Nella separazione è l’obbligato agli alimenti a dover provare il rifiuto del coniuge ad occasioni lavorative migliori

Nella separazione è l’obbligato agli alimenti a dover provare il rifiuto del coniuge ad occasioni lavorative migliori

Cass. Civ., Sez. VI – 1, Ord. 10 maggio 2021, n. 12329

La Corte di Cassazione ha stabilito che è ben vero che la prova dei presupposti per il riconoscimento dell’assegno incombe su colui che chieda il mantenimento (Cass., 20/03/2018, n. 6886), e tuttavia è altresì evidente che, a fronte dell’accertamento positivo dei presupposti, compresa la mancanza di colpa del coniuge istante nel non riuscire a reperire un’occupazione confacente, operata dal giudice di merito sulla base delle allegazioni e dei riscontri probatori offerti dal coniuge richiedente, ricade sui colui che intenda contestare siffatta ricostruzione indicare, nel ricorso per cassazione – in adempimento del principio di autosufficienza – gli elementi di segno contrario allegati in sede di merito, e non valutati dal giudice di seconda istanza”.

La pronuncia in esame esprime, peraltro in maniera quanto mai sintetica ma altrettanto esaustiva, un criterio distintivo in tema di onere della prova ai fini del riconoscimento dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge separato economicamente più debole e segna, pertanto, un ulteriore passo a tutela della posizione giuridica e processuale di quest’ultimo a dimostrazione dell’attenzione con la quale i Giudici di legittimità guardano alle problematiche economiche e patrimoniali che contraddistinguono le situazioni di crisi familiare e matrimoniale purtroppo sempre più frequenti.

Innanzitutto occorre rilevare come la Corte di Cassazione, sia pure in via incidentale, abbia chiarito e ribadito per l’ennesima volta che “la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass., 16/05/2017, n. 12196; Cass., 24/06/2019, n. 16809)”.

Si tratta, invero, di un principio che per quanto possa sembrare scontato, perché insito nella natura di per sé temporanea e del tutto aleatoria rispetto al vincolo matrimoniale dell’istituto della separazione dei coniugi, in realtà assume una rilevanza giuridica imprescindibile poiché su di esso si fonda, appunto, la diversa qualificazione che i Giudici devono attribuire ai presupposti che contraddistinguono l’assegno di mantenimento rispetto a quelli che connotano, invece, l’assegno divorzile.

Non è, del resto, casuale il fatto che tale principio sia stato poi ulteriormente riaffermato in un’altra significativa pronuncia della stessa Sottosezione della Corte Suprema, successiva di soli tre giorni a quella oggi in commento, nella quale analogamente è stato sancito che “la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli “necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio” (Cass. Civ. Sez. Sesta – Sottosezione Prima – ord. n. 12802 del 13.05.2021).

Come vediamo, pertanto, in regime di separazione personale dei coniugi tutto ruota intorno al concetto di “mantenimento del medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” che di per sé viene assicurato e tutelato proprio sul presupposto che il vincolo matrimoniale si sia solo allentato, de facto, con la separazione ma non certamente interrotto come avviene, invece, nella successiva fase del divorzio e come pertanto a tal fine assumano rilevanza anche i comportamenti tenuti dai coniugi, e segnatamente da quello beneficiario del contributo, per garantirsi o mantenere una adeguata indipendenza economica e far sì che quel “dovere di assistenza materiale” che ancora persiste in questa fase del rapporto matrimoniale non si tramuti in un mero obbligo assistenziale in senso stretto finendo per legittimare magari condotte lassiste, o peggio ancora volutamente omissive, da parte dello stesso coniuge beneficiario.

La problematica, dunque, oggi sottoposta alla nostra disamina è semplice e chiara: una volta che il coniuge richiedente l’assegno di mantenimento abbia dimostrato, in sede giudiziale, la sussistenza dei presupposti di fatto e di legge per averne diritto, a chi compete l’onere di provare una differente sua posizione patrimoniale e lavorativa tale da escludere, o ridurre, detto beneficio economico?

