Obblighi di protezione e responsabilità da contatto sociale
L’incipit di una trattazione in merito all’argomento non può prescindere da una considerazione preliminare sulla c.d. “responsabilità contrattuale debole”, così definita perché nascente dall’inadempimento di un c.d. “obbligo di protezione”.
Quest’ultimo ha carattere oggettivo, non economico, ed è una categoria di elaborazione tedesca, riconnessa al principio di buona fede ed alla circostanza che, in ragione di quest’ultimo, possano insorgere degli affidamenti anche rispetto a comportamenti non dovuti ex lege.
La categoria obbligatoria di cui si tratta, riconducibile latu sensu al portato dell’art. 1173 c.c., poiché scaturente da un fatto, si è diffusa in Italia per lo più in riferimento a rapporti di fatto per i quali sussiste l’affidamento di una parte nei confronti di un’altra, il che porta alla tutela di quella c.d. “debole”.
L’unica ipotesi codificata è quella concernente il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore.
V’è un soggetto che riveste un particolare status, il quale gli impone di comportarsi secondo buona fede e di garantire l’affidamento che la parte con cui entra in contatto pone in essere nei suoi confronti a motivo della sua condizione, come avviene ad esempio nel caso del medico e del paziente.
Invero, si esula da ipotesi specificatamente contrattuali, ma a cagione della qualifica di un soggetto, come può essere ritenuto, a titolo esemplificativo, l’insegnante nei confronti dei propri alunni, sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento.
La categoria in esame è stata fatta propria dalla Corte di Cassazione, che nelle sue pronunce ammette la tutela di un soggetto terzo rispetto a quello contrattuale principale, poiché fa affidamento su quest’ultimo.
Indi, si tratta di ipotesi di responsabilità contrattuale insorgenti da una sorta di obbligo di protezione, in forza del quale un soggetto s’affida ad un altro.
Ergo, se da una parte v’è un obbligo protettivo, dall’altra v’è un “credito”, ma non di natura economica, bensì di prestazione e protezione, il che spesso viene considerato un fattore secondario, come testimoniato dal dettato codicistico in materia di lavoro subordinato, stante il quale, ad esempio, il datore di lavoro deve in prima istanza remunerare il lavoratore ed in seconda tutelarlo, ma è comunque obbligato ad entrambe le prestazioni.
La dottrina citata si colloca a confine tra l’ambito della responsabilità contrattuale e quello della responsabilità aquiliana.
Invero, mancando il regolamento contrattuale, prima facie sembrerebbe più corretta una qualificazione nei termini di cui all’art. 2043 c.c. ma, in ragione della teoria tedesca degli obblighi di protezione, l’ago della bilancia penda a favore della natura contrattuale.
In tale ottica, è doveroso menzionare il c.d. “contatto sociale”.
Infatti, la categoria della responsabilità extracontrattuale conosce della c.d. “responsabilità del passante”, poiché il fatto illecito concerne due soggetti che prima di allora non erano mai entrati tra loro in contatto, mentre quella contrattuale presuppone un legame tra le parti.
Il problema delle ipotesi relazionali poco sopra citate, cioè medico-paziente ed insegnante-alunni, è comprendere se la vicenda abbia ad oggetto soggetti tra loro estranei ovvero legati da qualche tipo di legame.
A ben vedere v’è, seppur di fatto, un rapporto tra le parti, come testimoniato dal fatto che, ad esempio, il medico ha degli obblighi derivanti dal codice deontologico, prescindenti dal singolo rapporto contrattuale.
Le riflessioni dottrinario-giurisprudenziali hanno portato anche a qualificare la responsabilità dello Stato nei confronti dei cittadini come contrattuale a cagione della teoria del contatto sociale, poiché così come il medico nei confronti dei pazienti, ovvero l’insegnante nei confronti degli alunni, od ancora la banca in relazione ai propri clienti, nel momento in cui i consociati entrano in contatto con l’istituzione statale, in qualsiasi delle sue specificazioni, si relazionano con un soggetto che riveste un ruolo qualificato, tale da ingenerare obblighi di protezione nei confronti delle c.d. parti deboli che con questo entrano in contatto.
Indipendentemente dalle motivazioni che hanno spinto la Corte di Cassazione ad argomentare in questi termini, ciò che davvero rileva è constatare come si sia addivenuti all’affermazione della responsabilità contrattuale della pubblica amministrazione.
Storicamente, infatti, si è sempre ritenuto che i cittadini fossero latori, nei rapporti con l’amministrazione statale, di meri interessi legittimi, non idonei a garantire tutela risarcitoria ai consociati.
Tale assunto è stato totalmente sovvertito dalla sentenza n. 500 del 1999 delle SS.UU., le quali hanno precipuamente asserito la risarcibilità dell’interesse legittimo, alla stregua dell’art. 2043 c.c. .
Ma la giurisprudenza si è spinta oltre, sancendo la natura contrattuale della responsabilità civile dello Stato.
Invero, l’iter argomentativo seguito muove dalla possibilità di condannare la pubblica amministrazione al risarcimento del danno.
