Negozio giuridico, sviluppo della nozione, ricostruzione storica [I Parte]
Negozio giuridico in diritto romano. Per analizzare l’essenza del negozio giuridico, occorre anteporre l’indagine storica, tenendo conto della circostanza che molti dei dibattiti che si svolgono oggi si riferiscono e ricollegano a spunti di due secoli fa. La categoria negoziale è stata oggetto di diatribe, che si sono replicate, per cui gli elementi di tali controversie, secondo un meccanismo di circolarità, tornano a essere vitali nel tempo.
In diritto romano, la categoria del negozio giuridico è definibile come un atto privato di disposizione giuridica, ossia una manifestazione di autonomia privata con finalità lecita. In questa ampia accezione, vengono ricompresi non solo i diritti soggettivi, ma anche altre complesse situazioni quali la patria potestas, la libertas, la manus e il mancipium su liberi alieni iuris, l’hereditas. La conseguenza dell’atto negoziale è la modificazione, estinzione o costituzione di situazioni giuridiche.
Pur mancando un’elaborazione unitaria del concetto, per quanto è possibile desumere dalle fonti, permane nel giurista romano una più o meno palese consapevolezza della natura unitaria dell’atto dispositivo, individuato come negozio giuridico, come è ad esempio dimostrato dalla circostanza che nelle fonti si contrappongono atti mortis causa e atti inter vivos, l’unitarietà di atti dispositivi privati e l’utilizzo di termini dal contenuto generale come res e, appunto, negotium . Nei lessici i termini res e negotium sono utilizzati nel senso di “affari”, in quanto sinonimi.
Conferma quanto adesso asserito l’elaborazione in materia di contractus, come fonte di obbligazione e l’attribuzione di un valore significativo alla volontà di chi desidera porre in essere degli effetti giuridici. Va, altresì, sottolineato che un’attenta lettura delle fonti porta a enucleare la creazione, ancorché implicita, di un concetto sostanziale di negozio giuridico bilaterale, come produttivo di effetti giuridici, reali od obbligatori. Più esattamente, il termine contractus, in una fase più risalente, indica anche ogni fonte di obbligazione derivante da fatto lecito, ossia non solo l’accordo idoneo a produrre effetti obbligatori, ma anche fatti leciti in assenza di accordo (come nel caso della gestione di affari altrui, la quale successivamente assume una sua giuridica autonomia)[1].
Nelle “Institutiones” di Gaio nell’elenco delle obbligazioni vi sono quelle ex contractu. In tutte è richiesto come elemento essenziale il consenso. Questo sarà sufficiente solo nelle obligationes consensu, e dovrà, invece, essere accompagnato da comportamenti predisposti nelle altre ipotesi della classificazione istituzionale (consegna, pronunzia verbale di parole, scrittura di lettere). Si riscontra una cesura e contraddizione nella argomentazione di Gaio.
Scuole di pensiero intorno al concetto di negozio giuridico. Per approdare a una più compiuta analisi delle sfaccettature della nozione di negozio giuridico, occorre vagliare che cosa è stato sostenuto in rapporto a tale concetto da talune scuole di pensiero gius-filosofiche.
La nozione in parola è stata ricondotta all’opera di Nettelbladt, successivamente sviluppata dalla scuola storica e dalla Pandettistica tedesca. Vi sono delle critiche a queste conclusioni, in quanto già nel XII sec. si segnala un utilizzo del termine, con un significato affine a quello moderno. Tale ultimo uso a volte è strumentale a richiamare il significato con cui questo termine è stato utilizzato in epoca precedente.
