Nullità virtuale e sorte dei contratti a valle di intese anti-concorrenziali nulle (il caso delle clausole ABI). Riflessi sulla distinzione tra regole di validità e regole di comportamento
L’art. 1418 c.c. prevede tre diverse tipologie di nullità contrattuali: testuale (comma terzo), strutturale (comma secondo) e virtuale (comma primo). Quest’ultima, derivante dalla violazione di norme imperative, è quella che da tempo solleva i maggiori problemi interpretativi. La questione problematica riguarda soprattutto l’esatta perimetrazione della nozione di “norme imperative”. Tali norme vengono tradizionalmente definite come quelle che impongono obblighi espressivi di principi generali di ordine pubblico, tutelando diritti indisponibili di rilevanza pubblicistica. Ne consegue, secondo una consolidata giurisprudenza, che sono ascrivibili a tale categoria le norme che presentino due fondamentali caratteristiche: l’assolutezza, per cui la relativa violazione può essere fatta da valere da chiunque; la non settorialità, per cui la norma non ha un campo applicativo circoscritto ad uno specifico settore dell’ordinamento né prevede sanzioni extra-civilistiche. In particolare, tale ultima caratteristica è corollario della teoria del c.d. minimo mezzo, per cui la nullità rappresenta un sorta di extrema ratio tra i rimedi dissuasivi a disposizione dell’ordinamento rispetto allo scorretto esercizio dell’autonomia negoziale, da limitare alle sole ipotesi in cui non sussistano rimedi che risultino altrettanto adeguati in tal senso, ma che non producano effetti demolitori sul contratto. Tale teoria è altresì alla base del principio di c.d. non interferenza tra ordinamento civile e ordinamento tributario (oggi recepito nell’art. 10 dello Statuto dei contribuenti), per cui le violazioni fiscali, ancorché commesse nell’ambito di fattispecie negoziali, sono, di regola, passibili esclusivamente di sanzioni proprie e non anche fonte di patologie contrattuali. Tale principio si ricava inoltre anche da un’attenta valorizzazione dell’inciso letterale “salvo che la legge disponga diversamente” di cui all’art. 1418 comma primo: si ritiene infatti che la previsione di sanzioni extra-civilistiche sia una tacita previsione contraria alla nullità virtuale civilistica.
Completa il quadro della perimetrazione delle norme imperative fonte di nullità virtuale l’importante distinzione tra regole di validità e regole di comportamento. Le prime comminano obblighi direttamente afferenti al regolamento contrattuale ed all’integrità della volontà negoziale, onde la relativa violazione non può che travolgere direttamente il contenuto del contratto per effetto di nullità virtuale (che, non di rado, si sovrappone a quelle testuali e strutturali). Le seconde impongono invece specifici obblighi inerenti la correttezza e buona fede nelle trattative pre-contrattuali la cui violazione è, di regola, fonte di responsabilità da c.d. contratto valido ma svantaggioso (si parla in proposito di vizi incompleti del contratto), ma non di nullità, a nulla rilevando che si tratti di norme imperative. Tale distinzione costituisce ormai diritto vivente sin dalla nota sentenza Rordorf delle Sezioni Unite del 2007, seppur, come si vedrà nel proseguo, talvolta surrettiziamente messa in discussione.
Nonostante il notevole consenso dottrinale e giurisprudenziale su tali principi, il tema dell’individuazione delle norme imperative e del perimetro applicativo della nullità virtuale rimane oggetto di dibattito. Di recente la questione è sorta in relazione alla sorte dei contratti stipulati a valle di intese anti-concorrenziali nulle, con particolare riferimento alle clausole ABI invalidate dalla Banca d’Italia ma, medio tempore, recepite in molti contratti di fideiussione bancaria.
Il contrasto è stato di recente dipanato dalle Sezioni Unite che hanno aderito alla tesi della nullità parziale necessaria ex art. 1419 di tali clausole. Prima di esaminare nel dettaglio il percorso argomentativo che ha portato a tale decisione giova inquadrare in termini più precisi la questione in esame.
