Negozi mortis causa e negozi post mortem: la peculiare natura del contratto di divisione ereditaria

Negozi mortis causa e negozi post mortem: la peculiare natura del contratto di divisione ereditaria

I negozi mortis causa costituiscono fattispecie negoziali che disciplinano la vicenda successoria, disponendo per il tempo successivo alla morte dell’autore del negozio. La morte si configura quale causa stessa dell’attribuzione patrimoniale, senza la quale il negozio giuridico non produrrebbe alcun effetto.

Nel nostro ordinamento giuridico, il testamento è l’unico negozio giuridico ammesso a regolamentare la vicenda successoria. Difatti, il codice civile, all’art. 458, pone un preciso divieto, presidiato dalla sanzione della nullità, dei cd. i patti successori, ovvero dei negozi a causa di morte a mezzo dei quali si dispone di un’eredità propria o altrui per convenzione, con l’unica eccezione dell’ipotesi peculiare del patto di famiglia.

Dal negozio mortis causa, rispetto al quale la morte funge da causa dell’attribuzione patrimoniale, occorre distinguere il negozio inter vivos con effetti post mortem, rispetto al quale la morte costituisce solo la condizione di efficacia del contratto, ma non causa dell’attribuzione medesima. La distinzione tra le due categorie negoziali attiene, pertanto, alla qualificazione dell’evento morte dell’autore del negozio quale causa o meno dell’attribuzione patrimoniale con importanti ripercussioni in punto di validità del negozio giuridico.

In tal senso, un’ipotesi paradigmatica è rappresentata dal contratto a favore del terzo ai sensi dell’art. 1412 c.c., rubricato “Prestazione al terzo dopo la morte dello stipulante”, rispetto al quale la prestazione nei confronti del terzo deve essere eseguita dal promittente dopo la morte dello stipulante. In questa ipotesi, il terzo acquista il diritto verso il promittente in virtù del contratto concluso fra quest’ultimo e lo stipulante. Pertanto, in tale fattispecie l’evento morte non viene in rilievo quale causa dell’attribuzione patrimoniale, ma si configura quale contratto inter vivos in virtù del quale il terzo acquista immediatamente il proprio diritto, pur potendo beneficiare della prestazione solo post mortem.  In quest’ottica, si spiega la validità del detto contratto, che non ricade nel divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c., poiché non si tratta di contratto mortis causa, operando la morte unicamente quale condizione di efficacia del contratto, e non come causa dell’attribuzione patrimoniale.

Un’ipotesi esemplificativa di prestazione in favore del terzo dopo la morte dello stipulante è rappresentata dal contratto di assicurazione sulla vita disciplinato ai sensi degli artt. 1919 e seguenti del codice civile.

In particolare, l’assicurazione sulla vita è definita dall’art. 1882 c.c. a mezzo del quale la compagnia assicurativa si obbliga a corrispondere “un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente alla vita umana”. Tale evento è costituito dalla morte o dalla sopravvivenza ad una determinata età e può riferirsi tanto alla vita del contraente, quanto alla vita di un terzo. Quest’ultima fattispecie è richiamata dall’art. 1920 c.c., che stabilisce la validità del contratto di assicurazione sulla vita a favore del terzo, il quale acquista il diritto ai vantaggi dell’assicurazione per effetto della mera designazione, che può essere effettuata nello stesso contratto, oppure con successiva dichiarazione scritta comunicata all’assicuratore, o per testamento.

Tale fattispecie contrattuale costituisce, pertanto, un’ipotesi peculiare del contratto a favore del terzo ex art. 1411 c.c. e s.s. poiché il terzo acquista il proprio diritto non in virtù della stipula, ma in forza della predetta designazione. Inoltre, il diritto del beneficiario a conseguire le indennità da parte dell’assicurazione diventa esigibile solo dopo la morte dello stipulante. In quest’ottica si spiegano le regole poste a tutela della volontà dello stipulante nell’individuazione del beneficiario, che deve essere quantomeno determinato o determinabile al momento della morte del primo, evento a partire dal quale viene corrisposta al terzo l’indennità da parte dell’assicurazione.