Il negozio giuridico, come sopra accennato, viene sondato anche dal giusnaturalismo, in cui il piano fattuale si connette con quello normativo, Si oltrepassa la formalizzazione, creando i presupposti per applicare il meccanismo giuridico in modo più ampio. Progressivamente, da una mera descrizione dell’operazione giuridica, si passa a una prescrizione delle modalità della medesima, vale a dire che è proprio il negozio giuridico a determinare l’effetto. Da ciò la “giuridicità” del medesimo. Siattribuisce rilievo all’uomo e alla ragione, con conseguente “laicizzazione” del diritto positivo e focalizzazione sull’obbligo di rispettare i patti, con un transito dal diritto pubblico al diritto privato di questo principio. L’aspetto formalistico è estraneo all’essenza della struttura essenziale dell’accordo, fondato sul nudo consenso. Peraltro, il diritto resta distinto dalla volontà del singolo individuo, essendo, semmai, possibile configurare un’identità fra diritto e l’aggregazione della volontà di parte dei consociati. Nettelbladt legge il contratto come categoria di un genus più ampio in cui è presente la volontà del singolo o, meglio, l’aggregazione e sintesi della volontà di una parte dei consociati come elemento prevalente. Ciò porta a enucleare una categoria generale, in cui la volontà possa essere incorporata come essenziale, ossia il negozio giuridico. Peraltro, in questa maniera, le dichiarazioni di volontà vengono considerate in modo isolato, rispetto al sistema e vengono posposte rispetto alle dichiarazioni di scienza. Non vi è un approfondimento della categoria del negozio giuridico. In ogni modo, si individua un rapporto di causalità fra volontà ed effetto giuridico, senza tuttavia analizzarne in modo esauriente le sfaccettature.
Il riferimento ai “patti” si collega logicamente in misura maggiore con il contratto, piuttosto che con il negozio. In ambito contrattuale, il privato non può esprimere una volontà diversa da quella originariamente esternata, in ambito negoziale il privato ha una funzione maggiormente creativa dei precetti giuridici. Il negozio giuridico ingloba in sé il contratto.
E’ lo storicismo, invece (Savigny), che tenta di ottemperare al compito di costruire una teoria generale del negozio giuridico. Anche per lo storicismo gli istituti preesistono nella loro realtà sociale. Il diritto è già nel fatto, ma per lo storicismo il suo fondamento deve collocarsi nei modelli sociali formatisi in una determinata Nazione, in un certo momento storico.
Il giusnaturalismo prende le mosse dal patto per arrivare alla dichiarazione di volontà, mentre lo storicismo si aggancia direttamente alla volontà così come esternata. La nozione di negozio giuridico non è operativa, ove si guardi alla volontà interna, con riferimento ai diritti della persona. Ove la volontà del dichiarante si rivolga all’esterno, se essa incide su beni, si rientra nell’ambito dei diritti reali, nella seconda ipotesi siamo nel campo dei rapporti giuridici e si creano i presupposti perché la volontà del singolo si saldi e cooperi con la volontà di altro soggetto. Si opera la distinzione tra fatto e atto volontario, i quali possono portare alla nascita o allo scioglimento del rapporto giuridico, anche in funzione del successivo conseguimento di scopi non giuridici. Tali fatti possono denominarsi negozi giuridici. Ancora, la volontà dell’agente può essere strumentale all’immediato conseguimento di scopi non giuridici, con conseguente emarginazione dall’interno volere dello scopo non giuridico. Si può configurare una volontà unilaterale dell’interessato o una volontà che si incontri con quella di un altro soggetto, per costruire un contratto. E’ chiaro che la volontà debba in qualche modo essere esternata, per non restare confinata nel foro interno.
La nozione di negozio giuridico viene, pertanto, associata alla Pandettistica tedesca, ma bisogna tener conto della circostanza che questa corrente di pensiero si estrinseca come una metodologia. La piena comprensione della categoria si ottiene, come si è potuto comprendere, se si esamina l’elaborazione della teoria del negozio nel graduale passaggio dallo storicismo al positivismo. Lo storicismo considera il rapporto giuridico, e il negozio, una realtà già esistente nell’ambito sociale. Per il positivismo, analogamente, il rapporto e il negozio non sono entità collocabili al di fuori del diritto: infatti, la loro giuridicità promana dall’ordinamento.
