Obbligazioni pecuniarie e regime degli interessi

Obbligazioni pecuniarie e regime degli interessi

L’obbligazione pecuniaria è una specie di obbligazioni che può essere definita come quella in cui il debitore è tenuto a pagare al creditore una somma di danaro.

Considerata la rilevanza pratica della categoria, il legislatore ha dedicato all’istituto una disciplina speciale nel Libro Quarto del Codice Civile dall’art. 1277 all’art. 1284. All’interno si rinvengono ulteriore norme che fanno esplicito riferimento alle obbligazioni pecuniarie. Si pensi, ad esempio, all’art. 1182, comma 2 c.c. in tema di luogo dell’adempimento, all’art. 1219, comma 3 c.c. sull’applicazione della mora automatica e all’art. 1224 c.c. sulla speciale disciplina della mora.

L’insieme delle norme sopra richiamate tratteggiano il c.d. “statuto delle obbligazioni pecuniarie”.

È affermazione oggi largamente diffusa che  non tutte le obbligazioni aventi per oggetto una somma di danaro sono obbligazioni pecuniarie.

Le obbligazioni di danaro sono un sottoinsieme delle obbligazioni pecuniarie. Questa affermazione nasce dall’analisi della funzione della moneta. L’utilità più importante del danaro deriva dalla possibilità di scambiarla per ottenere altri beni o servizi. Si tratta della c.d. funzione di pagamento della moneta.

Nel corso degli anni, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate su quali siano i criteri per individuare questo sottoinsieme di obbligazioni pecuniarie.

Il più risalente indirizzo ha fatto riferimento al c.d. principio nominalistico codificato nell’art. 1277, comma 1 c.c., secondo il quale, i debiti pecuniari sono quelli che si estinguono mediante moneta avente corso legale nello Stato nel tempo del pagamento.

Secondo il principio nominalistico, il debitore si libera pagando alla scadenza la medesima quantità di danaro inizialmente fissata indipendentemente dal fatto che, a causa del decorso del tempo, il valore dello stesso potrebbe aver subito delle variazioni.

Occorre infatti distinguere tra valore nominale della moneta, cioè il valore numerico e il suo valore reale, cioè il suo potere di acquisto.

A causa delle oscillazioni del mercato, il valore reale della moneta varia nel tempo in modo fisiologico, subendo ad esempio il fenomeno del deprezzamento monetario.

Per tutelarsi da tali alterazioni, le parti possono introdurre nel contratto delle clausole c.d. di indicizzazione, ossia degli indici di rivalutazione della moneta attraverso i quali il valore del danaro viene aggiornato automaticamente, come, ad esempio, l’indice Istat.

Sono previste anche delle clausole di indicizzazione previste direttamente dal legislatore. Si pensi, ad esempio, all’assegno di mantenimento dei figli ex art. 337-ter, comma 5 c.c., oppure ai crediti da trattamento di fine rapporto ex art. 2120, comma 4 c.c.

È opinione diffusa in dottrina e giurisprudenza quella secondo la quale il principio nominalistico trovi applicazione solo per i c.d. debiti di valuta.

Per debiti di valuta si intendono quelle obbligazioni che possono estinte mediante una dazione di denaro e che sin dalla loro origine hanno per oggetto una somma di denaro, già quantificata o suscettibile di quantificazione all’esito di un esito di liquidazione. Sono debiti di valuta, ad esempio, l’obbligazione di pagare il prezzo della compravendita, oppure l’obbligazione di restituire la somma ricevuta a titolo di mutuo.

Rimangono esclusi dal campo di applicazione del principio nominalistico i c.d. debiti di valore, cioè quelle obbligazioni che pur estinguendosi con il danaro, non hanno ad oggetto all’origine un diverso bene. Esempio tipico delle obbligazioni di valore è l’obbligazione risarcitoria, in cui la dazione di danaro sostituisce il valore del bene danneggiato.

La liquidazione del debito di valore, secondo la giurisprudenza, deve essere effettuata attraverso una triplice operazione. La prima attiene alla quantificazione monetaria del valore che la prestazione oggetto di obbligazione aveva nel momento in cui era sorta. Successivamente si deve calcolare la rivalutazione dell’importo al momento della liquidazione attraverso le clausole di indicizzazione, come l’Istat. Infine occorre quantificare il danno da ritardo, cioè i c.d. interessi compensativi, dal momento in cui l’obbligazione era sorta alla liquidazione.

Ulteriore criterio elaborato dalla giurisprudenza e dottrina al fine di individuare le obbligazioni di danaro, ha per oggetto la distinzione tra crediti liquidi e illiquidi.

Un credito è liquido quando è determinato nel titolo nel suo ammontare, ovvero è facilmente determinabile attraverso una semplice operazione aritmetica.

Secondo le Sezioni Unite della Cassazione, sono obbligazioni pecuniarie i soli crediti liquidi. Ne consegue che, fintanto un credito non diventa liquido, e cioè non è determinato nel suo ammontare, non si può applicare il particolare regime delle obbligazioni pecuniarie.

