No al B&B se il regolamento condominiale lo vieta
La Sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 1049/2020, pubblicata il 30 aprile 2020, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato una condomina che gestiva un’attività di bed and breakfast sotto forma di ditta individuale, poiché il regolamento contrattuale condominiale non lo prevedeva ed in assenza di delibera assembleare all’unanimità che l’autorizzasse.
In primo luogo, la corte territoriale, esaminando il regolamento di condominio – di origine incontestabilmente convenzionale nonché debitamente trascritto nei registri immobiliari – ha evidenziato che gli appartamenti dello stabile si intendevano destinati ad uso abitazione civile e ad uffici e che ogni eventuale diversa destinazione dei locali e degli appartamenti avrebbe dovuto essere preventivamente autorizzata dall’assemblea dei condomini; in tal modo univocamente vietando, in difetto di autorizzazione assembleare, la destinazione degli appartamenti dello stabile a un uso diverso da abitazione o da ufficio; rilevando, di fatto, la manifesta infondatezza della tesi dell’appellante secondo cui l’attività di bed and breakfast non muterebbe la destinazione ad uso abitazione civile del proprio appartamento, trattandosi, al contrario, almeno secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità, di attività commerciale, in quanto svolta in forma imprenditoriale e diretta alla produzione di servizi verso un corrispettivo, addirittura “sovrapponibile”, al pari dell’attività di affittacamere, a quella alberghiera (cfr. Corte di Cassazione Civile n. 109/2016), se non per le dimensioni ridotte e per le modalità di prestazione dei servizi personali che si accompagnano, senza tuttavia porsi in termini di accessorietà rispetto ad esso, al godimento di una stanza.
D’altra parte, il fatto che la citata disposizione regolamentare non vieti in modo espresso e specifico l’utilizzo delle unità immobiliari di proprietà esclusiva per attività di affittacamere o di “B&b”, non può indurre a ritenere che siffatti usi debbano considerarsi ammessi, dovendosi piuttosto valutare se essi siano assimilabili – dovendo altrimenti intendersi vietati, in difetto di autorizzazione dell’assemblea dei condomini – agli usi consentiti dal regolamento; il che, nella specie, è senz’altro da escludere, facendo puntuale e coerente applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale di cui agli articoli 1362 e seguenti del Codice Civile (e, al contrario di quanto sostiene l’appellante, non solo in base all’interpretazione letterale della clausola 4 del regolamento condominiale convenzionale, ma anche sulla base di una interpretazione complessiva delle clausole del regolamento e tenendo conto del comportamento tenuto dall’assemblea dei condomini riguardo ad eventuali destinazioni degli appartamenti difformi da quelle consentite dal regolamento); non essendo l’attività commerciale recettiva svolta in forma imprenditoriale assimilabile né con l’utilizzo a “civile abitazione” (direttamente da parte del proprietario/condomino, o indirettamente da parte di un suo inquilino), né tanto meno con quello ad “ufficio”, così come accertato in primo grado, sulla scorta della univoca documentazione prodotta dal condominio attore, e come del resto non è contestato in fatto, in quanto l’appartamento risultava adibito all’esercizio di un’attività recettiva – per un totale di 10 posti-letto suddivisi in 4 camere – svolta in forma imprenditoriale, per dare ospitalità (ma non certo un alloggio qualificabile come “abitazione”) a persone che, trovandosi a Milano per brevi o brevissimi periodi di tempo (anche pochi giorni), optino per una sistemazione più semplice e presumibilmente meno costosa di una sistemazione propriamente alberghiera.