Espresso in questo modo, il quesito sembrerebbe assumere una risposta quasi scontata poiché la distribuzione dell’onus probandi tra i due coniugi contendenti apparirebbe ben delineata nella sua linea di demarcazione, ma in effetti non è propriamente così e del resto il caso oggi prospettato ci dimostra come i due differenti punti di vista, assunti in sede giudiziale, possano avere entrambi un loro fondamento giuridico e come anche la posizione sul punto del coniuge obbligato al mantenimento che pretenda di ottenere dal soggetto beneficiario la dimostrazione dell’impossibilità di trasformare il proprio rapporto di lavoro da part-time a full-time, con conseguente intuibile aumento della capacità reddituale e di stipendio, ovvero del deliberato rifiuto di altre occasioni di lavoro presumibilmente migliorative acquisisca una visuale per certi versi anche condivisibile.

In realtà, a nostro parere, la decisione adottata dai Giudici di appello e di seguito confermata dalla Corte di Cassazione nel caso in esame ci appare maggiormente rispondente ai canoni normativi sopra ricordati, poiché riteniamo più corretto che sia il coniuge obbligato al mantenimento a dare contezza probatoria delle proprie contestazioni circa le predette possibili circostanze impeditive o limitative dell’assegno di mantenimento, rientrando ciò nell’alveo della sua sfera di difesa e non determinando, dunque, alcuna presunta inversione dell’onere probatorio secondo i dettami di cui al noto art. 2697 del Codice Civile.

Al contrario, è nell’ipotesi in cui dovessimo per assurdo aderire alla linea difensiva del coniuge obbligato che si determinerebbe questa inversione dell’onere probatorio perché si porrebbe a carico del soggetto beneficiario l’obbligo di dimostrare fatti e circostanze che nulla hanno a che vedere con i presupposti di fatto che legittimano la sua richiesta di assegno e, quindi, la sua posizione processuale e di difesa, salvo che non sia esso stesso a farsene spontaneamente carico magari per comprovare ulteriormente il proprio assunto difensivo e sensibilizzare, in senso però a sé favorevole, il Giudicante anche ai fini della quantificazione del contributo preteso.

La regola, pertanto, che con l’ordinanza in commento la Corte Suprema ha voluto espressamente dettare è quella di porre a carico del soggetto richiedente il contributo la prova, rigorosa e certa, della sola sussistenza di tutti i presupposti di fatto attestanti la sua legittimazione a riceversi l’appannaggio mensile di mantenimento, compresa anche “la mancanza di colpa […] nel non riuscire a reperire un’occupazione confacente”, spettando poi al soggetto onerato di tale pagamento la dimostrazione degli elementi di segno contrario, e dunque l’eventualità che il coniuge non sia riuscito ad ottenere una modifica del proprio rapporto di lavoro o abbia scientemente rifiutato proposte di lavoro più favorevoli.

Ci sia consentito, in ogni caso, rilevare in proposito come il criterio generale appena enunciato debba essere ovviamente calato sempre nella realtà sostanziale e giuridica della specifica vicenda di volta in volta trattata, con tutte le difficoltà e le oggettive condizioni sociali, personali e familiari che ne derivano, in termini, ad esempio, di età della persona beneficiaria, grado di istruzione della stessa, consistenza anche numerica della famiglia, incidenza degli impegni genitoriali rispetto alle diverse modalità temporali di espletamento dell’attività lavorativa, allocazione del posto di lavoro eventualmente individuato come più favorevole, contesto territoriale dei coniugi.

Si tratta, invero, di elementi fattuali che divergono sensibilmente per ogni singola situazione oggetto di causa e che non possono non incidere, in maniera differente, sulle valutazioni che solo i Giudici di merito sono chiamati ad assumere in proposito, come è noto non suscettibili di riesame in sede di legittimità se congruamente motivate.

