Non sono una “res”. Parola di Fido

Non sono una “res”. Parola di Fido

Chi convive con un animale, prendendosene cura ogni giorno e ricevendo amore, rispetto, fiducia e fedeltà incondizionati non può che rabbrividire dinanzi ad una definizione dello stesso come “res”, ai sensi dell’art. 812 c.c.

Nonostante negli ultimi anni il legislatore abbia prestato maggiore attenzione alla questione, per l’ ordinamento giuridico italiano, allo stato dei fatti, il nostro amato Fido resta una “cosa mobile” al pari di un armadio, un quadro, una sedia e, perché no, un suppellettile.

Correva l’anno 1987, quando, il 13 Novembre, a Strasburgo veniva firmata la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia. L’Italia ne prendeva atto solo nel 2010, con legge di ratifica n. 201, dopo che anche il Trattato di Lisbona del 2007, all’art. 13 aveva definito i nostri compagni di vita come “esseri senzienti”, esseri dotati della capacità di sensazioni, esseri sensibili,  in grado di provare sentimenti ed empatia. Veniva così sottolineata “l’importanza degli animali da compagnia a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società”.

La legge quadro n. 281 del 14 Agosto 1991, poi,  stanziava un miliardo di lire per l’anno in corso e due miliardi di lire per i due anni successivi  da impegnarsi nella prevenzione del randagismo, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente.

In ambito penale, con gli articoli 544 bis ( uccisione di animali) e 544 ter c.p. (maltrattamento di animali), la legge 189/2004 introduceva il  Titolo IX bis “Dei delitti contro il sentimento per gli animali”. Sei anni più tardi le sanzioni previste per queste fattispecie di reati verranno inasprite dalla legge 4 Novembre 2010, n. 201, cosicchè nel primo caso – uccisione di animali- è prevista la reclusione da 4 mesi a 2 anni; nel secondo- maltrattamento- è prevista la reclusione da 3 a 18 mesi o la multa da 5.000 a 30.000 euro, pena aumentata della metà se dai maltrattamenti deriva la morte dell’animale.

La legge 120/2010, riformando il codice della strada, imponeva l’obbligo di fermarsi a soccorrere l’animale ferito in caso di incidente , e, ancora, la legge 220/2012, introducendo l’ultimo comma dell’art. 1138 c.c., stabiliva che il regolamento condominiale non può vietare di possedere o detenere animali domestici.

Questo solo per citare alcuni degli interventi in materia, ex plurimis.

Eppure, di fatto, in assenza di un espresso riferimento normativo, il nostro cane resta una “cosa”.

Certo, non più pignorabile, visto che l’art. 77 della Legge n. 221 del 28 Dicembre  2015 ha aggiunto all’elenco dell’art. 514 c.p.c. (cose assolutamente impignorabili da parte del creditore procedente) il n. 6 bis- gli animali da affezione o da compagnia tenuti presso la casa del debitore o negli altri luoghi a lui appartenenti, senza fini produttivi, alimentari o commerciali-… ma pur sempre una “cosa”. Rectius “una cosa assolutamente impignorabile”!

Come spesso accade dinanzi ad un legislatore in affanno, è la giurisprudenza a prendere in mano le redini, creando, tuttavia, una certa confusione. Di seguito una breve rassegna della giurisprudenza di merito e legittimità, che, seppur non completa, vuole evidenziare quanto, in puncto, regni non poca inquietante incertezza di orientamento.

Con sentenza n. 14846 del 27/06/2007, la III Sez. della Cass. riteneva non risarcibile il pregiudizio sofferto a causa della perdita dell’animale da affezione (nel caso di specie si trattava di un cavallo da corsa), perché il pregiudizio non è “…riconducibile sotto una fattispecie di un danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta. La parte che domanda la tutela di tale danno, ha l’onere della prova sia per l’an che per il quantum debatur, e non appare sufficiente la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita della qualità della vita…”

Eppure, l’impostazione data dalla Cass., III sez. penale con sentenza n. 46291 del 16 Ottobre 2003, aveva fatto ben sperare. In questa sede, infatti, la terza sessione penale aveva espresso che, ai fini della configurazione del reato di maltrattamento di cui all’ art. 727 c.p. ( si noti che fino alla introduzione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 544 ter, l’art. 727 c.p. sanzionava penalmente il maltrattamento di animali), non è richiesta la lesione fisica all’animale, essendo sufficiente una sofferenza, poiché la norma mira a tutelare gli animali quali esseri viventi capaci di percepire con dolore comportamenti non ispirati a simpatia, compassione ed umiltà. Per cui prendere a calci un cane per futili motivi è reato.

