Norma penale ed illiceità contrattuale

Norma penale ed illiceità contrattuale

1. Premessa.

Con sentenza n. 26097 del 19 dicembre 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha definitivamente spezzato la linea di demarcazione tra diritto penale ed illiceità contrattuale.

Sul tema, da circa un decennio, intercorrono aspri conflitti in seno alla giurisprudenza.

In sostanza, al fine di rendere una più esatta trattazione della questione, è opportuno rivolgere brevi cenni alla categoria dei c.d. reati in contratto.

2. Reato in contratto.

Trattasi di reati plurisoggettivi di tipo improprio, sostanziandosi nella  condotta illecita di un soggetto in sede di  conclusione di un contratto o nella successiva fase della sua esecuzione.

Nella formulazione di una siffatta fattispecie, il legislatore ha inteso punire quei comportamenti  propedeutici all’ottenimento di un vantaggio ingiusto o meglio di un profitto illecito.

Ciò premesso, la dottrina riconduce tali fattispecie alla norma incriminatrice contenuta nell’art. 640 c.p. che introduce il reato di truffa. Essa punisce «Chiunque con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno».

Si tratta di fattispecie penali che comportano una cooperazione artificiosa della vittima, dato che per il loro perfezionamento è necessario un sacrificio patrimoniale del soggetto passivo del reato.

Trascendendo dalla formulazione letterale della disposizione e calandosi più nel profondo alla realtà contrattuale, ciò che rileva ai fini della sua configurazione, è la condotta tenuta da una parte al fine di indurre taluni in errore.

Anche il silenzio serbato silenziosamente, laddove vi sia un dovere giuridico di rendere manifeste talune condizioni, è elemento sufficiente a considerare consumato il reato di truffa contrattuale, giacchè il soggetto passivo presterebbe un consenso che in assenza del raggiro serbato non avrebbe mai prestato.

Sul piano dell’efficacia, se ne ricava un negozio che –  in mancanza del comportamento illecito o fraudolento – non sarebbe stato concluso o sarebbe stato concluso in condizioni differenti.

E’ proprio l’elemento del profitto illecito a rilevare ai fini della invalidità del contratto, esigendone la punibilità onde evitare una realtà contrattuale inutiliter data e pertanto destinata ad  inserirsi  in  un circuito economico illecito.

Preponderanti ad inficiare sulla validità del negozio sono talune regole di condotta che pur, non insite nella struttura del contratto, agiscono sulla sua efficacia. L’interesse protetto da talune fattispecie penali  non risulta, pertanto, circoscritto alla protezione patrimoniale della vittima, estendendosi bensì  fino alla libertà negoziale.

3. Orientamenti contrastanti.

Per molto tempo, la dottrina ha mostrato un certo margine di perplessità sulla possibilità che la violazione di una norma penale potesse incidere sulla validità di un negozio difatti concluso.

Il vero punto di svolta si è verificato allorquando ci si è incamminati nel considerare nell’alveo delle norme imperative anche le norme penali poste a tutela di interessi superiori.

Orbene, non si  può prescindere dal considerare quanto disposto dall’art. 1418 c.c., norma cardine in materia di patologie contrattuali.

La succitata norma sanziona con una excepto nullitatis il contratto concluso in violazione di norme imperative.

Si tratta di una nullità che trova il suo fondamento, in iure e de facto, nella garanzia di interessi e valori di ampio spessore costituzionale, individuati in primis nella protezione di soggetti contrattualmente deboli.

In sostanza, mediante la sanzione della nullità, si raggiunge l’obiettivo di proteggere l’interesse collettivo a fronte di condotte illecite o contrarie al buon funzionamento del mercato.

Ed è a tal punto che ci si è diretti verso il riconoscimento della norma penale nella categoria delle norme imperative.

Il cammino, tuttavia, è stato fortemente tortuoso, dato che solo negli ultimi anni si è raggiunta una pacifica omogeneità di vedute all’interno della giurisprudenza.

Orbene, è su questo binario si sono sviluppate la teoria pan – privatistica, la teoria penalistica e la teoria autonomista.