Innanzitutto, identificare come pecuniaria una obbligazione rileva in materia di luogo di adempimento e di distinzione tra obbligazioni portabili o non portabili. Ai sensi dell’art. 1182, comma 3 c.c., infatti, nel caso di obbligazione avente per oggetto una somma di danaro, il debitore deve adempiere nel domicilio del creditore. L’obbligazione viene definita portabile.

In secondo luogo, individuare il luogo dell’adempimento ha importanti conseguenze a livello processuale in tema di individuazione del foro competente per le controversie e  a livello sostanziale circa l’operatività della mora automatica.

Alla luce dei criteri sopra esposti, parte della giurisprudenza e dottrina in passato ha affermato che sono obbligazioni pecuniarie quei debiti di valuta liquidi. Tale affermazione non convince in quanto tra i criteri di classificazione debiti di valuta o di valore o obbligazioni liquide o illiquidità non c’è una necessaria coincidenza. Ci possono essere infatti debiti che pur nascendo come di valuta, sono in realtà illiquidi. Si pensi ad esempio alla provvigione basata una serie di parametri che però non permettono una semplice quantificazione aritmetica.

Tra le obbligazioni pecuniarie, gli interessi rivestono un’importante ruolo sia nel campo applicativo che nel dibattito giurisprudenziale.

Gli interessi sono una obbligazione pecuniaria accessoria a una obbligazione principale avente ad oggetto una somma di denaro.

Circa la fonte, gli interessi si distinguono in interessi legali e convenzionali.

I primi sono gli interessi indicati direttamente dalla legge.

La categoria più ampia di interessi legali è quella dettata dall’art. 1282, comma 1 c.c., ai sensi del quale, i crediti liquidi ed esigibili producono interessi di pieno diritto. Sono esigibili i crediti di cui il creditore è legittimato a chiedere l’immediato pagamento.

Oltre alla macro categoria di cui all’art. 1282 c.c., vi sono anche delle previsioni legislative che prevedono esplicitamente gli interessi. A titolo esemplificativo si veda l’art. 1499 c.c. in tema di vendita, l’art. 1815 c.c. in materia di mutuo.

Gli interessi possono essere pattuiti attraverso una accordo contestuale o successivo tra debitore e creditore.

Circa la funzione svolta, gli interessi vengono distinti in tre categorie: interessi corrispettivi, compensativi e moratori.

Gli interessi corrispettivi rappresentano una specie di corrispettivo per il godimento che il debitore ha del danaro. Ad esempio, maturano interessi corrispettivi nel mutuo, in quanto la somma oggetto di mutuo viene data nella disponibilità del debitore. Vengono considerati come se fossero un “frutto” del danaro.

Gli interessi compensativi sono quelli dovuti al creditore di obbligazioni di valore. Hanno il fine di compensare il danno sofferto dal creditore per il mancato tempestivo adempimento dell’obbligazione pecuniaria. A titolo esemplificativo, sono dovuti interessi compensativi nel caso di ritardo nel pagamento da parte del debitore del risarcimento dovuto a seguito di un incidente stradale.

Terza categoria di interessi sono quelli moratori.  Essi sono dovuti dal debitore in mora al creditore di obbligazioni pecuniarie. Gli interessi moratori assolvono la funzione di risarcire il c.d. maggior danno: il ritardo dell’adempimento della obbligazione causa un ulteriore danno al creditore, in quanto è impossibilitato ad utilizzare, reinvestire tale danaro.

La giurisprudenza si è a lungo interrogata su come quantificare il maggior danno.

In origine, poiché il contesto economico era caratterizzato da un’inflazione elevata, la figura principale di maggior danno era la c.d. svalutazione. Il creditore, dato che non spende la moneta, subisce la sua svalutazione.

Ora, il contesto economico è mutato: il tasso di inflazione è inferiore al tasso di interessi. Il c.d. maggior danno è dalla giurisprudenza individuato nel danno da perdita di remuneratività dell’investimento che il creditore avrebbe compito in maniera vero simile se avesse ricevuto tempestivamente il pagamento.

Sul punto sono intervenute anche le Sezioni Unite. Partendo dall’analisi dell’art. 1282 c.c., hanno individuato una presunzione semplice, secondo la quale, salvo prova contraria, si presume come investimento tipico dei creditori, l’acquisto di titoli di stato di durata annuale. Il maggior danno è uguale alla differenza tra il tasso di rendimento di questi titoli e il tasso di interesse.

Per tasso di interesse si intende l’ammontare degli interessi dovuti. Esso si calcola in misura percentuale rispetto alla somma dell’obbligazione principale, detto capitale, e al tempo rispetto al quale gli interessi sono dovuti.

Il tasso, o anche detto saggio, degli interessi può essere fissato per via legale oppure convenzionale.

Ai sensi dell’art. 1284  comma 1 c.c., il tasso legale è fissato in misura pari al 5 % in ragione d’anno e può essere modificato ogni anno con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze “sulla base del rendimento annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi e tenuto conto del tasso di inflazione registrato nell’anno.”

