferma che la norma de qua abbia natura sostanziale, dall’altra processuale.
Per quanto concerne la prima tesi, si osserva che la disposizione esclude la punibilità dei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni ovvero la pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa risulta di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Nei casi delineati dalla norma, il reato risulta commesso ed è in contrasto con l’ordinamento in quanto antigiuridico, ma non è punito per la propria particolare tenuità, come già affermato. Attraverso tale previsione normativa, il Legislatore esprime la propria intenzione a non voler punire tutti quei fatti di reato che non sono ritenuti meritevoli di essere sanzionati, in quanto non sussiste la necessità di rieducare il soggetto agente in relazione alla condotta da lui tenuta.
Giova rilevare che vi sono altre disposizioni all’interno del codice ispirate alla stessa ratio di quella in analisi. L’art. 115 c.p., ad esempio, statuisce espressamente al primo comma che qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato e questo non è commesso, nessuna di esse è punibile per il solo fatto dell’accordo, salvo che la legge non disponga diversamente. Di parte speciale, invece, giova segnalare gli artt. 308, 387 co 2 e 463 c.p. che non prevedono la punibilità, escludendo, quindi, l’irrogazione della sanzione nei casi da esse disciplinati.
Oltre a quanto detto, è necessario evidenziare che l’articolo de quo produce effetti anche sul piano processuale, come già evidenziato. Secondo il Legislatore del 2015, in un’ottica deflativa del contenzioso, costituisce un inutile dispendio di tempo ed energie proseguire un giudizio relativo ad un reato destinato a non dover essere punito per la propria tenuità. In materia, si evidenzia l’art. 469 c.p.p. in tema di proscioglimento prima del dibattimento. La norma statuisce al comma 1 bis che la sentenza di non doversi a procedere è pronunciata anche quando l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 131-bis c.p.. Secondo tale previsione normativa, quindi, la causa di non punibilità è concepita come causa di improcedibilità in ambito processuale. A sostegno di quanto affermato, si richiama anche l’art. 425 c.p.p., ricompreso nel libro V, titolo IX relativo all’udienza preliminare. Detta norma dispone che il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere se si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, così ricomprendendo anche l’ipotesi di cui all’art. 131-bis c.p..
Alla luce delle disposizioni richiamate, dunque, risulta la volontà del Legislatore di voler considerare la circostanza secondo la quale il soggetto non risulta punibile ex art. 131-bis c.p. come causa di improcedibilità, al fine precipuo di interrompere un’azione penale che non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita. In virtù delle dichiarazioni svolte, appare chiara la natura ibrida dell’articolo in analisi, il quale sortisce effetti sia sul piano sostanziale che processuale.
Occorre inoltre soffermarsi sull’applicabilità della disposizione citata in caso di continuazione. In primo luogo, giova chiarire cosa sia il reato continuazione, per tale intendendosi quella fattispecie caratterizzata da singoli reati unificati dal medesimo disegno criminoso, ma ognuno col proprio tempus commissi delicti. Orbene, nella fattispecie, la sussistenza della continuazione preclude l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. medesimo. Dal tenore letterale della norma, infatti, si evince chiaramente che la punibilità è esclusa quando l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Al fine di comprendere il concetto dell’abitualità da ultimo richiamato, il terzo comma dello stesso articolo afferma che il comportamento è tale nel caso in cui l’autore abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Ad avallare quanto affermato, anche la giurisprudenza ha sostenuto l’ identità concettuale tra la continuazione e l’abitualità. Entrambi i concetti, infatti, esprimono l’idea di una reiterazione nel tempo di condotte criminose da parte dell’agente che collidono con il dettato di cui all’art. 131-bis c.p. e, in special modo, con i criteri di commisurazione della pena di cui al successivo art. 133 c.p. co. 2 n. 2 e 3.
In conclusione, risulterà punibile colui che abbia posto in essere più fatti di reato, anche se particolarmente tenui, che danno prova di una determinata propensione a delinquere del soggetto.
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Fabio Piedigrotta
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