Dalla disamina della disposizione in commento, si inferisce, pertanto, che il contratto di assicurazione sulla vita a favore del terzo è riconducibile all’ambito dei contratti inter vivos con effetti post mortem, e non ai contratti mortis causa, costituendo la morte, non la causa dell’attribuzione patrimoniale, ma la condizione di efficacia del contratto medesimo. Difatti, il terzo acquista un diritto autonomo al capitale o alla rendita da parte dell’assicurazione direttamente in virtù della designazione, anche se la relativa corresponsione avviene a seguito della morte dello stipulante.

La stessa problematica attinente alla qualificazione del contratto come negozio inter vivos con effetti post mortem o mortis causa si è posta in relazione al contratto di divisione ereditaria.

Tramite l’istituto della divisione ereditaria i coeredi possono, in qualsiasi momento, far cessare lo stato di comunione sui beni ereditari. In particolare, ai sensi dell’art. 757 c.c. ciascuno dei coeredi ottiene la proprietà esclusiva su parte dei beni ereditari che erano in comunione per un valore corrispondente alla propria quota e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà degli altri beni ereditari. Alla divisione devono necessariamente partecipare tutti i coeredi e la stessa deve avere, di regola, ad oggetto tutte le situazioni giuridiche componenti la comunione ereditaria, pur potendo i coeredi procedere ad una divisione parziale, in virtù della quale parte dei beni ereditari vengono divisi tra gli eredi e parte resta in regime di comunione ereditaria (c.d. stralcio divisionale).

Il nostro ordinamento giuridico prevede, inoltre, diverse forme di divisione ereditaria, potendo lo scioglimento della comunione intervenire tramite accordo tra i coeredi (divisione convenzionale), ad opera dello stesso de cuius nell’ambito del testamento (divisione testamentaria), oppure ad opera del giudice (divisione giudiziale).

In particolare, nella divisione testamentaria, c.d.  divisio inter liberos, disciplinata ai sensi dell’art. 734 c.c., il testatore, nell’istituire gli eredi, provvede già con il testamento alla divisione, attribuendo direttamente i beni, o per intero o per quotine. Pertanto, scaturendo la divisione direttamente dalla volontà del testatore, non vi è dubbio che la divisione testamentaria costituisca un atto mortis causa produttivo di effetti con l’apertura della successione.

Diversamente dalla divisione testamentaria, la divisione convenzionale scaturisce dalla volontà degli eredi: lo scambio del consenso fra gli eredi produce come effetto giuridico lo scioglimento della comunione ereditaria e il successivo c.d. apporzionamento dei beni, con funzione distributiva, fra i coeredi, i quali diventano proprietari esclusivi o comproprietari in comunione ordinaria in virtù di una quotina. Da ciò si deduce che la divisione convenzionale o contratto divisionale, a differenza della divisione testamentaria, non si configura quale negozio mortis causa, poiché, pur iscrivendosi nell’ambito della vicenda successoria, la morte del de cuius costituisce un evento passato rispetto alla divisione ereditaria, che è essa stessa causa dello scioglimento della comunione ereditaria. Ciò determina il carattere di negozio inter vivos del contratto di divisione ereditaria, a differenza della divisione testamentaria.

Ciò posto, occorre dare atto che la natura giuridica del contratto di divisione ereditaria è stata oggetto di dibattito in giurisprudenza.

Difatti, secondo un primo orientamento giurisprudenziale, il contratto di divisione ereditaria veniva configurato come negozio di accertamento, ovvero come contratto avente un’efficacia meramente dichiarativa. In particolare, secondo tale ricostruzione, all’esito della divisione intervenuta per opera di un contratto di mero accertamento, i coeredi diventano titolari esclusivi dei singoli beni o per quotine, acquistando il singolo coerede il bene facente parte dell’asse ereditario direttamente dal de cuius e non dagli altri coeredi, operandosi come se la comunione ereditaria non fosse mai esistita.