D’altronde, sebbene non possa parlarsi di attività alberghiera in senso proprio, anche con riferimento alla normativa regionale in materia turistica (si veda la legge regionale della Lombardia n. 27/2015, la quale ha finalità diverse, relative alla classificazione delle attività – alberghiera o non alberghiera che non può incidere sui rapporti privatistici e sugli obblighi reciprocamente assunti dai condomini con un regolamento contrattuale: in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione Civile n. 704/2015); ne consegue l’irrilevanza del richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 369/2008, trattandosi comunque di un’attività recettiva che, anche in considerazione della natura e della consistenza dei servizi offerti oltre all’alloggio (il cambio di biancheria, la pulizia, il servizio di reception, la messa a disposizione di prodotti per la colazione e per l’igiene personale, ecc.), può qualificarsi come “para-alberghiera”, analogamente a ciò che avviene nell’ipotesi dell’attività di “affittacamere” (nel senso della sovrapponibilità dell’attività di affittacamere a quella alberghiera, a parte le più modeste dimensioni, è, del resto, la giurisprudenza di legittimità assolutamente prevalente: conformi sentenze Corte di Cassazione Civile n. 109/2016, n. 22665/2010, n. 17167/2002 e n. 5632/1993), e quindi di una destinazione d’uso che determina un’ instaurazione (da parte dell’esercente, con gli utenti del servizio) a rapporti non inquadrabili nella figura tipica della locazione di immobile ad uso di abitazione (sia pur transitoria, turistica o di breve o brevissima durata), di modo che l’utente, più che come “conduttore”, deve considerarsi “ospite” delle struttura, stante la atipicità del rapporto contrattuale che lo legittima a godere della stanza degli altri servizi offerti dall’esercente l’attività in questione.
Per quanto riguarda, infine, la questione della opponibilità (o meno) all’attuale appellante dei limiti alla destinazione d’uso degli appartamenti di proprietà esclusiva nella specie previsti dall’art. 4 del regolamento condominiale contrattuale (limitazione da qualificarsi, come ormai chiarito dalla giurisprudenza, come “servitù atipica reciproca”, piuttosto che come “obligatio propter rem”), è ben vero che secondo l’orientamento più recente della giurisprudenza di legittimità “l’opponibilità di tali limiti ai terzi acquirenti deve essere regolata secondo le norme proprie delle servitù e, dunque, avendo riguardo alla trascrizione del relativo peso, mediante l’indicazione, in apposita nota distinta da quella dell’atto di acquisto (in forza dell’art. 17, comma 3, della legge 27 febbraio 1985 n. 52), delle specifiche clausole limitative, di cui agli articoli 2659, comma 1, n. 2, e 2665 Codice Civile, non essendo, invece, sufficiente il generico rinvio al regolamento condominiale”, e che “in assenza di trascrizione, queste disposizioni del regolamento, che stabiliscano i limiti alla destinazione delle proprietà esclusive, valgono altrimenti soltanto nei confronti del terzo acquirente che ne prenda atto in maniera specifica nel medesimo contratto d’acquisto. In mancanza, cioè, della certezza legale della conoscenza della servitù da parte del terzo acquirente, derivante dalla trascrizione dell’atto costitutivo, occorre verificare la certezza reale della conoscenza di tale vincolo reciproco, certezza reale che si consegue unicamente mediante la precisa indicazione dello ius in re aliena gravante sull’immobile oggetto del contratto” (vedi in tal senso, in particolare, sentenza della Corte di Cassazione Civile n. 6769/2018); nel caso in esame, tuttavia, come correttamente osservato dal giudice di primo grado, dall’atto di compravendita, così come dalla relativa nota di trascrizione, risultava che all’atto dell’acquisto l’appellante aveva dichiarato di conoscere ed accettare il regolamento di condominio che disciplina lo stabile di cui fa parte l’unità immobiliare oggetto del presente atto e si impegnava ad osservarlo ed a farlo osservare dai propri acquirenti o aventi causa a qualunque titolo e, conseguentemente, di conoscere ed accettare tutte le sue clausole, non rilevando che ne avesse preso o meno conoscenza attraverso la trascrizione; e ciò è stato ritenuto sufficiente ai fini della opponibilità all’attuale appellante della clausola regolamentare cui si riferisce la controversia (avendo del resto la medesima accettato l’acquisto dell’immobile nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava, con tutte le… servitù attive e passive, in atto legalmente esistenti, … con la proporzionale quota di comproprietà sugli enti, locali, spazi ed impianti in comunione, nonché con tutti i diritti ed obblighi derivanti dal regolamento di condominio vigente, indipendentemente dal fatto che, in sede di trascrizione del regolamento contrattuale del condominio, si fosse o meno provveduto alla redazione di una nota di trascrizione relativa specificamente alla clausola costitutiva della servitù all’origine della presente controversia.
L’appello proposto è stato, pertanto, respinto con conseguente venir meno degli effetti del provvedimento di sospensiva adottato ai sensi degli articoli 351 e 283 del Codice di Procedura Civile e conferma della sentenza di primo grado.
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