Accogliendo la tesi pan privatistica, si conclude nel considerare distinti i due sistemi di norme penali e  norme civili. In particolare, per struttura e per ratio le norme penali sarebbero distinte da quelle civili laddove esse, pur limitandosi a fissare pene, risultano prive di quell’efficacia automatica che rende immediatamente nullo un contratto, qualora questi  contrasti con i precetti in esse contenuti. Tale concezione fa perno su una visione sanzionatoria del diritto penale e delle sue norme, che per loro natura debbono limitarsi a fissare specifici divieti e pene senza implicazioni sugli istituti tipici del diritto civile.

Di guisa, trascendendo da un’analisi dell’interesse generale violato, la norma penale non parrebbe in alcun modo inficiare un contratto determinandone l’invalidità.

Sul versante opposto si registra, invece, la teoria penalistica. Quest’ultima, come il nomen suggerisce,  afferma la supremazia del diritto penale sul diritto civile, concludendo che la violazione di un precetto penale  in un negozio inter vivos non può che tradursi necessariamente in una forma di invalidità contrattuale. Secondo tale indirizzo, sebbene l’obiettivo del diritto penale sia quello di punire la violazione di norme nella formazione o esecuzione del contratto qualora da questa ne derivi un reato, il diritto civile non può non considerare quel negozio invalido e improduttivo di effetti.

Per ultimo, in ordine cronologico, si registra l’avvento della teoria autonomistica, di connotato più garantista ed ispirata a ragioni di conservazione negoziale. Essa afferma che l’incidenza della norma penale sulla validità contrattuale debba esser valutata mediante un’analisi ermeneutica che tenga conto della fonte del divieto ivi prescritto.

In altri termini, è necessario che l’interprete riconosca che la norma penale violata si traduca  non solo in una sanzione penale ma altresì ad una illiceità contrattuale. Pertanto,  la tesi in questione, trascendendo dal dato letterale delle norme, non si limita a fissare astratti e inconcludenti scopi di giustizia  ma si spinge oltre  fino a dare concreta attuazione alla protezione di interessi di rilevanza pubblica.

Essa, difatti, appare esser la tesi più condivisibile in un ordinamento garantista quale è quello nostrano e che trova concreta consacrazione anche nella sentenza n. 26097 del 19 dicembre 2016.

4. Nullità virtuale.

Con tale pronuncia, la Corte di Cassazione misura il grado di incidenza della norma penale sulla sopravvivenza di un negozio contrario a norme imperative. Coerentemente a quanto disposto dall’art. 1418 c.c. in tema di nullità del contratto, i giudici di Piazza Cavour individuano nel criterio sostanziale, il limite-soglia per considerare invalido un negozio illecito.

L’adozione di un siffatto criterio si traduce in una forma di nullità virtuale del contratto.

Come è noto, il sistema di norme civilistiche conosce varie forme di nullità. Comunemente si tende a distinguere fra nullità strutturali, nullità testuali e nullità virtuali. Mentre le prime attengono alla mancanza di elementi essenziali del negozio quali l’oggetto, la causa e la forma (quando è prescritta ab substantiam), le seconde risultano subordinate ai singoli casi previsti dalla legge, coerentemente al rinvio operato dall’art. 1418 c.c. secondo cui «Il contratto è altresì nullo negli altri casi previsti dalla legge».

Contrariamente, le nullità virtuali, non investendo elementi intrinseci del contratto, lo travolgono qualora da esso risulti stata conclusa una disposizione  contra ius o contraria a norme imperative.

Affinchè possa operare una siffatta forma di invalidità contrattuale, è necessaria un incisiva attività interpretativa che tenga conto dell’interesse effettivamente violato. Non un qualunque interesse è idoneo a considerare violata una norma imperativa. Ciò che rileva sono solo gli interessi generali posti a presidio della collettività e che, non per coincidenza, vengono individuati nelle norme penali.

L’avvento della tesi autonomistica dimostra la necessità di direzionare la lente di ingrandimento sull’interesse generalmente tutelato, non limitandosi ad osservare il dato testuale delle disposizioni contrattuali.

In tal modo,  il confine tra norme penali e sistema civile dei contratti è stato reso più sottile, laddove si registra una più incisiva interferenza del diritto penale nella realtà contrattuale.

 


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Federica Posta

Dott.ssa magistrale in Giurisprudenza. Specializzata in professioni legali presso la Scuola di specializzazione La Sapienza Roma

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