Neurologo condannato per il decesso di un paziente causato da problemi cardiaci
«In tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo verso la salute o verso la malattia, come verso tutto il resto». Così affermava Antifonte, filosofo greco del V secolo a.C.
Thanatos, la morte, nella sentenza in commento scandisce il ritmo ed il senso della responsabilità del medico specializzato tenuto a curare il paziente non solo in base alla sua specializzazione, ma con una elasticità tale che lo porti a valutare patologie non del proprio campo, sottoponendo il paziente a ultronei e diversi accertamenti.
La Corte di Cassazione – Sezione IV penale – con la sentenza n. 15178 del 5 aprile 2018 aggiunge un ulteriore tassello in tema di colpa professionale medica
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Le norme di riferimento. – Responsabilita’ professionale del medico – Responsabilita’ per omissione – Sussistenza del nesso di causalita’ – 589 c.p. – Legge Balduzzi (n. 189/2012), secondo la quale il professionista che nello svolgimento della propria attività si attenga alle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente.
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Il caso. Si legge in sentenza: “La Corte di appello, quanto alla ricostruzione in fatto, ripercorrendo dettagliatamente la vicenda sulla base delle dichiarazioni della madre della persona offesa, ha evidenziato che la giovane V. S. era stata colpita da alcuni episodi sincopali caratterizzati dalla perdita di conoscenza, con rilascio delle urine. La giovane, al cospetto di tali sintomi preoccupanti, si rivolse al medico di base che, dopo averle prescritto un elettroencefalogramma e le analisi del sangue di rito, le consigliò di effettuare una visita neurologica. La giovane e sua madre, dopo avere raccolto informazioni presso colleghi di lavoro e d’università, essendo ambedue introdotte negli ambienti medici, decisero di rivolgersi al prof. T., avendo ricevuto ampie assicurazioni sulla bravura e l’indiscussa competenza nel campo neurologico del ricorrente. Nel corso del consulto, l’imputato praticò un ulteriore esame elettro encefalografico ed effettuò la visita, dopo avere raccolto la descrizione dei sintomi e delle modalità delle crisi subite dalla paziente. All’esito, escludendo patologie neurologiche di rilievo, rimarcate dalla espressione “signora sua figlia è sana come un pesce” ed affermando che gli episodi di perdita di coscienza non comportavano rischi per la ragazza, ipotizzò che si potesse trattare di crisi vagali, ponendo una diagnosi dì “crisi sincopali a genesi vagale”. In ragione di ciò, prescrisse una terapia di supporto ed anche l’effettuazione di un Tilt test che egli consigliò di praticare presso un professionista di sua fiducia. La V. preferì effettuare il Tilt test presso l’Ospedale Monaldi di Napoli, ritenendo tale centro maggiormente all’avanguardia in questo settore. Il test, la cui efficacia è stata messa fortemente in discussione dagli esperti esaminati in dibattimento, escluse patologie neurologiche di rilievo, inducendo la vittima e sua madre a ritenere confermata la diagnosi benigna del neurologo. In ragione della fiducia riposta nelle parole del T., la giovane si determinò a non approfondire ulteriormente le cause poste a base dei suoi svenimenti e continuò le sue normali attività. Fu così raggiunta da altri attacchi di perdita di coscienza, che ne determinarono la morte il 19 dicembre 2007.”
Si individuavano a carico del sanitario profili di responsabilità riconducibili a negligenza, imprudenza e imperizia, nonché, alla violazione dei protocolli medici e delle linee guida che indicavano, all’epoca dei fatti, il corretto percorso diagnostico terapeutico da intraprendersi in relazione alla cura dei pazienti interessati da episodi di sincope.