A fondamento di tale ricostruzione giurisprudenziale viene posta la norma di cui all’art. 757 c.c. che stabilisce la regola della retroattività dell’acquisto del bene all’esito della divisione. In pratica, in forza di tale disposizione, sui beni che vengono assegnati in seguito alla divisione, l’erede si considera il proprietario fin dall’apertura della successione. E’ evidente che tale norma introduce una finzione del diritto con funzione di retroattività: il legislatore riconduce gli effetti di un atto posto in essere dopo l’apertura della successione al momento dell’apertura della successione nell’intento di assicurare la continuità della titolarità dei beni tra il defunto e l’erede. Di conseguenza, secondo tale tesi il contratto che scioglie la comunione ha un’efficacia meramente dichiarativa e non costitutiva, poiché l’erede acquista direttamente dal testatore mortis causa.

Secondo un diverso orientamento, fatto proprio dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[1], il contratto di divisione ereditaria non è un contratto di mero accertamento in ragione degli effetti che lo stesso produce, ovvero lo scioglimento della comunione ereditaria e il predetto apporzionamento dei beni.

Nel dettaglio, in base a tale ricostruzione ermeneutica, il contratto divisionale produce due effetti giuridici: una prima modificazione riguarda la situazione giuridica dei coeredi, che da comproprietari in virtù di una quotona, diventano proprietari esclusivi o comproprietari in comunione ordinaria in virtù di una quotina. Un secondo effetto modificativo concerne invece l’oggetto della situazione giuridica, poiché prima del contratto di divisione, l’oggetto della comproprietà è costituito dal patrimonio ereditario quale universalità, mentre in seguito alla divisione ereditaria, l’oggetto della situazione giuridica dell’erede è rappresentato dal singolo bene. Pertanto, secondo le Sezioni Unite il contratto di divisione non produce un effetto di mero accertamento, implicando, al contrario, un effetto costitutivo, definito dalle stesse come “sostanzialmente traslativo”. Ciò in quanto con la divisione il coerede perde la comproprietà sul patrimonio ereditario e acquista la proprietà esclusiva sui singoli beni o la quota ideale di comunione ordinaria sui singoli beni.

A fondamento della tesi sposata dalla Suprema Corte è, peraltro, posta la stessa norma dalla quale parimenti trae ispirazione la tesi opposta della divisione come contratto di accertamento, ovvero l’art. 757 c.c. interpretato in maniera del tutto diversa. Si sostiene, infatti, che se il contratto di divisione fosse un contratto di mero accertamento, la norma di cui all’art. 757 c.c., che sancisce la retroattività degli effetti attraverso una finzione del diritto, sarebbe una norma inutile, poiché se la divisione è un contratto di accertamento l’erede acquista dal de cuius fin dal momento della morte con un effetto naturalmente retroattivo. Invece, secondo la tesi avvalorata dalla Suprema Corte, l’esistenza stessa dell’art. 757 c.c. si giustifica proprio perché il contratto di divisione non è un negozio di mero accertamento, bensì un contratto costitutivo, sostanzialmente traslativo e come tale abbisogna del meccanismo proprio della norma in commento, che introduce una finzione del diritto implicante la retroattività degli effetti rispetto ad un negozio i cui effetti non retroagirebbero naturalmente.

A conclusione di tale disamina, è d’uopo evidenziare come nel nostro ordinamento giuridico la distinzione tra negozi mortis causa e negozi inter vivos con effetti post mortem sia fondamentale, giacché dalla stessa dipende la validità del singolo contratto: se il contratto è un contratto mortis causa, assurgendo la morte a causa stessa dell’attribuzione patrimoniale, il medesimo è un contratto nullo, ad eccezione del testamento, se invece il contratto è un contratto inter vivos rispetto al quale la morte funge da mera condizione di efficacia del contratto se ne afferma la sua validità.

 

 

 

 

 


[1] Cass. civ., Sez. Un., 7 ottobre 2019, n. 25021

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