Occupazione appropriativa: l’art. 42-bis del d.P.R. 327/2001 alla luce dell’Adunanza Plenaria n. 5/2020

Occupazione appropriativa: l’art. 42-bis del d.P.R. 327/2001 alla luce dell’Adunanza Plenaria n. 5/2020

L’art. 42-bis del DPR 327/2001 (T.U. in materia di espropriazioni per pubblica utilità) ha ad oggetto la disciplina dell’utilizzazione senza titolo, da parte della Pubblica Amministrazione, di un bene immobile (di proprietà altrui) per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità.

La richiamata norma è stata introdotta solo nel 2011 con la Legge n. 111 attraverso la quale il Legislatore, preso atto della Sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010 di declaratoria di incostituzionalità per vizio di delega del vecchio art. 43 del TU sulle espropriazioni, ha provveduto ad adottare una nuova disciplina che prevede un meccanismo di acquisto della proprietà di un bene immobile, illegittimamente espropriato, da parte della Pubblica Amministrazione.

Con l’art. 42-bis, dunque, il Legislatore ha provveduto a colmare una lacuna normativa che si era venuta a creare con l’abrogazione dell’art. 43 dichiarato incostituzionale.

L’art. 43 del T.U. sulle espropriazioni, invero, aveva introdotto nel nostro ordinamento una disciplina volta a risolvere quei problemi, dogmatici ed applicativi, ingenerati dal moltiplicarsi di fattispecie prima non disciplinate dalla legge, c. d. “occupazioni appropriative”, attraverso cui l’Amministrazione acquistava in sanatoria la proprietà dell’immobile illegittimamente espropriato ed irreversibilmente modificato dalla sua utilizzazione.

Le fattispecie di “occupazione appropriativa”, infatti, sono state originariamente elaborate dalla giurisprudenza per rispondere alla necessità di regolamentare le conseguenze derivanti da un modus operandi invalso nella prassi amministrativa, in base al quale la P.A. occupava un’area di proprietà altrui e procedeva alla sua trasformazione radicale ai fini della realizzazione di un’opera pubblica, senza emanare mai il rituale provvedimento espropriativo. Questo perché o l’occupazione è sin dall’inizio sine titulo per assenza di dichiarazione di pubblica utilità, o perché, pur sussistendo un titolo iniziale di legittimazione, opera la trasformazione irreversibile dopo lo spirare del termine finale dell’occupazione illegittima (1).

Inizialmente la giurisprudenza – accogliendo l’interpretazione fornita dalla Sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 1464/1983 – aveva previsto che al sussistere della fattispecie dell’occupazione appropriativa, posta l’inammissibilità della compresenza di due distinti diritti di proprietà su uno stesso bene (quello del privato espropriato e quello dall’amministrazione espropriante), dovesse ritenersi estinto il diritto domenicale del privato, con la contestuale acquisizione a titolo originario della proprietà del bene immobile occupato in capo alla P.A. (per mezzo dell’istituto civilistico dell’accessione c.d. invertita), e l’insorgere del diritto al risarcimento del danno in favore del proprietario illecitamente privato del suo diritto di proprietà.

Nonostante l’opera creativa della giurisprudenza in materia, tuttavia, molti erano i profili di criticità dell’istituto dell’occupazione appropriativa, primo tra tutti il contrasto con il principio di legalità, in quanto questo istituto non veniva disciplinato da alcuna norma di legge.

A livello sovranazionale, invece, problemi di ammissibilità sono emersi in riferimento alla sua compatibilità con la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo: l’occupazione appropriativa infatti implicava la lesione del diritto di proprietà privata che, a livello comunitario, assurge a diritto fondamentale.

Sulla base di tali premesse, dunque, il fenomeno dell’ablazione illegittima venne disciplinato per la prima volta nella disposizione dell’art. 43 del DPR 327/2001, con cui è stato introdotto l’istituto dell’acquisizione sanante.

Nonostante il citato art. 43 fosse stato introdotto principalmente per rispondere all’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, l’espressa previsione di uno strumento di legittima acquisizione del bene privato in mano pubblica non aveva posto fine alle perplessità dei giudici di Strasburgo, che qualificavano l’istituto, introdotto dalla stessa norma, una tipologia di espropriazione indiretta (2).

Le critiche sollevate sull’art. 43 vennero, poi, portate all’attenzione della Corte Costituzionale che, tuttavia, evitando di addentrarsi nel merito e di risolvere l’annoso problema interpretativo, si limitò a dichiarare la citata norma incostituzionale per eccesso di delega ex art. 76 Cost.