Il ricorrente, avrebbe omesso di prescrivere l’effettuazione dei necessari esami dì base, che avrebbero permesso di addivenire ad una corretta diagnosi della patologia sofferta dalla giovane. In particolare, si addebitava al ricorrente di non avere prescritto, come primo step di indagine, un elettrocardiograma standard a 12 derivazioni. La mancanza di tale accertamento avrebbe avuto quale conseguenza, la determinazione di un’errata diagnosi di sincope neuromediata vasovagale, la quale risultava fuorviante, impedendo la instaurazione di una terapia idonea a scongiurare successivi episodi di perdita di coscienza. T
La limitazione della responsabilità, invocata dalla difesa, si registra solo nel caso in cui il medico abbia agito secondo la best practice, senza che ci sia stato alcun errore diagnostico per negligenza o imprudenza. L’errore commesso dal medico era quello di non avere valutato un’origine cardiaca degli svenimenti e quindi di non avere prescritto alla paziente un esame elettrocardiografico.
La difesa evidenziava che il T. non era medico curante della paziente, ma era intervenuto nella vicenda quale specialista d’organo, che ebbe a visitare la giovane in una sola occasione, in data 16/10/07. Successivamente, non ebbe mai più modo di rivedere la paziente. All’esito del controllo specialistico, effettuato con l’osservazione encefalografica, escluse il sospetto diagnostico per il quale la paziente si era a lui rivolta (epilessia), consigliando la esecuzione di un Tilt Test per avere conferma dell’origine vagale delle manifestazioni di perdita di coscienza.
In sede di appello, furono proposte una serie di argomentazioni volte a scagionare il medico dalle accuse elevate nei suoi confronti, alle quali la Corte territoriale non avrebbe fornito puntuale risposta.
Nel flusso espositivo che si riassume è manifesta l’essenza della linea difensiva.
“Le deduzioni formulate nel precedente grado di appello riguardavano i seguenti aspetti:
la paziente V. era seguita da un medico curante che aveva prescritto un elettroencefalogramma per sospetta epilessia. Pertanto, il ricorrente non era titolare dell’indirizzo diagnostico e, dopo la visita specialista, la paziente sarebbe dovuta ritornare dal medico curante;
il T. non ebbe a partecipare alle fasi successive dell’iter seguito dalla paziente. Invero, costei si rivolse alla Unità di studio delle sincopi dell’Ospedale Monaldi, centro cardiologico di eccellenza, con la impegnativa del medico curante e la prenotazione del C.U.P.;
il ricorrente nel dare indicazione alla paziente di effettuare il Tilt Test presso una clinica dove operava un medico di propria fiducia, uniformò la propria condotta alle linee guida vigenti, essendo, il suddetto Test, un esame di primo livello se eseguito in conformità ai protocolli; in ogni caso, il Prof. T., nel dare indicazione alla esecuzione del Tilt Test, versava nel convincimento che esso venisse eseguito previa osservazione con elettrocardiogramma basale o a 12 derivazioni”.
La sentenza impugnata, ad avviso della difesa del medico, non offrirebbe alcuna motivazione in ordine alle ragioni per le quali lo specialista avrebbe assunto la funzione di garanzia in luogo del medico curante.
Sul punto, la Corte di appello aveva osservato che l’ipotesi di epilessia espressa dal medico curante postulava un accertamento non di sua competenza, all’esito del quale andava “poi svolta l’indagine a largo spettro omessa dall’imputato”.
La Corte territoriale, tuttavia, avrebbe trascurato di indicare le ragioni per le quali l’ampliamento della indagine dovesse essere disposto dal T., non tenendo conto delle diverse osservazioni formulate sul punto dal C.T. del P.M., prof. D. P.
Ribadisce la Suprema Corte: i motivi di ricorso proposti dalla difesa del ricorrente sono infondati.
E segnatamente.
“Seguendo un percorso argomentativo analogo a quello seguito dal giudice di primo grado, la Corte territoriale è giunta a ribadire, per l’intervenuta prescrizione sia pure ai soli effetti civili, la responsabilità del T. in ordine ai fatti in contestazione, mettendo in rilievo:
il particolare affidamento riposto dalla giovane nella diagnosi e nelle indicazioni ricevute dal neurologo;
la negligenza dimostrata dai T. nella trattazione del caso, avendo egli prescritto di effettuare un accertamento che risultò fuorviante ai fini della individuazione dell’esatta causa della patologia della V.;
l’omessa, doverosa esplorazione, da parte del sanitario, della possibile origine cardiologica dei preoccupanti svenimenti della persona offesa; l’errore diagnostico.
