Neuroscienze e diritto. Predisposizione genetica alla criminalità
Le neuroscienze comprendono un insieme di discipline tra loro eterogenee che studiano la correlazione esistente tra il cervello e il comportamento umano (o animale); in particolare, oggetti di studio sono il cervello e il sistema nervoso a livello molecolare, biochimico e genetico. Infatti le varie tecniche neuroscientifiche analizzano il funzionamento del sistema nervoso, ponendo particolare attenzione all’elaborazione dei pensieri, delle emozioni e dei comportamenti umani. Negli ultimi anni hanno assunto rilevanza le Neuroscienze Forensi, ossia quegli studi che forniscono dati scientifici rilevanti ai fini della valutazione giudiziaria.
Mentre Cesare Lombroso distingueva le diverse categorie, tra cui il “delinquente nato”, il “delinquente occasionale”, il “delinquente passionale”, in base a fattori fisici, ambientali e sociali, la neuroscienza forense presuppone metodologie di individuazione del criminale differenti: non contano più gli aspetti anatomici, ma le analisi funzionali del cervello effettuate attraverso strumenti di neuroimaging, tecnologie in grado di misurare il metabolismo cerebrale, al fine di analizzare e studiare la relazione tra l’attività di determinate aree cerebrali e specifiche funzioni cerebrali. I risultati cui si giunge sono però pressoché identici: una catalogazione delle varie tipologie di criminali sessuali, passionali, antisociali…ecc.
Si è osservato, ad esempio, che nei soggetti affetti da disturbo antisociale, vi è un aumento della sostanza bianca del corpo calloso, una diminuzione della sostanza grigia nella corteccia prefrontale e una diminuzione del volume dell’ippocampo posteriore.
I rischi sono però rappresentati, in primo luogo, da una messa in crisi del principio del libero arbitrio del soggetto criminale, principio che si trova alla base dei sistemi penali moderni, in quanto si arriverebbe a giustificare comportamenti criminosi basandosi soltanto su una innata “capacità a delinquere”, in mancanza di una qualunque patologia clinica; si andrebbe quindi a giudicare colpevole il cervello in luogo della persona che ha posto in essere il comportamento criminoso. Il soggetto non sarebbe punibile perché “predestinato” a delinquere in base ad anomalie funzionali o anatomiche del cervello.
In secondo luogo, si rischia, al contrario, di etichettare come pericolosi alcuni soggetti che presentano le stesse anomalie di individui appartenenti ad una determinata categoria di criminali e quindi di sottoporre a terapie obbligatorie chi non presenta in realtà alcuna tendenza a delinquere.
Dunque, se da una parte non bisogna sottovalutare i rischi derivanti da una cieca fiducia in tali scienze, dall’altra è innegabile che le neuroscienze forensi siano in grado di determinare un graduale cambiamento all’interno del processo penale e del diritto tout court, attraverso nuove metodologie di accertamento del fatto.
Oltre a dare maggiore certezza al processo, le neuroscienze forensi ridefiniscono la nozione stessa di imputabilità.
Con riferimento alla imputabilità, quale capacità di intendere e di volere (art. 85, co. 2, c.p.), le neuroscienze hanno già raggiunto risultati concreti studiando le patologie mentali associate ad anomalie comportamentali attraverso le suddette tecniche di neuroimaging. Si è scoperto, ad esempio, che queste rendono il soggetto più propenso a commettere determinate tipologie di reati, con conseguenti ripercussioni sul concetto di libero arbitrio.
Ciò è stato avvalorato da una sentenza della delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, la sentenza Raso, che ha ampliato la nozione d’infermità mentale includendovi, in alcuni casi, anche i gravi disturbi di personalità.
Pertanto, si è delineato, nella teoria e nella prassi, un concetto di infermità più ampio, all’interno del quale sono riconducibili non solo le malattie psichiatriche in senso stretto (psicosi esogene ed endogene), ma anche, come sostenuto dalle Sezioni Unite nella sentenza Raso, altre anomalie psichiche idonee ad influire sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente, quali le nevrosi e le psicopatie.
La Suprema Corte, nella sentenza Raso, ha riconosciuto che tali disturbi possano rilevare ai fini dell’imputabilità nel momento in cui sussistano due requisiti:
1) devono essere «di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla capacità di intendere e di volere»;
2) deve sussistere un nesso eziologico tra il disturbo mentale e il reato.
Per quanto concerne il primo requisito, è necessario che il Giudice accerti la gravità del disturbo della personalità. Il parametro a cui si ricorre per effettuare tale verifica è quello del disturbo c.d. borderline, forma intermedia tra la malattia mentale vera e propria e i disturbi semplici, ritenuti non idonei ad incidere sulla capacità di intendere e di volere (ad esempio, gli stati emotivi e passionali).
Stabilito in tal modo che il disturbo sia grave, va verificato il secondo requisito e cioè la sussistenza del nesso eziologico tra l’infermità e la condotta penalmente rilevante. Il disturbo della personalità deve aver contribuito in modo rilevante alla commissione del fatto, altrimenti non potrà venire in considerazione ai fini dell’imputabilità.
Numerosi sono stati e sono gli studiosi, come il neuroscienziato kent Kiehl, il neurocriminologo Adrian Raine, la psicologa e neuroscienziata M.H. Immordino Yang, il neuroscienziato J. LeDoux. I loro studi evidenziano una “significativa riduzione strutturale e funzionale delle aree cerebrali adibite all’elaborazione delle emozioni e in particolare dell’amigdala che costituisce un’area fondamentale per la risposta e l’elaborazione della paura e nella quale sono state riscontrate deformazioni o menomazioni funzionali”. È stata, dunque, evidenziata l’esistenza di circuiti cerebrali specifici che coinvolgono le regioni dei lobi frontali e che influiscono sul controllo e sull’inibizione degli impulsi aggressivi.