Il caso. Nel 2002 l’Associazione Bancaria Italia (ABI) aveva predisposto uno schema indicativo – sebbene non vincolante – di stesura dei contratti di fideiussione omnibus di cui all’art. 1938 c.c. che garantiscono le operazioni bancarie. Nel 2005 la Banca d’Italia ritenne che tre clausole di tale schema (art. 2, 6 e 8 dello schema), se applicate uniformemente sul mercato, avrebbero comportato un’alterazione della concorrenza contraria al dettato dell‘art. 2 co. 2 della legge Antitrust 287/90, a mente del quale sono vietate “le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali…” Le clausole critiche in questione erano le seguenti: la c.d. clausola di reviviscenza, in base alla quale se il pagamento eseguito dal debitore principale garantito viene dichiarato nullo o inefficace, per cui la banca deve restituire la somma al debitore, “rivive” l’obbligazione del fideiussore, il quale dovrà ugualmente pagare il debito alla banca; la c.d. clausola di sopravvivenza, in base alla quale, in deroga all’art. 1939 c.c., la fideiussione “sopravvive” nel caso in cui venga accertata l’invalidità dell’obbligazione principale; la c.d. clausola di rinuncia ai termini, in base alla quale, in deroga all’art. 1957 c.c., i diritti della banca nei confronti del fideiussore rimangono integri anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale senza che la stessa sia tenuta entro sei mesi ad escutere debitore o fideiussore. Quest’ultima clausola rappresentava quella maggiormente critica, avendo l’effetto di trasferire sul fideiussore la negligenza della banca nella tempestiva escussione di debitore o fideiussore.
Sebbene queste clausole fossero astrattamente lecite sotto il profilo civilistico, in quanto derogatorie di norme dispositive, come detto, nel 2005 la Banca d’Italia ne dichiarò la nullità poiché “suscettibili di determinare un aggravio economico indiretto in termini di minore facilità di accesso al credito”. In altre parole, l’applicazione uniforme di tali clausole, indipendentemente dalla loro intrinseca liceità sul piano civilistico, avrebbe “ristretto in maniera consistente il gioco della concorrenza” – in violazione del divieto disposto dal succitato art. 2 legge 287/90 – nella misura in cui, da un lato scaricavano sul fideiussore oneri che la banca avrebbe potuto ragionevolmente assumere da sé e, dall’altro, limitavano la libertà di scelta dei fideiussori, posto che tutte le banche applicavano lo stesso schema.
All’indomani di tale provvedimento della Banca d’Italia, cominciò a porsi la questione della sorte dei contratti di fideiussione stipulati a valle di tale “intesa”, contenenti le clausole in questione. Premessa l’ ingiustizia subita dal fideiussore, vincolato ad un contratto stipulato a condizioni deteriori per effetto di un’asserita alterazione della concorrenza, la questione problematica riguardava il tipo di tutela da riconoscere a tale soggetto: reale o risarcitoria. La questione passa, inevitabilmente, dalla risoluzione del nodo tra validità o nullità dei contratti stipulati a valle dello schema ABI e, nel caso di adesione alla tesi della nullità, dell’ulteriore alternativa tra nullità totale del contratto o nullità parziale delle clausole ex art. 1419 c.c.
Le tesi. Le diverse tesi circa la sorte di tali contratti a valle erano, prima dell’intervento delle Sezioni Unite, riconducibili a tre principali indirizzi.
Secondo un primo minoritario formante tali contratti devono considerarsi pienamente validi, attesa l’autonomia strutturale tra gli stessi, stipulati tra soggetti estranei all’intesa a monte, e i partecipanti all’intesa medesima. Nella specie tali contratti appartengono infatti alla categoria dei contratti a valle meramente consecutivi, aventi causa e oggetto in sè e leciti, se considerati astraendo dall’intesa a monte di cui costituiscono l’estrinsecazione finale, diversamente dai contratti c.d. attuativi, posti in essere dai medesimi partecipanti all’intesa/pratica concertata a monte, di cui mutuano oggetto e causa illeciti. Partendo da tali premesse, tale indirizzo esclude la ravvisabilità di alcuno dei tre tipi di nullità civilistici: non ricorre alcuna nullità testuale, posto che il divieto di cui all’art. 2 l. 287/90 a pena di “nullità ad ogni effetto” (co. 3) è strettamente riferito all’intesa; non ricorre una nullità strutturale posto che, come detto, tali contratti presentano causa e oggetto in sé pienamente leciti; né ricorre alcuna nullità virtuale, in quanto il predetto art. 2 può al più assumere, rispetto ai contraenti a valle, valenza di regola di comportamento ma non di regola di validità. Ne consegue che il fideiussore, pur pacificamente vittima di un danno ingiusto derivante dalla violazione degli artt. 2 l. 287/90 e 101 TFUE (norma comunitaria primaria a tutela della concorrenza), gode di una tutela esclusivamente risarcitoria sul modello di quella prevista dall’art. 1440 per il caso di dolo incidente, posto che la scorrettezza ha inciso sul contenuto del contratto, ma non sulla scelta di stipularlo.