Il problema principale va identificato nella causalità giuridica del negozio, ossia il meccanismo attraverso cui si riconnette all’autonomia privata la produzione effettuale nel campo giuridico. In quest’ottica i termini del problema appaiono con tutta evidenza. Lo storicismo ritiene che il negozio (cioè la volontà creatrice del privato) esista già prima e oltre l’ordinamento, il quale si deve limitare ad un suo riconoscimento. Operata tale deduzione, peraltro, è chiaro perché alla volontà del singolo siano ricollegati effetti sul piano giuridico, data la sua preesistenza. Il positivismo, invece, ritiene che il negozio sia una creazione dell’ordinamento. Adottando questa ricostruzione, è evidente come la produzione effettuale dello stesso riposi esclusivamente sulla sua giuridicità. In questo ordine di idee, tuttavia, appare arduo da spiegare come sia possibile che gli effetti derivino allo stesso tempo dalla volontà del privato e dall’ordinamento. Infatti, si ha una alternativa. Accogliendo una posizione squisitamente formalistica, si rischia di trasformare il negozio in un semplice fatto giuridico (cioè di ritenere che il negozio produca effetti automaticamente, in ragione della sussunzione del fatto nella norma, al di là della volontà del privato). Dando, per contro, un eccessivo rilievo alla volontà del singolo (e dunque ritenendo che sia questa a produrre automaticamente gli effetti) si rischia di entrare in contraddizione con le premesse di partenza, ossia il collegamento con l’ordinamento in generale.
Ciò asserito, è possibile ora passare all’analisi della dottrina successiva allo storicismo. Nella moderna dogmatica, le varie correnti di pensiero si sono succedute in due grandi filoni, ossia le teorie soggettive ed oggettive. Si può anche accedere a una tripartizione, fra teoria della volontà, teoria della dichiarazione e teoria precettiva. Per la teoria della volontà, l’effetto viene prodotto tramite l’ordinamento giuridico, che rappresenta il sostrato concettuale in cui la volontà agisce e i limiti dell’ordinamento andranno osservati nella valutazione degli effetti della dichiarazione di volontà. Il negozio si compendia nella volontà dell’autore. Le divaricazioni fra volontà e dichiarazione vanno a favore della volontà, salve rarissime eccezioni. E’ carente, peraltro, l’indagine psicologica sulla volontà e sul suo oggetto, con una confusione concettuale fra operazione, dichiarazione e volontà. Vi è una circolarità in cui sembra che volontà dell’ordinamento e volontà del dichiarante si inseguano a vicenda. La categoria negoziale pecca di astrattezza, anche se poi tale postulato va analizzato in sede di realtà ordinamentale. Può opinarsi che in questa maniera (priorità degli effetti giuridici) si crei una interferenza fra autonomia privata e ordinamento, oltre a problemi di identificazione del negozio giuridico, rispetto ad altri fatti giuridici. In tal modo, peraltro, si sottovaluta la funzione produttiva della volontà, omettendo una giustificazione della categoria.
Riguardo alla distinzione tra effetti materiali e giuridici, entrambe le categorie possono ricondursi alla volontà, nel senso che la componente di essa avente carattere immediato si riferisce all’operazione empirica e concreta, mentre la volontà mediata attiene all’effetto giuridico. In ogni caso, se la volontà nelle sue multiformi sfaccettature, è orientata a ottenere un certo effetto empirico-economico, ellitticamente essa appare indirizzata anche a conseguire il corrispondente effetto giuridico. Viene, in ogni modo, in considerazione la distinzione tra negozio giuridico e fatto illecito compiuto e voluto dall’agente con accettazione delle conseguenze derivanti da tale fatto (si pensi alla categoria penalistica del dolo eventuale).
L’elemento propulsore della realtà negoziale viene identificato solo nella dinamica della volontà. Diventa non spiegabile per quale ragione, nell’ipotesi del negozio, la volontà operi come condicio sine qua non, e non così nell’ipotesi del fatto illecito.
Si è ipotizzato che la legge di copertura, cristallizzata nella volontà della parte, o dell’aggregazione della volontà di alcuni consociati, sia presente solo in alcune ipotesi, secondo criteri di matrice statistica, ma questo è stridente con la necessità della causalità nel settore giuridico.
Si possono considerare volontà e dichiarazione entrambe necessarie per la produzione dell’effetto giuridico-negoziale. La seconda resta, in ogni caso, subordinata alla prima e questa viene considerata solo sul piano psicologico.
Si può incorporare la volontà all’interno di una fattispecie. Si avrà la volontà dell’atto, che va posta accanto alla dichiarazione e agli effetti giuridici. Questa ricostruzione può marginalizzare il ruolo della volontà o, quantomeno, parificare questa alla dichiarazione. Gli effetti di diritto derivano dalla sussunzione della volontà marginalizzata nella statuizione legislativa. La volontà diventa un presupposto della fattispecie e si oggettivizza in essa, perdendo la propria natura o spezzando il carattere unitario del negozio, attraverso una confusione con la dichiarazione. Un rischio correlato è quello di negare autonomia alla categoria negoziale, rispetto al fatto giuridico.