Il vuoto normativo in materia è oggi colmato dall’art. 42-bis del DPR 327/2001 rubricato “Utilizzazione senza titolo di bene per scopi di interesse pubblico” attraverso cui il legislatore ha accomunato tutte le ipotesi di occupazione illegittima del fondo, ricomprendendo nel suo ambito di applicazione i due vecchi istituti dell’occupazione usurpativa – ipotesi in cui manca del tutto l’atto espropriativo preordinato alla stessa – e quella acquisitiva – ipotesi in cui sono annullati l’atto da cui è sorto il vincolo preordinato all’esproprio o l’atto che ha dichiarato la pubblica utilità di un’opera (ovvero il decreto di esproprio).

Chiara è, dunque, l’importanza della disciplina riformulata dal Legislatore nell’art. 42-bis del TU sulle espropriazioni: essa reintroduce la possibilità, per l’Amministrazione, che utilizza senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di evitarne la restituzione al proprietario attraverso un atto di acquisizione coattiva al proprio patrimonio indisponibile.

Tale atto costituisce l’epilogo di un procedimento espropriativo che è stato definito dalla giurisprudenza “semplificato” – che si aggiunge al regolare procedimento ablativo prefigurato dal testo unico in materia – il quale infatti assorbe in sé sia la dichiarazione di pubblica utilità, sia il decreto di esproprio, sintetizzando uno actu lo svolgimento dell’intero procedimento, in presenza dei presupposti indicati dalla norma.

L’adozione di questo atto acquisitivo è consentita, però, solo ove essa costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di “attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico” ai sensi dello stesso art. 42-bis del DPR 327/2001.

L’ampiezza della discrezionalità riconosciuta all’Amministrazione nell’adottare il provvedimento acquisitivo ex art. 42-bis va, altresì, delimitata alla luce dell’obbligo giuridico di far venire meno un’occupazione senza titolo e di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, effettuando preventivamente una valutazione comparata degli interessi in gioco (3).

Alla luce delle premesse fatte sulla disciplina della c.d. “acquisizione sanante”, occorre a questo punto concentrare l’attenzione sui presupposti e sulle condizioni di applicabilità del rimedio dell’art. 42-bis.

A tale fine è utile analizzare il dato normativo.

Ai sensi del primo comma della citata norma, si evince che i presupposti fondanti il potere di acquisizione sono due: 1. l’avvenuta modifica del bene immobile; 2. la sua utilizzazione per scopi di interesse pubblico.

Il provvedimento di acquisizione può essere però adottato, ai sensi del comma 2 dello stesso articolo, “anche” quando siano stati annullati l’atto di vincolo preordinato all’esproprio, l’atto di dichiarazione della pubblica utilità dell’opera ovvero il decreto di espropriazione.

Con questo secondo comma, quindi, il Legislatore ha voluto espressamente escludere l’applicabilità dell’istituto ai soli casi di illegittimo esercizio in concreto del potere dell’Amministrazione.

Lecito, dunque, chiedersi quali siano i confini applicativi della disciplina di cui all’art. 42-bis D.P.R. 327/2001 e se siano o meno rilevanti le circostanze che conducono l’Amministrazione alla occupazione sine titulo e la riconducibilità di tali circostanze a vicende di natura privatistica o pubblicistica.

Sul punto un primo intervento chiarificatore è stato fornito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la Sentenza n. 2/2016, che ha precisato la natura dell’istituto e l’ambito della sua applicazione, affermando che l’art. 42 bis “introduce una norma di natura eccezionale” e che l’acquisizione ivi prevista “costituisce una delle possibili cause legali di estinzione di un fatto illecito”.

Secondo l’interpretazione fornita dalla Plenaria, infatti, tale articolo “configura un procedimento ablatorio sui generis, caratterizzato da una precisa base legale, semplificato nella struttura (uno actu perficitur), complesso negli effetti (che si producono sempre e comunque ex nunc), il cui scopo non è quello di sanatoria di un precedente illecito perpetrato dall’Amministrazione (perché altrimenti integrerebbe una espropriazione indiretta per ciò solo vietata), bensì quello autonomo, rispetto alle ragioni che hanno ispirato la pregressa occupazione contra ius, consistente nella soddisfazione di imperiose esigenze pubbliche, redimibili esclusivamente attraverso il mantenimento e la gestione di qualsiasi opera dell’infrastruttura realizzata sine titulo”(4).