Secondo un indirizzo diametralmente opposto, la sorte di tali contratti è la nullità totale, con conseguente riconoscibilità di tutela reale al fideiussore. Tale orientamento muove da un argomento di carattere logico-giuridico e da un argomento di carattere letterale. In base al primo argomento si rileva che che tra l’intesa e i contratti a valle sussiste un collegamento funzionale non dissimile da quello che lega i c.d. contratti collegati, per i quali, come noto, opera la regola “simul stabunt simul cadent“: la nullità dell’intesa “si trasmette” ai contratti che, recependone il contenuto, ne mutuano integralmente il vizio, a nulla rilevando che siano stipulati da soggetti estranei alla stessa e che abbiano causa e oggetto in sé leciti. Si tratterebbe pertanto di una nullità strutturale (anche se, nell’ambito di tale filone, non manca chi ravvisa una nullità virtuale per violazione diretta dell’art. 2 l. 287/90), ma al contempo testuale, posto che l’art. 2 co. 3 della legge Antitrust predica la nullità “ad ogni effetto” delle intese vietate, effetti tra i quali dovrebbero ricomprendersi anche i contratti a valle. Proprio tale inciso viene valorizzato dai sostenitori di tale tesi sotto il profilo dell’argomento letterale: partendo dal presupposto che l’art. 2 l. 287/90 vieta non solo le intese ma anche le pratiche concertate, non suscettibili di alcuna formale nullità, si osserva che la nullità di cui alla norma in esame si riferisce inevitabilmente non al singolo accordo a monte bensì a tutta la complessiva situazione che realizzi un ostacolo alla concorrenza, ivi compreso il contratto a valle. Del resto – si osserva – predicare la conservazione del contratto a valle equivarrebbe, nel caso in cui l’intesa sia rappresentata da una mera pratica concertata, a lasciare l’intesa vietata priva di conseguenze sostanziali.
Secondo un terzo, intermedio, orientamento, il riflesso della nullità dell’intesa a monte sui contratti a valle sarebbe la mera nullità parziale delle clausole in esso recepite, ai sensi dell’art. 1419 c.c. Tale tesi, pur condividendo gran parte degli argomenti a sostegno della tesi della nullità totale, approda ad una soluzione compromissoria nell’ottica di un bilanciamento tra le esigenze di tutela del fideiussore (e di corretto funzionamento del mercato) ed il principio di conservazione del contratto. In particolare, si rileva che il collegamento funzionale che lega intesa nulla e contratti a valle non sia tale da trasmettere il vizio della prima sul contenuto integrale del secondo, che si limita a recepire l’intesa solo in parte qua attraverso le clausole che costituiscono, invero, solo parte del regolamento negoziale. Opera pertanto il principio generale per cui la nullità di singole clausole è di regola parziale, salvo che si tratti di clausole tali da giustificare la caducazione dell’intero contratto. Si fa notare, più nel dettaglio, che “la nullità integrale del contratto in conseguenza della nullità di singole clausole si determina solo se risulta che i contraenti non avrebbero stipulato il contratto in mancanza di quelle clausole; il che non è specificamente dedotto né dimostrato e, anzi, è da escludere sul piano logico, trattandosi di clausole a favore della banca”.
Le Sezioni Unite con la sentenza n. 41994/21 ivi in rassegna aderiscono a tale ultima tesi, arricchendola di ulteriori considerazioni.
La soluzione delle Sezioni Unite. Le Sezioni Unite condividono la premessa sostenuta dai fautori della tesi della validità dei contratti a valle secondo cui le clausole in questione non sono affette da nullità strutturale. Sotto questo profilo, improprio è il paragone con i contratti collegati e con la conseguente presunta operatività del principio “simul stabunt simul cadent”. Tale opzione interpretativa risulta recisamente esclusa già dell’eventualità che l’intesa a monte si configuri attraverso una pratica concordata priva di natura negoziale. Senonché un collegamento tra intesa e contratti a valle è comunque ravvisabile, seppur soltanto di natura funzionale: il contratto rappresenta lo strumento attraverso il quale una delle parti (la banca), realizza l’intento anti-concorrenziale alla base dell’intesa (“il contratto a valle costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”). Tanto basta a ritenere che l’imperatività del divieto di cui all’art. 2 co. 2 l. 287/90 vincola anche i contraenti a valle, con conseguente nullità virtuale (e testuale) delle clausole.