Il tasso legale si applica agli interessi corrispettivi, compensativi e moratori, salvo che le parti non ne abbiano pattuito il contenuto.

In alcune ipotesi, il legislatore ha fissato il tasso degli interessi moratori a un tasso maggiore rispetto a quello dettato nell’art. 1284 comma 1 c.c.. Lo scopo perseguito è quello di tutelare delle categorie di creditori, come il subfornitore, ritenute meritevoli di tutela.

Il tasso degli interessi può essere pattuito anche per via convenzionale, tramite accordo tra le parti, le quali possono rinviare a anche tassi variabili.

Al fine di tutelare la parte più debole del rapporto, il legislatore ha fissato dei limiti all’autonomia delle parti in materia di interessi convenzionali.

Il primo limite attiene alla forma scritta. L’art. 1284 comma 3 c.c. richiede il requisito di forma nel caso in cui si pattuiscano tassi superiori al tasso legale.

Secondo limite riguarda la misura degli interessi pattuiti, i quali non possono essere usurari.

La legge 108/1996 definisce il tasso usuraio come quello  superiore ai tassi medi praticati da banche e intermediari finanziari, rilevati trimestralmente dal Ministro del Tesoro e quindi amministrativamente.

È altresì usuraio ai sensi dell’art. 644 c.p. il tasso, anche se inferiore rispetto al limite fissato dalla legge, che risulta sproporzionato rispetto alla prestazione di danaro o di altra utilità, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria.

Il superamento della soglia usuraia ha conseguenze sia sul piano civile che su quello penale.

Ai sensi dell’art. 1815 comma 2 c.c., norma in tema di contratto di muto, la clausola che indica interessi usurai è nulla. Il fine perseguito dalla norma è quello di conservare il negozio giuridico posto in essere, attraverso la dichiarazione di nullità della sola clausola. Si pensi ad esempio al soggetto che stipula un contratto di mutuo con la banca. Nel caso in cui la nullità colpisse l’intero contratto di mutuo, non potrebbe nemmeno beneficiare della somma mutuata.

Circa le conseguenze penali, l’art. 644 c.p. prevede la sanzione della reclusione da due a dieci anni e la multa da euro 5.000 a euro 30.000.

Annosa questione che ha interessato dottrina e la giurisprudenza è il caso di un tasso di interesse convenzionalmente stabilito dalle parti che poi nel corso del rapporto diventa usuraio a causa del mutamento del saggio legale. Si tratta del fenomeno della c.d. usura sopravvenuta che è nato con l’introduzione del limite del c.d. tasso soglia da parte della legge 108/1996.

Ci si chiede quale rimedio possa essere applicato agli interessi divenuti usurai.

In passato, si è esclusa l’applicabilità dell’art. 1815, comma 2 c.c. che porta alla nullità della clausola, ritenendo che sono dovuti gli interessi solo nella misura in cui non superano il tasso soglia.

Per giungere a tale conclusione, si sono registrati diversi orientamenti.

Una tesi ritiene che la clausola contenente un interesse divenuto usuraio è affetta da nullità parziale. Si deve perciò applicare il dettato dell’art. 1339 c.c. che prevede la sostituzione automatica delle clausola difformi introdotte dalle parti.

Un’altra tesi pone l’accento sulla nozione di autonomia contrattuale delle parti, la quale incontra il limite del principio solidaristico di cui all’art. 2 Cost. Ogni parte ha l’obbligo di agire seguono la regola della leale cooperazione e della buona fede. Corollario del principio di buona fede è il divieto di abuso di diritto, secondo il quale si deve ritenere ineseguibile la pretesa di chi pretenda un interesse o un vantaggio che la legge ritiene eccessivo. Ne consegue che, secondo l’orientamento in analisi, richiedere il pagamento di interessi divenuti usurai è ineseguibile, e perciò devono essere richiesti gli interessi che non superano il limite di usuraietà.

Un’altra tesi ritiene che la clausola divenuta usuraia è da ritenersi affetta da inefficacia sopravvenuta, in quanto è causata da fatti sopravvenuti che non alterano la struttura del negozio, ma incidono solo sulla funzione dell’atto. Si tratta di un’efficacia sopravvenuta e che non colpisce le prestazioni di interessi corrisposti prima del superamento del tasso soglia.

Sul punto sono intervenute anche le Sezione Unite nel 2017, le quali hanno escluso l’usurarietà sopravvenuta per i motivi che seguono.

La legge 24/2001 di interpretazione autentica delimita all’art. 1 il campo di applicazione degli art. 1815, comma 2 c.c. e dell’art. 644 c.p., definendo come usurari “gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Ne consegue che un interesse si dice usuraio guardando esclusivamente al momento della stipulazione: è irrilevante se nel corso del rapporto il tasso soglia muti diventando usuraio.


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Silvia Zanetta

Nel 2015, dopo la laurea alla Statale di Milano, inizia la pratica forense e il tirocinio ex art. 73 DL 69/2013 presso il Tribunale di Vercelli sia nella sezione Civile che Penale. Dal 2017 collabora con studi legali specializzati in diritto civile.

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