Del resto quanto affermato dalla terza sessione civile (2007) , non ha intimorito il giudice del Tribunale di Rovereto, che appena un anno dopo, con sentenza  del 18/10/2009 qualificava l’uccisione dell’animale domestico- nel caso di specie un cagnolino che, a causa di una inadeguata custodia da parte della struttura per animali che lo ospitava era stato aggredito e ucciso da altro cane anch’esso ospitato nella pensione- come danno non patrimoniale risarcibile, perché la perdita di un animale domestico provoca un danno che si ripercuote negativamente sulla sfera morale e affettiva della persona.

Il Tribunale di Milano, Sez. IX Civile, con decreto 13/03/2013, in sede di separazione tra coniugi, ribadiva, in attuazione della Convenzione Europea di Strasburgo, che “l’animale non può essere più collocato nell’area semantica concettuale delle cose dovendo essere riconosciuto come essere senziente”, per cui il giudice affermava la legittima facoltà dei coniugi di regolare la permanenza dell’animale presso l’una o l’altra abitazione e le modalità che entrambi i proprietari devono seguire per il mantenimento dello stesso.

Il favor animalis, quindi, in virtù della tutela del suo “amico umano”.  Ma non solo, perché la Suprema Corte di Cassazione, già alcuni anni addietro, con sentenza n. 7856 del 26/03/2008, seppur indirettamente,  riconosceva il “diritto di abbaiare” del cane. In particolare,  “Per quello che interessa in questa sede il giudice di secondo grado riteneva che dall’istruttoria testimoniale era emerso con certezza che il cane di proprietà dei convenuti aveva la tendenza ad abbaiare ogni qualvolta sentiva suonare il campanello o quando avvertiva la presenza di persone all’interno dello stabile, e spesso anche nelle ore notturne. Era evidente che la natura dell’animale non poteva essere coartata al punto di impedirgli del tutto di abbaiare e che episodi saltuari di disturbo da parte del cane potevano e dovevano essere tollerati dai vicini, in nome dei principi del vivere civile”, esortando gli appellanti a ridurre “…al minimo le occasioni di disturbo e prevenendo le possibili cause di agitazione ed eccitazione dell’animale, soprattutto nelle ore notturne”.

Nel 2014, la sentenza n. 16769 della Cass Civile, Sez. III, che confermava la sentenza del giudice d’appello di Arezzo  che aveva condannato il veterinario al pagamento  di 2.000 euro (oltre accessori e spese di entrambi i gradi) a fini risarcitori per aver erroneamente diagnosticato una puntura di calabrone anziché un morso di vipera e nell’aver, conseguentemente, trascurato di adottare tutte le cautele che si imponevano per tentare di salvare la vita del cane, in particolare non aver tenuto il cane in debita osservazione per assicurargli le cure necessarie.

Si precisa, a tal proposito, che l’attività professionale esercitata dal medico veterinario ha natura di prestazione d’opera intellettuale, rientrando nell’alveo dell’art. 2236 c.c. A chiarirlo è anche il codice deontologico adottato dalla FNOVI (Federazione nazionale orine veterinari italiani) all’art. 22. Si tratta dunque, di una attività che si sostanzia in una prestazione di mezzi e non di risultato, per cui il veterinario ha il dovere- obbligo di adempiere ai propri doveri professionali con diligenza e prudenza- nel caso di specie di cui sopra in effetti il veterinario era stato negligente-, oltre a quello di probità, dignità, decoro,  di informazione e di acquisizione del consenso informato (artt. 9 ss e 29 del codice deontologico). Ciò detto, quella del medico-veterinario è una responsabilità di tipo contrattuale, di qui l’obbligo, a partire dal 2012- con il D.P.R. 137/2012, di sottoscrivere una polizza assicurativa per i danni causati a terzi nell’esercizio professionale.

Ictu oculi, tale interpretazione non sembrerebbe che una magra consolazione per chi non avrebbe dovuto e voluto perdere il suo amico più caro, ma l’evoluzione giurisprudenziale in tal senso è importante soprattutto perché rappresenta un segnale. Il segnale che i tempi sono maturi per poter finalmente approdare ad un riconoscimento giuridico dell’animale da compagnia e affezione quale soggetto di diritto a tutti gli effetti, a prescindere anche dal legame tra esso e il suo umano compagno.