In seconda battuta, le Sezioni Unite riprendono e condividono l’argomento letterale già valorizzato dai fautori della tesi della nullità: la comminatoria di nullità “ad ogni effetto” di cui all’art. 2 co. 3 l. 287/90 non può che estendersi anche ai contratti a valle, in omaggio al principio quod nullum est nullum producit effectum, specie se si considera che l’intesa a valle può avere natura non negoziale nella forma della pratica concertata.
La sentenza mette inoltre in rilievo anche un argomento che sembra avere un carattere squisitamente “politico”: predicare la validità dei contratti a valle e conseguentemente esaurire la tutela del fideiussore nel rimedio risarcitorio produrrebbe effetti, oltre che che poco satisfattivi per quest’ultimo, scarsamente dissuasivi per gli operatori bancari autori di condotte anti-concorrenziali, posto che tale rimedio presuppone una domanda di parte, la prova di danno e nesso di causalità e soggiace a prescrizione. In tal senso, la Corte precisa che il giudizio di adeguatezza del rimedio apprestato non può prescindere dal quadro normativo, soprattutto di matrice euro-unitaria (cfr. il già citato art. 101 TFUE), a presidio del bene leso da tali condotte, ovverosia la libera concorrenza. Un quadro normativo che avverte in modo pressante l’esigenza di strumenti di contrasto a tali pratiche adeguatamente dissuasivi.
Poste queste premesse, le Sezioni Unite giungono alla compromissoria soluzione della nullità parziale delle clausole che, da un lato, consente di riconoscere tutela reale al fideiussore ed un’effettiva restaurazione della libera concorrenza, dall’altro, salvaguardia il principio di conservazione del contratto, recepito nella disciplina di cui all’art. 1419 c.c.
Considerazioni critiche. Tutti gli argomenti esposti nella sentenza in esame si prestano ad alcune considerazioni critiche.
Quanto alla presunta scarsa dissuasività del rimedio risarcitorio, deve rilevarsi che tale effetto può essere adeguatamente garantito dal c.d. public enforcement, che prevede, per le condotte anti-concorrenziali, una sanzione dell’Autorità garante fortemente stigmatizzante oltre che pesantemente afflittiva.
La presunta inadeguatezza del rimedio risarcitorio sembra essere smentita anche dal dato letterale della stessa l. 287/90 che, all’art. 3, vieta l’abuso di posizione dominante ma senza comminarne la nullità. Ciò sembra peraltro indicativo della voluntas legis di circoscrivere la nullità alle sole intese negoziali a monte, e non alla “complessiva situazione che realizzi un ostacolo alla concorrenza”.
La soluzione delle Sezioni Unite non pare completamente persuasiva nemmeno sul piano strettamente pratico. Lo sforzo ermeneutico di trovare un punto di equilibrio tra tutela della concorrenza e conservazione del contratto potrebbe essere facilmente frustrato nell’eventualità in cui oggetto delle clausole vietate a monte non siano elementi marginali del contratto, bensì elementi essenziali (ad esempio, il prezzo) tale da rendere inapplicabile il meccanismo conservativo di cui all’art. 1419 c.c.
Anche l’argomento testuale si espone ad alcuni rilievi critici. Tale argomento, valorizzando l’inciso di cui all’art. 2 co. 3 l. 287/90 “le intese sono nulle ad ogni effetto”, presuppone che i contratti a valle siano un effetto dell’intesa. Tale assunto pare tuttavia essere tutt’altro che scontato. Si potrebbe infatti sostenere che i contratti a valle abbiano un‘autonomia propria rispetto all’intesa, come confermato dall’estraneità dei contraenti alla stessa, onde se di collegamento tra intesa e contratti si vuol discorrere, può al più parlarsi di collegamento “di mero fatto”. Peraltro, l’intesa pare essere vietata più per la sua idoneità a mettere in pericolo la libera concorrenza che non per la sua effettiva lesività della stessa: l’intesa è vietata, ed è nulla, per il solo fatto di essere tale, a prescindere che venga “recepita” in un contratto a valle.