Oltretutto, come è dato evincere anche dalla lettura dell’ordinanza in commento, questi stessi elementi assumono un rilievo diverso, sotto un profilo squisitamente processuale, se connessi all’aspetto soggettivo e psicologico del soggetto beneficiario, dal momento che la Corte è abbastanza chiara nel prescrivere che il comportamento omissivo in questione intanto abbia rilevanza solo in quanto lo stesso venga tenuto in maniera “colpevole” e, per ciò stesso, deliberata e che vi sia, dunque, la volontà del coniuge beneficiario di non attivarsi efficacemente per ottenere migliori condizioni lavorative e/o reddituali ovvero di rifiutare scientemente occasioni di lavoro e proposte lavorative oggettivamente migliorative.

Si tratta, invero, pur sempre di una condotta che, se attuata in questa maniera volontaria e deliberata, in un certo senso fa il paio con quella, diametralmente opposta ma del pari stigmatizzabile, del coniuge obbligato che proceda ad un suo licenziamento ovvero ad una riduzione del proprio orario di lavoro per incidere consapevolmente sulle proprie capacità reddituali e, di conseguenza, ridurre l’esborso conseguente al mantenimento o, addirittura, esimersi dal corrisponderlo.

In questo caso, infatti, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 33027/2018, ha ritenuto persino sussistente il reato di violazione degli obblighi familiari, naturalmente in presenza di uno stato di indigenza e necessità dei beneficiari, salvo che si tratti di figli minori, in quanto lo stato di incapacità economica del soggetto obbligato non può ritenersi oggettivo e soprattutto incolpevole, essendo lo stesso riconducibile unicamente ad una scelta preordinata dello stesso e non già ad una sua inabilità, anche parziale, dal lavoro derivante da uno stato di malattia o da altra causa a lui non imputabile.

Correlativamente, pertanto, sia pure su un piano civilistico, dobbiamo ritenere che si debbano valutare, allo stesso modo, possibili ragioni che inducano eventualmente il soggetto beneficiario del contributo di mantenimento a limitare o ridurre le proprie capacità reddituali, mediante appunto il rifiuto ad una prestazione lavorativa temporalmente più lunga, salvo che la scelta non sia connessa alle concorrenti responsabilità genitoriali e familiari che gli derivano anche dalla nuova situazione coniugale, o ad opportunità di lavoro migliorative, per quanto ci sia difficile comprendere le ragioni di una eventuale scelta deliberata di tal genere, a maggior ragione quando la stessa non determini conseguenze pregiudizievoli nella gestione del proprio ambito personale e familiare.

In verità, il problema è molto più ampio ed investe il campo, più generale, dei diritti della persona del quale quello al lavoro è una delle espressioni più alte, costituzionalmente garantita al punto da attenere a pieno titolo alla libera espressione della persona umana, come tale non suscettibile di restrizioni e non è un caso che ancora la Corte di Cassazione, sia pure con un precedente datato nel tempo, abbia ammesso e riconosciuto la legittimità della scelta del soggetto obbligato al mantenimento di svolgere la propria attività non a tempo pieno ma part-time, anche se ciò determini una riduzione della sua capacità reddituale ed incida dunque, negativamente, sul diritto di credito vantato dal coniuge beneficiario (Cass. Civ. n. 5378/2006).

I Giudici di legittimità, infatti, in questo modo hanno inteso conferire alla tematica in parola una visuale per così dire più “dinamica”, volta ad interpretare l’obbligo del mantenimento in maniera meno rigida e statica senza che vi sia una cristallizzazione del suo quantum, ma piuttosto rendendolo mutevole e variabile nel tempo anche mediante una scelta del debitore giustificata da un contemperamento dei contrapposti interessi, da una parte, del coniuge creditore a vedersi riconosciuto il proprio credito nell’ammontare stabilito e, dall’altra, di esso debitore a realizzarsi come persona modulando nel tempo la propria attività lavorativa.

Certamente comunque la questione oggi dibattuta non può ritenersi ancora chiusa e della stessa se ne tornerà a parlare.


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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento. All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo. Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.

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