Obbligazioni pecuniarie e anatocismo bancario: il nuovo art. 120 TUB alla luce della legge n. 49/2016
Le obbligazioni pecuniarie sono una species del più ampio genere “obbligazioni” e occupano un ruolo fondamentale nella realtà giuridica. Ciò si evince, soprattutto, avendo riguardo alla collocazione sistematica all’interno del codice civile che, non a caso, le pone in apertura del Capo VII, del Libro IV, disciplinante “alcune specie di obbligazioni”.
La loro particolarità è data soprattutto dal bene che hanno ad oggetto. Il danaro, infatti, è caratterizzato da un duplice valore, intrinseco (ossia legato al valore della moneta e del metallo utilizzato) ed estrinseco (corrispondente al suo valore di scambio), e la disciplina giuridica è sorretta da una pluralità di principi.
Dall’art. 1277 cc, infatti, si evincono da un lato il principio liberatorio, secondo cui le obbligazioni si estinguono con moneta avente corso legale, dall’altro il principio nominalistico per cui i debiti pecuniari sono soddisfatti per il loro valore nominale e non reale.
Tuttavia, quello che realmente contraddistingue questa specie di obbligazione da tutte le altre è il principio di naturale fecondità del denaro. Quest’ultimo è, infatti, bene fruttifero per eccellenza essendo in grado di produrre automaticamente interessi i quali sono, innanzitutto, definiti dall’art. 820 cc come frutti civili della cosa.
La categoria degli interessi è eterogenea e poco nitida proprio perché manca, a livello codicistico, una classificazione precisa.
Possono distinguersi principalmente gli interessi legali e gli interessi convenzionali, a seconda della loro fonte.
Rispetto alla funzione svolta, invece, si tende a distinguere gli interessi remuneratori da quelli sanzionatori (in materia di transazioni commerciali).
Più in particolare, il codice individua gli interessi corrispettivi, di cui all’art. 1282 comma 1 cc, ovvero quelli automaticamente sorti con il sorgere del credito, e destinati a remunerare il creditore per il tempo in cui il debitore ha potuto godere della somma di denaro. Secondo alcuni, da questi andrebbero poi tenuti distinti gli interessi cd. compensativi, previsti in particolare in tema di vendita. L’art. 1499 cc prevede, infatti, in un’ottica equitativa il sorgere di interessi sul prezzo quando la cosa alienata abbia prodotto frutti o altri proventi.
L’art. 1224 cc, infine, disciplina gli interessi cd. moratori (o legali), i quali hanno la funzione di risarcireil creditore per il ritardo subìto nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria.
Il principio di naturale fecondità del denaro, dunque, si spiega soprattutto nell’ottica di favorire la circolazione del credito e incrementare le operazioni di prestito. I creditori, infatti, intanto hanno interesse a spogliarsi temporaneamente di una somma di danaro, in quanto vengano remunerati per il tempo in cui non ne hanno avuto la disponibilità. Malgrado ciò, al fine di evitare una proliferazione di interessi tale da incrementare enormemente il valore della prestazione pecuniaria, il legislatore ha introdotto dei correttivi costituiti dai limiti al fenomeno dell’anatocismo.
Quest’ultimo consiste nella cd. “capitalizzazione di interessi” , ovvero quel fenomeno di produzione di interessi ulteriori da parte di quelli già scaduti e non pagati ed aggiunti al capitale.
L’anatocismo è previsto dall’art. 1283 cc., ed è generalmente vietato salvo tre ipotesi: in caso di conformità agli “usi” (intendendosi per tali solo quelli normativi, formati antecedentemente all’entrata in vigore del codice del ’42), oppure successivamente alla domanda giudiziale (anatocismo giudiziale), o ancora in caso di accordo tra le parti purché la convenzione sia successiva alla scadenza degli interessi e abbia ad oggetto quelli dovuti per almeno sei mesi (anatocismo convenzionale).
Nonostante nei contratti stipulati con gli istituti di credito sia invalso più volte il tentativo di riconoscere l’esistenza dell’anatocismo in qualità di “uso”, ammettendo quindi il fenomeno in conformità all’art. 1283 cc., la giurisprudenza ha ripetutamente stigmatizzato tale consuetudine.
Infatti, come la Corte Costituzionale nel 2010 ha avuto modo di affermare, la capitalizzazione trimestrale imposta da tempo a carico dei clienti, in favore delle banche, che ad avviso di queste ultime traeva origine dall’art. 6 delle Norme Bancarie Uniformi, era in realtà una prassi priva dei connotati tipici dell’uso normativo (diuturnitas e opinio iuris ac necessitatis).
Senza alcuna pretesa di esaustività è opportuno ricordare gli interventi normativi limitatamente a quelli più recenti, fino ad arrivare all’attuale quadro legislativo.
L’art. 1, comma 629, della legge n. 147/2013 ha, infatti, modificato l’art. 120 del Testo Unico Bancario il quale prevedeva un’ulteriore ipotesi di divieto di anatocismo. In particolare al comma 2, lett. b, disponeva che gli interessi già capitalizzati non potevano produrre ulteriori interessi. Letta in maniera isolata, la norma sembra esprimere il preciso intento di eliminare definitivamente dall’ordinamento la prassi invalsa nei rapporti con le banche.
La legge, quindi, sembrava aver sopito ogni dibattito circa la ammissibilità della capitalizzazione di interessi, sia con periodicità differente dal lato attivo e passivo, sia in caso di eguale periodicità tra clienti e banche .
Ciononostante, il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto mediante l’art. 17 bis del d.l. 14 febbraio 2016 n. 18, inserito in sede di conversione con modifiche attraverso la legge n. 49/2016, riscrivendo ancora una volta l’art. 120 TUB prevedendo in particolare al comma 2 che:
Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che:
a) nei rapporti di conto corrente o di conto di pagamento sia assicurata la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori, comunque non inferiore ad un anno; gli interessi sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, in ogni caso, al termine del rapporto per cui sono dovuti;
b) gli interessi debitori maturati, ivi compresi quelli relativi a finanziamenti a valere su carte di credito, non possono produrre interessi ulteriori, salvo quelli di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale; per le aperture di credito regolate in conto corrente e in conto di pagamento, per gli sconfinamenti anche in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido: 1) gli interessi debitori sono conteggiati al 31 dicembre e diventano esigibili il 1° marzo dell’anno successivo a quello in cui sono maturati; nel caso di chiusura definitiva del rapporto, gli interessi sono immediatamente esigibili; 2) il cliente può autorizzare, anche preventivamente, l’addebito degli interessi sul conto al momento in cui questi divengono esigibili; in questo caso la somma addebitata è considerata sorte capitale; l’autorizzazione è revocabile in ogni momento, purché prima che l’addebito abbia avuto luogo.
Non può quindi non evidenziarsi il ritorno alla capitalizzazione degli interessi moratori da un lato, e all’anatocismo dietro consenso del cliente, anche preventivo, dall’altro.
La prima parte della lett. b, infatti, farebbe salvo la produzione di interessi su interessi qualora siano moratori. Tuttavia, l’apparente chiarezza legislativa non consente di riconoscere in maniera altrettanto esplicita se tale capitalizzazione avvenga automaticamente, oppure nel rispetto dei presupposti di cui all’art. 1283 cc., quindi solo a seguito di domanda giudiziale.
Nella parte finale della stessa disposizione, invece, sembrerebbe rievocarsi un’ipotesi di anatocismo bancario convenzionale, in aggiunta a quanto già previsto dall’art. 1283 cc.
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Simona Saggiomo
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