In tal senso Cass., III Sez. Penale, con sent. n. 18892 del 13 maggio 2011: il reato di abbandono ex art. 727 c.p. si estrinseca non solo nella volontà di abbandonare (o lasciare) l’animale, ma anche nel concetto di trascuratezza, intesa come indifferenza verso l’altrui sorte, ovvero non prendendosi più cura dell’animale pur essendo ben consapevole della sua incapacità di provvedere a se stesso. Ragion per cui il proprietario di un cane deve adoperarsi per ritrovarlo dopo averlo smarrito, denunciandone la scomparsa con segnalazione alle autorità competenti del numero di microchip.

Sulla stessa lunghezza d’onda,  Cass. n. 44902/2012, che confermava la condanna ai sensi dell’art. 727 c.p. della proprietaria del cane abbandonato in auto con i finestrini chiusi in una giornata soleggiata e con temperatura particolarmente elevata, con la precisazione- poi fatta dal veterinario- che tale comportamento è assolutamente incompatibile con la natura dell’animale, potendo ben provocare sofferenza e paura (il medico-veterinario faceva notare, nel processo di merito, che gli escrementi rinvenuti nell’auto potevano essere stati provocati dallo stato di ansia e paura).

In sede civile, più recentemente, in una  sentenza del tribunale di Pavia ( n. 1266 del 17/09/2016) si legge che “…nella realtà sociale è negli ultimi tempi emerso un interesse particolare nei confronti degli animali di affezione, che ormai nell’evoluzione del costume sono visti come integranti nell’ambito familiare e parte del contesto affettivo…” per cui “…non può considerarsi futile la perdita dell’animale  e, in determinate condizioni, quando il legame affettivo è particolarmente intenso così da far ritenere che la perdita vada a ledere la sfera emotivo- interiore del o dei padroni, il danno va risarcito”. La sentenza, tra l’altro, si faceva carico di chiarire che questa interpretazione non deve considerarsi in contrasto con quanto espresso dalla  Cassazione con la sentenza del 2007 di cui si è detto sopra, perché in quella occasione gli ermellini non stavano affermando che la perdita di un animale da affezione non possa mai dar luogo a un danno esistenziale, ma solo che non si presume l’esistenza di tale danno, essendo necessaria una prova specifica.

 “… nel caso di specie, il giudice a quo ha negato la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dal ferimento dell’animale di affezione uniformandosi all’orientamento già fatto proprio dalla giurisprudenza di questa Corte, ai sensi del quale non è riconducibile ad alcuna categoria di danno non patrimoniale risarcibile la perdita, a seguito di un fatto illecito, di un animale di affezione, in quanto essa non è qualificabile come danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata, non potendo essere sufficiente, a tal fine, la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla perdita della ‘qualità della vita’ (Sez. III, Sent., n. 14846 del 27/06/2007)”.

Infine si vuole citare Cass., IV Sez Civile, ordinanza n. 26770/2018: al padrone di un cane investito da un’auto non può spettare il risarcimento del danno patrimoniale perché quello subìto non può qualificarsi come pregiudizio esistenziale di un interesse del soggetto.

La sensazione è quella di aver fatto molti passi indietro, alla fine di un percorso di certo non lineare, fino a ritornare alla sentenza del 2007 di cui si è detto, con la quale la Suprema Corte riteneva non risarcibile il pregiudizio sofferto per la perdita del cavallo da corsa allorquando la lesione andava ad incidere su un rapporto sprovvisto di copertura costituzionale, il rapporto tra uomo e animale.

E allora, è proprio il caso di dirlo, l’attuale assetto appare chiaramente inadatto perché se “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” (art. 2), è evidente che tale tutela è finalizzata a garantire lo sviluppo della della persona in quanto tale. Che la personalità si determini anche mediante aspetti affettivi – sentimenti, emozioni –  è cosa ormai ben nota, così come ormai è ben noto quanto un animale domestico possa apportare, in termini di benessere, alla persona. Ma ancor più, sarebbe una grande scelta di civiltà qualificare i nostri piccoli grandi amici come soggetti di diritto, affinchè possano finalmente essere riconosciuti per quello che sono: esseri viventi, non certo suppellettili, capaci di sentimenti per noi umani quasi ormai sconosciuti.


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