La teoria del contatto sociale ha poi consentito di qualificare la responsabilità statale come contrattuale, nella misura in cui si è asserito che il cittadino il quale attenda un provvedimento della pubblica amministrazione ed il cui interesse venga leso, subisce un danno si da un soggetto estraneo, ma che riveste una qualifica specifica.
In sintesi, la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato aveva ricostruito la responsabilità civile della pubblica amministrazione come contrattuale o precontrattuale, facendo leva, nella quasi totalità delle pronunce, sulla categoria del contatto sociale.
Tale assunto è stato seguito anche dalla Corte di Cassazione nell’ambito delle pronunce sulla responsabilità civile dello Stato, anche se in questo caso v’è una criticità più significativa, ossia la mancanza e di un rapporto tra il cittadino e lo Stato ed anche l’assenza di un procedimento tra essi.
Tornando sul sentiero principale della trattazione, ossia la responsabilità da contatto sociale, una delle pronunce di maggior rilievo fu la n. 589 del 1999 emessa dalla Suprema Corte, concernente il rapporto tra medico e paziente.
Il leit-motiv della decisione contraddice un orientamento ritenuto fino ad allora il più conforme possibile alla realtà materiale, ossia quello che considera la responsabilità del medico dipendente nei confronti del paziente come quella del quisquae de populo, ex art. 2043 c.c. .
In passato, la soluzione maggioritaria era quella del cumulo tra differenti forme di responsabilità, e quella del medico era connotata come extracontrattuale visto che rispondeva solo per il generico principio del neminem laedere.
La pronuncia in esame critica tale assunto poichè, se si ritenesse la responsabilità del medico come aquiliana, il paziente non potrebbe lamentare il cattivo esito della cura, ma soltanto il peggioramento del suo stato di salute.
Pertanto, la Corte di Cassazione scelse di ricondurre al portato degli artt. 1218 e ss. c.c. la responsabilità derivante dall’attività medica, che implica una crasi tra i principi astrattamente considerati ed il loro riverbero concreto.
Una teoria minoritaria, poi, connotava la responsabilità medica come professionale, correlata perciò all’esercizio di una professione protetta che non consente di discernere tra quella di cui all’art. 2043 c.c. e quella contrattuale.
La sentenza n. 589 del 1999 contrasta anche questa considerazione, poiché carente sul fondamento della responsabilità medica, tenuto conto che il riferimento alla mancanza di diligenza in entrambi i casi non è sufficiente, dovendosi palesare di quale violazione in concreto si sia trattato.
In tale ottica, la pronuncia in esame ha rivalutato la c.d. teoria del cumulo tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, asserendo la sussistenza di uno zoccolo duro di regole, deontologiche e tecniche, comuni per tutte le prestazioni a carattere professionale.
In tal modo, si accorcia il divario con la realtà materiale, idonea ad indagare quale sia il tipo di responsabilità in cui incorre il medico dipendente che entra in contatto diretto con il paziente, che ha invece un rapporto con la struttura ospedaliera, e sul quale si indirizza l’attività diagnostica.
Pertanto, risulta utile fare riferimento alla categoria delle obbligazioni senza prestazione, atte a colmare la lacuna tra la tesi del contratto e quella del torto subito.
Il fulcro motivazionale è però la fonte del rapporto tra medico e paziente, riconducibile a tutte quelle condizioni di fatto ascritte nel novero della categoria del c.d. “contatto sociale”.
Il rapporto in esame, indi, non è riconducibile ad un contratto, ma richiama la regolamentazione da essi desumibile, essendo un c.d. “contratto di fatto”.
Indi, v’è la riconduzione alla clausola generale di cui all’art. 1173 c.c., tra gli atti ed i fatti idonei a produrre un’obbligazione.
L’assunzione spontanea dell’intervento del medico nei confronti del paziente integra l’elemento fattuale idoneo ad essere ricondotto nell’ambito del sopra menzionato zoccolo duro di regole, il quale fa si che non si possa compiutamente parlare di responsabilità del passante ai sensi dell’art. 2043 c.c. .
A questo punto, è bene precisare il distinguo tra le obbligazioni di prestazione e quelle di protezione sotto vari profili.
Invero, nell’ottica delle fonti, la dicotomia contratto-torto ha una rilevanza esplicativa poco estesa, sicché già l’art. 1173 c.c. tende ad allargarla creando un sistema aperto di fonti obbligatorie, tale da creare un tertium genus, rappresentato dai c.d. contratti di fatto, derivanti dall’affidamento di un soggetto sulla condizione di un altro.
Inoltre, sotto il profilo degli interessi tutelati, non ci si limita più ai canonici interessi di dare, facere ed oportere, garantendosi tutela anche ad interessi non citati nei contratti, c.d. “di protezione”.
La dottrina tedesca si è profusa in uno sforzo definitorio, grazie al quale li si è qualificati come rapporti obbligatori senza obbligo primario di prestazione, ma tutelati alla stessa stregua di quest’ultimi.
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