Si può sinteticamente affermare che le varie ricerche tendono verso la stessa conclusione: il cervello degli individui sani e incensurati si distingue da quello di soggetti violenti, antisociali e psicopatici, sulla base di differenze morfologico-funzionali.
Non si può negare la complessità della verifica di tali requisiti. È, infatti, ormai dimostrato che i disturbi della personalità non sono più soltanto di natura biologica o psicologica, ma possono anche dipendere da fattori ambientali, sociali, addirittura genetici.
A proposito di fattori genetici, recenti studi hanno dimostrato che la presenza di determinati alleli di geni implicati nel metabolismo dei neurotrasmettitori può essere associata ad un maggiore rischio di sviluppare comportamenti devianti e antisociali e di compiere azioni criminose.
Si è cercato di individuare il gene specifico che causa tali comportamenti. Uno studio ha portato ad ipotizzare una mutazione del gene MAO-A, definito anche “gene guerriero” o “gene criminale”, che in condizioni di normalità produce l’enzima mono-aminossidasi A, ma può interferire con le funzioni di altri neuro-trasmettitori, determinando l’insorgenza di comportamenti a rischio, deficit dell’attenzione, iperattività, alcolismo, abuso di droghe, impulsività e abbassamento del QI. Pertanto, un portatore del gene MAO-A non necessariamente diventa violento, ma può essere maggiormente predisposto all’aggressività e alla violenza.
Ci si chiede allora se sia possibile ipotizzare, anche nei processi italiani, l’applicazione di circostanze attenuanti “genetiche” che possano incidere sulla più generale concezione di imputabilità.
In Italia tre sono le vicende giudiziarie maggiormente rilevanti in cui si è fatto uso di tecniche di neuroimaging. Nel 2009, 2011 e 2013 rispettivamente la Corte di Assise di Appello di Trieste con il caso Bayout, il Tribunale di Como con la vicenda Albertani e il Tribunale Venezia con il caso del pediatra di Vicenza, hanno valutato il grado d’infermità mentale degli imputati in base a perizie psichiatriche e ad analisi di tipo neuroscientifico.
In queste vicende giudiziarie sono stati utilizzati strumenti tecnico-scientifici che nel linguaggio comune, sono soliti essere indicati con la locuzione “Nuova Prova Scientifica”, e che comprendono sia gli strumenti tecnico-scientifici “nuovi” che quelli “controversi. Questi sono ancora pervasi da un’aura di scetticismo dovuta da una parte al fatto che la comunità scientifica non sia ancora pienamente convinta dell’affidabilità delle metodologie utilizzate, dall’altra parte, giurisprudenza e dottrina vedono nelle tecniche utilizzate il rischio di una lesione delle garanzie riconosciute all’imputato, o alla persona in genere, sia a livello costituzionale che codicistico. Tuttavia il primo passo verso l’ammissione delle Nuove Prove Scientifiche, mosso sia da parte della dottrina che della giurisprudenza, è stato quello di far rientrare gli strumenti tecnico-scientifici, ancora controversi e di elevata specializzazione, nel novero delle c.d. prove atipiche disciplinate dall’art.189 c.p.p. Ma la strada è ancora molto lunga e tortuosa, e il rischio è che il diritto non riesca a stare al passo con la rapida evoluzione della ricerca scientifica.
Tra gli strumenti tecnico-scientifici utilizzati , però, è doveroso ricordare quelli già oggetto di una consolidata esperienza nell’uso giudiziario.
Questi hanno acquisito col tempo un altissimo grado di affidabilità che li rende utilizzabili come prova senza alcun tipo di problema; sono, ad esempio, il rilevamento di impronte digitali, le analisi del DNA, o ancora le metodologie seguite per le autopsie.
É necessario, tuttavia, osservare che l’accertamento di un fatto attraverso l’utilizzo di strumenti tecnico-scientifici non costituisce mai l’ultimo passaggio per la ricostruzione del fatto storico, e quindi per l’attribuzione della responsabilità all’imputato: il giudice, in ultima analisi, dovrà sempre applicare una massima di esperienza, anch’essa chiaramente sottoposta al vaglio di falsificabilità, per pronunciare una condanna.
Insomma «è necessario evitare che la scienza si tramuti in una scorciatoia del processo penale: non si può chiedere alla scienza più di quello che la scienza può dare, anche se la scienza può dare molto al processo penale».
Emerge, così, con chiarezza, da una parte, il ruolo della legge: assicurare, nell’ottica di un pieno ed efficace contraddittorio tra le parti, una regolamentazione delle prove scientifiche che tenga conto sia delle garanzie difensive, sia della protezione dei diritti e delle libertà fondamentali della persona, considerando soprattutto la valenza “accertativa” sempre più pregnante che stanno acquisendo le prove scientifiche nei confronti di quelle tradizionali; dall’altra parte emerge l’utilità della consulenza tecnica in sede processuale: essa garantisce una maggiore oggettività alle indagini attraverso la formazione di nuove prove scientifiche, oltre ad offrire ausilio al Giudice nel prendere giusta decisione, così come previsto dagli art.189 e 220 c.p.p..
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Milena Adani
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