Occorre rilevare come la Corte territoriale ed il giudice di primo grado, nella disamina dei fatti, abbiano offerto una compiuta risposta alle doglianze difensive, individuando in modo conforme alle norme che sovrintendono alla disciplina del caso in esame ed ai principi stabiliti in sede di legittimità, i profili di responsabilità nei quali è incorso il T., fondanti la condanna al risarcimento.
In particolare, con riferimento a tale aspetto, il giudice di primo grado e la Corte territoriale, hanno messo in rilievo: l’esistenza di una posizione di garanzia, in capo al T., desumendola dall’avvenuta instaurazione del rapporto terapeutico, nell’ambito del quale, peraltro, la persona offesa e sua madre avevano riposto particolare fiducia, confidando nelle doti professionali del sanitario, ritenuto nell’ambiente medico e scientifico, un esperto nel campo della neurologia. E’ principio indiscusso, nella giurisprudenza di legittimità, quello in base al quale, in tema di colpa professionale medica, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia del primo nei confronti del secondo, con conseguente assunzione dell’obbligo di tutela della vita e della salute della persona. Gli sviluppi fattuali susseguitisi alla instaurazione di tale relazione, non sono suscettibili di escludere la responsabilità assunta dal sanitario nel rapporto con il paziente. Nella sostanza, la funzione di garanzia non può considerarsi rescissa per effetto della circostanza che la paziente non ritornò più dal T. o, per effetto della sua decisione di praticare il Tilt test presso una struttura diversa da quella indicata dal ricorrente. La paziente, benché avesse deciso di effettuare l’ulteriore accertamento presso l’Ospedale Monaldi, aveva ottemperato precisamente alle indicazioni dello specialista, confidando nella esattezza della sua diagnosi. Pertanto, non è corretto affermare, come si dice nel ricorso, che il T. fu emarginato dalle scelte diagnostiche da effettuarsi. Sul punto, la Corte territoriale, ha correttamente osservato, sulla base delle prove raccolte, che il T., all’esito della visita specialistica, non palesò la necessità di alcun successivo consulto. Quanto all’esito del tilt test, avendo la giovane avuto contezza del buon esito dell’accertamento, ritenne logicamente confermata la diagnosi dello specialista, che l’aveva rassicurata sulla sua natura benevola (così pag. 17 della sentenza impugnata). La sentenza impugnata esprime argomentazioni del tutto logiche in ordine ai profili di responsabilità ravvisati a carico del ricorrente, mettendo in rilievo, in più punti della motivazione, l’erroneo approccio diagnostico del sanitario, che limitò la propria indagine esclusivamente all’ambito neurologico, escludendo, a priori, la natura cardiologica delle perdite di coscienza della giovane. Sul punto, la Corte territoriale, ha correttamente osservato, sulla base delle prove raccolte, che il T., all’esito della visita specialistica, non palesò la necessità di alcun successivo consulto. Quanto all’esito del tilt test, avendo la giovane avuto contezza del buon esito dell’accertamento, ritenne logicamente confermata la diagnosi dello specialista, che l’aveva rassicurata sulla sua natura benevola (così pag. 17 della sentenza impugnata). La sentenza impugnata esprime argomentazioni del tutto logiche in ordine ai profili di responsabilità ravvisati a carico del ricorrente, mettendo in rilievo, in più punti della motivazione, l’erroneo approccio diagnostico del sanitario, che limitò la propria indagine esclusivamente all’ambito neurologico, escludendo, a priori, la natura cardiologica delle perdite di coscienza della giovane. La competenza di tale approfondimento, si afferma in sentenza, doveva intendersi radicata presso il T., che non poteva limitare il proprio consulto ad un unico profilo, omettendo qualunque previsione e successiva indicazione di approfondimento, in ordine alla possibile, alternativa genesi cardiaca delle crisi di perdita di coscienza.
Il motivo per il quale tale competenza spettava allo specialista, coerentemente con quanto risulta dalla disamina dei fatti, viene individuato in sentenza, nella circostanza che il medico di base avanzò una mera ipotesi di epilessia, indirizzando la giovane verso un esperto che doveva vagliare le effettive cause degli episodi sincopali. La diagnosi posta dal professionista, che si era pronunciato unidirezionalmente per una genesi vagale delle sincopi, determinò il successivo sviluppo degli eventi, con esito infausto per la donna.
