Nullità del licenziamento per causa di matrimonio
Vi sono casi in cui una disparità di trattamento non sfocia in discriminazioni fondate sul sesso.
La Corte di Cassazione con sentenza n°28926 del 13 novembre 2018 ha affermato che è legittima la norma che prevede la nullità del licenziamento a causa di matrimonio a beneficio della sola lavoratrice: non sussiste alcuna discriminazione di genere correlata alle tutele poste dall’art. 35 del D. Lgs n°198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità) in caso di licenziamento di un uomo nel periodo dell’anno susseguente alla celebrazione del matrimonio.
La vicenda
Il ricorrente impugnava il licenziamento per una serie di motivi, tra i quali vi era la circostanza che questo gli era stato intimato nel corso dell’arco temporale previsto dall’art. 35 del D. Lgs. 198/2006 (cd. “Codice delle pari opportunità): riteneva pertanto che quest’ultima fosse discriminatoria, poiché riferita alle sole lavoratrici, pur essendo inserita nel codice delle pari opportunità. La predetta norma, ai commi 2 e 3, prevede infatti la nullità del licenziamento a causa di matrimonio delle sole lavoratrici e ne presume la sussistenza ogni qualvolta esso intervenga nel periodo compreso tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio sino ad un anno dopo la celebrazione dello stesso. Nei precedenti gradi di giudizio, tale domanda è sempre stata rigettata, in quanto sia il Tribunale che la Corte di Appello di Bologna ritenevano che non vi fosse alcuna discriminazione ingiustificata tra sessi, né sotto il profilo costituzionale (art. 37, c. 1, Cost.), né sotto quello comunitario (art. 23, c. 2, Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE). Il lavoratore decideva quindi di rivolgersi alla Corte di Cassazione, lamentando in tale sede non solo la falsa applicazione dell’art. 35, laddove la nullità del licenziamento a causa di matrimonio sia interpretata come limitata in senso letterale alla sola lavoratrice, ma anche la violazione dell’art. 2, c. 1, della Direttiva 76/207/CE di esclusione di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.
Precedenti giurisprudenziali
Nel codice delle pari opportunità sono confluiti gli articoli 1, 2 e 6 della Legge 7/1963, recante il divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio.
In merito all’art. 1, ultimo comma, della legge sopra citata, era stata sollevata questione di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 2, 3, 37 e 47 della Costituzione e, quindi, per violazione dei principi di uguaglianza e di libertà di iniziativa economica.
Questione tuttavia ritenuta infondata dalla Corte Costituzionale, che, con sent. n°27/1969, aveva compiuto un’analisi degli usi che si stavano diffondendo all’epoca dell’entrata in vigore della legge del 1963. La Corte rilevava come fosse un dato di fatto la prassi diffusa in passato dei licenziamenti delle donne lavoratrici, non solo in occasione del loro matrimonio, ma anche in caso di gravidanza e maternità: da qui sorgeva la necessità di accordare alle prestatrici di lavoro una adeguata tutela, sorretta da ragioni corrispondenti alla realtà sociale, al ruolo fondamentale che la donna iniziava a ricoprire nella società, e quindi fondate su una pluralità di principi costituzionalmente garantiti e di seguito riportati:
art. 2 Cost., di garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali la libertà di contrarre matrimonio;
art. 3, comma 2, Cost., che realizza il principio di uguaglianza sostanziale attraverso la rimozione di ogni ostacolo al pieno sviluppo della persona umana;
art. 4 Cost.,, di proclamazione del diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Repubblica
art. 31 Cost., di agevolazione della formazione della famiglia attraverso l’eliminazione di ogni ostacolo, anche indiretto;
art. 37 Cost., di fissazione di condizioni di lavoro per la donna compatibili con l’adempimento della sua funzione familiare e nel rispetto del suo diritto di diventare sposa e madre.
La decisione
La Suprema Corte, chiamata a decidere sul punto, rileva come la norma censurata dal ricorrente, non a caso inserita nel codice delle pari opportunità, deve essere necessariamente letta, ai fini di una sua corretta comprensione, quale approdo della tutela costituzionale assicurata ai diritti della donna lavoratrice.
L’art. 35 del D. Lgs. 198/2006 non è affatto discriminatorio ma, anzi, assolutamente legittimo: essa risponde ad una diversità di trattamento giustificata da ragioni di tutela della maternità, costituzionalmente garantita alla donna, in funzione dell’adempimento della sua “essenziale funzione familiare” anche nell’assicurare alla madre e al bambino una speciale ed adeguata protezione (art. 37, comma 1, Cost.). Sulla base di tali premesse, la norma in questione non si porrebbe in contrasto nemmeno con la normativa antidiscriminatoria europea: né con l’art. 23, c. 2 (secondo cui “il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevengano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato”), né con l’art. 33 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’ UE (secondo cui “al fine di poter conciliare vita familiare e professionale, ogni persona ha il diritto di essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e il diritto ad un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo la nascita o l’adozione di un figlio”).
Essa è destinata quindi a tutelare il rapporto tra madre e figlio nel suo primissimo periodo di vita, non solo per quanto riguarda i bisogni propriamente biologici, ma anche per quanto riguarda le esigenze di carattere relazionale ed affettivo collegate allo sviluppo della personalità del bambino. Pertanto, sulla base di tali considerazioni, la Corte di Cassazione riteneva infondato tale motivo di impugnazione del ricorrente.
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Elisa Nardocci
Nata a Viterbo nel 1990, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza nel gennaio 2017 presso l'Università di Roma "La Sapienza", discutendo una tesi in diritto processuale civile dal titolo "La conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro", relatrice Prof.ssa Roberta Tiscini.
Dal febbraio 2017 svolge pratica forense presso uno studio legale che si occupa prevalentemente di diritto civile, di famiglia, del lavoro e previdenziale.