Nel secolo XIX le fonti giustinianee costituiscono diritto vigente in Germania e proprio dallo studio di esse si valorizza la categoria del negozio giuridico come paradigma della manifestazione di volontà di produrre effetti giuridici. Ciò può considerarsi un prisma con cui il diritto civile può essere letto nella sua interezza e, quindi, il negozio giuridico è una dichiarazione di volontà, che produce, modifica, estingue un effetto giuridico.
Dall’impostazione, propria della Pandettistica tedesca, in cui il concetto di negozio giuridico viene elaborato, discende una tendenziale non univocità della nozione in parola, il che richiede una riflessione sulla circostanza che la stessa può essere intesa in modo diversificato, secondo la prospettiva che si accolga. Potrebbe, in teoria, esservi una divaricazione di significato fra due interlocutori, che si riferiscano al medesimo concetto.
Il negozio giuridico è l’atto di volontà, mediante il quale il privato disciplina certi effetti, traducendo e giuridicizzando i propri interessi individuali, proprio nel tentativo di costruire una veste giuridica per i propri interessi. In questa maniera si esplica l’autonomia privata. Si può avere una disciplina puntuale del negozio giuridico, rinvenibile nel testo legislativo, oppure una disciplina demandata all’autonomia privata Ciò è confermato dal principio di atipicità dei contratti del vigente codice civile (art. 1322 c.civ.), Il negozio giuridico stesso rappresenta una categoria di sintesi, che include in sé atti giuridici profondamente diversi, quanto a natura ed effetti giuridici. Il codice civile tedesco del 1896, i cui estensori percepiscono l’attitudine del concetto di negozio giuridico di incorporare istituti diversi, quali il contratto, il testamento, il matrimonio, nella parte generale introducono in maniera espressa il concetto di negozio giuridico (Rechtsgeschäft) e, sul piano definitorio, qualificano il medesimo come dichiarazione di volontà (Willenserklärung).
[1] Si può ricordare che in epoca moderna certa dottrina ha elaborato l’idea della configurazione di un “contratto senza accordo”. Riguardo a questo aspetto, assume contenuto rilevante il peso e il senso che si dia al paradigma dell’“accordo”, il quale può essere concepito come fusione delle volontà delle parti oppure come convergenza delle aspettative delle parti in rapporto a determinate modificazioni patrimoniali. Nel nostro diritto civile, la configurazione di contratti senza accordo viene ancorata alla normativa sul contratto con obbligazioni a carico del solo proponente, delineata dall’art. 1333 c. 1. La mancata opposizione del destinatario alla proposta nel termine collegato alla natura dell’affare o agli usi implica conclusione del contratto. Orbene, si può attribuire natura di dichiarazione tacita al silenzio dell’oblato, ossia al destinatario della dichiarazione, ma non tutti accettano questa ricostruzione, la quale viene reputata una finzione. Si può escludere che l’accordo sia elemento necessario del contratto o affermare che il c.d. contratto con obbligazioni a carico del solo proponente non sia in realtà un contratto. E’ stata elaborata l’opinione della configurabilità di “scambi senza accordo”, con riferimento all’assenza di dialogo nelle contrattazioni di massa, in cui vi è una mera convergenza di dichiarazioni unilaterali sul bene. Vi è anche in tal caso il tentativo di separare il contratto dall’accordo, in modo tale da potersi configurare una estensione del primo, fino a ricomprendere gli atti unilaterali convergenti su un unico bene. Pertanto, si configurano due opinioni, la prima, secondo cui il dialogo non è necessario perché vi sia contratto, detto altrimenti non è necessaria la presenza di homines loquentes, coinvolti giuridicamente nella convergenza sul bene. Vi è chi ritiene che l’accordo implichi necessariamente il dialogo, pervenendo alla categoria degli scambi senza accordo, ossia contratti senza accordo (IRTI, SACCO). Altra concezione presuppone che il contratto sia accordo (GALGANO).
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Salvatore Magra
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