Nel processo penale sms e conversazioni WhatsApp hanno natura di prova documentale
La Corte di Cassazione ha confermato, con la sentenza n. 17552 del 2021, l’orientamento ormai consolidatosi negli ultimi anni in riferimento alla natura documentale, ai sensi dell’art. 234 c.p., dei messaggi e delle chat whatsapp prodotte nel contesto di un processo penale anche attraverso semplici screenshots.
La pronuncia trae le sue origini dalla decisione della Corte di Appello di Trieste che aveva confermato la sentenza del locale Tribunale di primo grado con la quale l’imputato era stato ritenuto colpevole dei delitti di cui agli artt. 424 c.p., primo comma, e 612 bis c.p., commi primo e secondo, con condanna alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento danni nei confronti della ex compagna.
Parimenti, però la stessa Corte rigettava l’appello di parte civile sostenendo che i figli della coppia non fossero vittime dirette dei delitti di stalking e di lesioni, seppure avessero assistito a tre episodi di violenza, e che non vi fosse alcun nesso eziologico tra la condotta dell’imputato ed il disagio loro derivato.
La Corte territoriale sosteneva, in motivazione, che “non vi erano ragioni per disporre richiesta di perizia in relazione all’autenticità dei messaggi che la persona offesa aveva prodotto in foto affermando che le erano stati inviati dall’imputato, avendone costui il prevenuto confermato il contenuto, in sede di interrogatorio”.
Avverso tale decisione, l’imputato proponeva ricorso, a mezzo del suo difensore, articolando le proprie censure in tre motivi.
Il motivo, che qui è d’interesse, censurava l’inosservanza della legge processuale in riferimento alla pronuncia, da parte del Tribunale (confermata in appello), dell’ordinanza del 24 maggio 2017, con la quale era stata rigettata l’istanza di procedere ad accertamenti tecnici atti a dimostrare l’autenticità dei messaggi telefonici prodotti dalla persona offesa nella mera forma fotografica. Una forma non consentita, come aveva precisato la Corte Suprema nella sentenza n. 49016/2017.
La V Sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema inserendosi nel solco dell’orientamento giurisprudenziale di legittimità consolidatosi negli ultimi anni.
La Corte ha ritenuto manifestamente infondato il motivo di doglianza di parte ricorrente in quanto “i messaggi whatsapp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p., sicchè è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza di cui all’art. 254 c.p.p., non versandosi nel caso della captazione di un flusso di comunicazioni in corso, bensì nella mera documentazione ‘ex post’ di detti flussi”[1].
Nella sentenza in commento, la Corte, pertanto, non solo conferma l’orientamento andato consolidandosi negli ultimi anni e che riconosce pieno valore a questo tipo di produzione, ma smentisce, altresì, l’esistenza di pronunce di segno diametralmente opposto, a differenza di quanto sostenuto da parte ricorrente.
È interessante il passaggio in cui la Corte, ribadendo quanto ormai sancito dalla giurisprudenza di legittimità che attribuisce il valore di prova documentale ai sensi dell’art. 234 c.p.p. a tali produzioni, traccia una netta distinzione tra la natura di tali prove e quella delle registrazioni e delle intercettazioni.
Trattandosi, infatti, in tali casi, di conversazioni “ex post”, e non in corso, si sfugge alla disciplina delle intercettazioni o delle semplici registrazioni, perché non si versa nell’ipotesi di comunicazioni in corso, ma di documentazione “ex post” di detti flussi.
La produzione di una conversazione ormai cessata e rappresentata, anche solo mediante screnshots, “ex post”, consente, dunque, la sua introduzione nel procedimento come mero documento, come una fotografia la cui rilevanza ed attendibilità saranno valutate, al pari di altri documenti, dal giudice.
Per tali motivi, sempre la Corte ha ribadito che “è legittima l’acquisizione come documento di messaggi sms (nel caso di specie, inviati dall’imputato sul telefono cellulare della madre della persona offesa e da questa fotografati e consegnati alla polizia giudiziaria) mediante la realizzazione di una fotografia dello schermo di un telefono cellulare sul quale gli stessi sono leggibili, sempre considerando che si trattava di un’attività di mera documentazione, ancorchè per immagini, dei medesimi”[2].
Ugualmente, la Cassazione ha smentito la tesi difensiva circa la necessità di un accertamento tecnico sui messaggi oggetto di produzione fotostatica.
Nela pronuncia citata dal ricorrente, n. 49016/2017, la Corte non solo non ha ritenuto necessario tale approfondimento tecnico, ma ha, altresì, confermato la legittimità dello screenshot quale prova documentale liberamente valutabile dal giudice.
Nella sentenza menzionata, la Corte ha solo confermato la legittimità del provvedimento del giudice di merito, che, in quel caso, aveva ritenuto opportuno procedere ad ulteriore accertamento circa l’origine dei messaggi; ma tale decisione riguardava esclusivamente quel caso specifico e non fissava alcuna regola generale.
A maggior ragione, nel caso odierno, va sottolineato che lo stesso ricorrente, in sede dibattimentale, aveva ammesso di aver inviato i messaggi prodotti dalla querelante.
Di tali messaggi, inoltre, è stato chiesto dal ricorrente accertamento tecnico solo in un secondo momento, perché a suo dire non esistevano più sul dispositivo dello stesso, perché eventualmente cancellati.
La Corte, con la sentenza in oggetto, dichiara inammissibile il ricorso, valutando alla stregua del primo motivo di doglianza, anche gli altri due.[3]
[1] Sez, 6, n. 1822 del 12/11/2019 dep. 17/01/2020, Tacchi, Rv. 278124;
[2] Cass. pen., Sez. III, n. 8332 del 06/11/2019 dep. 02/03/2020, Rv. 278635;
[3] Col secondo motivo di doglianza il ricorrente lamentava la violazione di legge in riferimento alla ritenuta persuasività del compendio probatorio relativo al delitto di cui al capo A della rubrica, ossia il danneggiamento seguito da incendio; col terzo motivo lamentava la violazione di legge in ordine alla mancata riqualificazione del fatto contestato ai sensi dell’art. 612 bis c.p., nell’ipotesi gradata punita ex art. 660 c.p.;
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Adriana Arcari
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