Anche a voler ritenere sussistente un siffatto collegamento, non pare univoco che questo sia tale da rendere l’art. 2 l. 287/90 vincolante, in termini di validità, anche per le parti del contratto a valle. In tal senso, di cruciale rilievo è la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento. Le clausole ABI non sono infatti di per sé nulle, in quanto – giova ribadirlo – derogatorie di norme meramente dispositive, ma lo diventano nella misura in cui costituiscono il recepimento di un’intesa idonea ad alterare la concorrenza. Sulla base di questa premessa è possibile ritenere che il divieto di recepire il contenuto di intese nulle in contratti a valle si atteggi a mera regola di comportamento, espressione di un generale dovere di correttezza, volto a proteggere le parti nella fase pre-contrattuale.
Le Sezioni Unite condividono la premessa per cui le clausole in questione sono astrattamente valide, ma giungono alla conclusione che l’interesse tutelato dalla normativa antitrust non è quello meramente individuale delle parti, ma è quello del mercato in senso oggettivo, che non può essere adeguatamente garantito se non attraverso una compiuta tutela reale. Si nota, in tale argomento, una tendenza alla sovrapposizione tra regole di validità e regole di comportamento, se non addirittura all’obliterazione della distinzione stessa. Se il divieto di recepire il contenuto di intese nulle in contratti a valle è, come pare, regola di comportamento, questa non può, fuori dai casi di contratto consumeristico, essere fonte di nullità, ma semplicemente di responsabilità.
Quest’ultimo pare essere l’aspetto più critico della sentenza in esame, in quanto espressione di una tendenza sempre più marcata in giurisprudenza al superamento della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento, che invero, pare avere fondamento normativo oltre che dogmatico.
La tendenza giurisprudenziale al superamento tra regole di comportamento e regole di validità. Un esempio di tale tendenza si riscontra anche nel recente filone giurisprudenziale che, disattendendo la tesi espressa in un obiter dictum delle Sezioni Unite Rordorf del 2007, ritiene che il contratto concluso all’esito di circonvenzione di incapace sia affetto da nullità virtuale (ex plurimis, Cass. civ. Sez. III n. 7785/2016). Tale indirizzo sconfessa quello precedente fondato sulla distinzione, a sua volta figlia di quella tra regole di validità e regole di comportamento, tra reati-contratto e reati in contratto. Alla prima categoria appartengono i reati la cui condotta si esaurisce completamente nella stipulazione del contratto vietato (ad esempio, usura, corruzione), mentre alla seconda appartengono i reati la cui condotta tipica comprende anche e soprattutto condotte violente o ingannevoli commesse nella fase delle trattative pre-contrattuali, delle quali la stipulazione del contratto rappresenta solo l’evento consequenziale (ad esempio truffa, estorsione e circonvenzione di incapace). Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite Rordorf del 2007, nella prima tipologia di reati vengono violate regole di validità, motivo per cui la sorte del contratto è la nullità, mentre nella seconda tipologia di reati vengono violate regole di comportamento con conseguente mera annullabilità del contratto.
L’orientamento innovativo predica invece, come detto, la nullità virtuale del contratto concluso all’esito di circonvenzione di incapace, sebbene ascrivibile alla categoria dei reati in contratto, muovendo da esigenze di maggior tutela della vittima. La conseguenza di tale conclusione è, come osservato in dottrina, che la medesima patologia contrattuale scaturisce da reati-contratto e reati in contratto, assottigliandone le differenze e ridimensionando pertanto anche la distinzione tra regole di validità e regole di comportamento.
Conclusioni. La sentenza delle Sezioni Unite ivi esaminata, a dispetto del carattere apparentemente settoriale, offre importanti spunti di riflessione sul fondamentale tema dell’individuazione delle norme imperative fonte di nullità virtuale e del ruolo della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento. Una distinzione che dall’impianto argomentativo delle Sezioni Unite esce, seppur solo implicitamente, particolarmente ridimensionata.
Non pare tuttavia, de jure condito, potersi prescindere da tale distinzione. Essa trova infatti fondamento in alcune disposizioni codicistiche che ricollegano alla scorrettezza pre-contrattuale la sola responsabilità ma non anche l’invalidità del contratto (es. dolo incidente ex art. 1440), e nella disciplina del contratto consumeristico che, con norme ad hoc, individua apposite regole di comportamento, volte a colmare la peculiare asimetria informativa che caratterizza tale tipologia di contratto, come fonte di nullità di protezione. Inoltre il superamento di tale distinzione rischia di elevare l’art. 1418 a clausola generale, uno strumento demolitorio del contratto da utilizzare ogniqualvolta il contenuto dello stesso appaia squilibrato o sconveniente per l’ordinamento, anche in assenza di una puntuale prescrizione normativa che commini la nullità.
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