L’affermazione secondo la quale la Corte territoriale non avrebbe argomentato sulla inosservanza delle Linee guida, non può ritenersi fondata.
Dall’esame della motivazione, risulta che la Corte territoriale ha effettuato una ricostruzione approfondita e chiara detta vicenda, correttamente valutando la rilevanza causale della condotta omissiva contestata all’imputato con richiamo al quadro teorico della c.d. causalità della colpa, rispetto alla quale vale il principio per cui “il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto”.
Calando nella realtà del caso in esame, i suddetti principi, la Corte territoriale ha correttamente affermato, in modo conforme a quanto ritenuto dal primo giudice, che l’omessa, doverosa esplorazione della causa cardiologica del malessere, imposta dalle leggi di copertura scientifica, non ha consentito di approfondire la natura della canalopatia presente nella paziente e di approntare gli adeguati presidi, come l’installazione di un defibrillatore sottocutaneo, che avrebbero salvato la vita alla donna“.
Seppur zoppicando la difesa dell’imputato per indurre a qualche strappo punta sulla possibilità di una valutazione comparativa della responsabilità.
E si scava ancora negli enunciati per giungere a una verità che non si lascia nemmeno lontanamente intravedere e non può svilire l’intrinseco valore delle gravissime e pesantissime risultanze probatorie.
“Nell’ambito delle previsioni colpose, ove più persone risultino responsabili di un evento, ciascuna ne risponde per intero. In tema di rapporto di causalità vige il principio della equivalenza delle cause, avendo il legislatore, all’art. 41, cod pen., adottato la teoria della par condicio. Pertanto, qualunque comportamento riferibile ad un soggetto agente, che si ponga come antecedente nella verificazione di una serie di accadimenti che conducono all’evento, è causa dello stesso”.
Il rilievo mosso dalla difesa – sostiene la sentenza – in ordine “ alla corresponsabilità degli altri medici che si sono occupati del caso, ove mai tale responsabilità fosse stata ritenuta esistente, avrebbe potuto essere considerata come elemento di valutazione rilevante ai fini delta determinazione delta entità delta pena, ai sensi e per gli effetti dell’art. 133, comma primo, n. 3) cod. pen. che fa espresso riferimento al grado della colpa. … Peraltro poiché il reato è estinto per intervenuta prescrizione, tale aspetto non ha più alcuna incidenza nell’ambito delta vicenda in esame”.
E la Suprema Corte continua a perseverare con le affermazioni di condanna.
“Quanto alla possibilità di una valutazione comparativa, in termini percentuali, della responsabilità dell’imputato, si tratta di un aspetto che viene in rilievo quando vi e un concorso di colpa anche della persona offesa. Sul punto, questa Sezione, si e così espressa: ‘In tema di reato colposo, il giudice penale è tenuto ad accertare la colpa concorrente del terzo, rimasto estraneo al giudizio, al solo fine di verificare la rilevanza delta sua condotta sull’efficienza causate del comportamento dell’imputato e di assicurare la correlazione tra gravita del reato e determinazione delta pena, ai sensi dell’art. 133, primo comma, n. 3) cod. pen., dovendosi escludere, in via generate, l’esistenza di un obbligo di quantificazione percentualistica dei diversi fattori causali dell’evento, a meno che egli non sia chiamato a pronunciare statuizioni civilistiche’. Poiché nel caso in esame non si ravvisa alcun aspetto afferente al fatto colposo della parte civile, il giudice non era tenuto a effettuare una previsione percentualistica dei diversi fattori causali dell’evento”.
Nel tentativo di dissipare i presunti chiaroscuri che permangono su una certa area della colpa medica, la Suprema Corte si spinge a cercare di sollevare il velo su tutti gli episodi che si addensano attorno al reato contestato rimarcando che, conformemente alle Linee guida vigenti in materia, l’unico accertamento idoneo a escludere l’origine cardiaca delle sincopi di natura non determinata era l’elettrocardiogramma, mai prescritto alla paziente dal medico neurologo.
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