La natura di “norma di chiusura”, propria dell’art. 42-bis – desumibile anche dai principi espressi nella richiamata pronuncia dell’Adunanza Plenaria – rende evidente la finalità di ricondurre nell’alveo legale del sistema tutte le situazioni in cui l’Amministrazione, quale che ne sia la causa, si trovi ad avere utilizzato la proprietà privata per ragioni di pubblico interesse, ma in difetto di un valido titolo legittimante.

Sulla scorta di tali argomentazioni la Sentenza dell’Adunanza Plenaria del 2016 ha fornito risposta al contrasto giurisprudenziale esistente sulla questione inerente la possibilità per l’Amministrazione di esercitare il suo potere emettendo un provvedimento di acquisizione sanante anche dopo che si sia formato un giudicato restitutorio nei confronti della stessa, giungendo a sostenere che “l’Amministrazione non può emanare il provvedimento di acquisizione in presenza di un giudicato che abbia disposto la restituzione del bene al proprietario; tale elemento – valorizzato dalla citata sentenza della Corte Costituzionale n. 71 del 2015, in coerenza coi principi elaborati dalla Corte di Strasburgo – si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell’art. 42-bis, nella parte in cui consente all’autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l’annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza)”.

Così interpretando il Consiglio di Stato ha limitato i casi in cui l’Amministrazione possa fare ricorso all’istituto di cui all’art. 42-bis TU, inapplicabile in presenza di una sentenza che disponga la restituzione del bene all’Amministrazione che lo abbia utilizzato sine titulo fino a quel momento.

Cercando di definire ancor più precisamente i confini dell’ambito ampio di applicabilità dell’art. 42-bis la giurisprudenza ha cercato, altresì, di chiarire se tale disciplina possa applicarsi solo quando la P.A. agisca nella sua veste di autorità, sia pure senza un valido titolo (ab origine o per sopravvenuta scadenza o annullamento degli atti del procedimento espropriativo) e non anche nelle ipotesi in cui il rapporto fra il privato e l’amministrazione nasca e si sviluppi sul versante privatistico.

Ebbene l’argomento appena richiamato è stato oggetto di rimessione all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

La Sez. IV del Consiglio di Stato, in particolare, con Ord. 15 luglio 2019, n. 4950 ha rimesso alla Plenaria la questione inerente la “compatibilità” del decreto di acquisizione ex art. 42- bis, d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 con un giudicato restitutorio – in specie formatosi su sentenza del giudice civile dichiarativa della nullità di un contratto di compravendita – considerando tale disposizione applicabile “ad ogni caso in cui – per qualsiasi ragione – un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico”, ovvero se la sua applicazione sia limitata “solo a vicende in cui la P.A. agisca nella sua veste di autorità” senza un valido titolo espropriativo (5).

L’Adunanza Plenaria, con la Sentenza n. 5/2020, ha risolto la richiamata questione in senso positivo affermando che la possibilità di consentire l’applicazione dell’art. 42 bis (e, quindi, del decreto di acquisizione) in tutte le ipotesi in cui – come sostenuto dall’Ordinanza di rimessione – “per qualsiasi ragione un bene immobile altrui sia utilizzato dall’Amministrazione per scopi di interesse pubblico”, oltre a non essere impedita dal dato letterale della disposizione, risulta coerente anche con un inquadramento logico-sistematico della disposizione medesima, nell’ambito di una più generale riflessione sull’attività amministrativa e sugli strumenti ad essa inerenti (6).

A fronte del testo dell’art. 42 bis, che richiede che l’utilizzazione sine titulo del bene deve essere comunque intervenuta “per scopi di interesse pubblico”, la Plenaria ha infatti ricordato che l’attività della P.A. risulta costantemente funzionalizzata alla cura, tutela, perseguimento dell’interesse pubblico, sia che a tali fini vengano esercitati poteri pubblicistici ad essa conferiti sia che vengano utilizzati strumenti propri del diritto privato, in un contesto generale già delineato attraverso l’esercizio di potestà pubbliche.

E ciò può rinvenirsi anche dal disposto dell’art. 1, l. 7 agosto 1990 n. 241, che, nell’enunciare i “principi generali dell’attività amministrativa”, prevede che la stessa si effettui sia mediante l’esercizio di poteri autoritativi, sia ricorrendo ad istituti di diritto privato (“salvo che la legge non disponga diversamente”).

L’azione amministrativa, che si concretizza nell’emanazione di provvedimenti amministrativi, ovvero quella che si svolge, in forma paritetica, attraverso la sottoscrizione di accordi con i soggetti privati (ex art. 11, l. n. 241 del 1990), così come la stessa azione che utilizza direttamente strumenti disciplinati dal diritto privato (in specie, contratti), partecipa dell’unica ragione di interesse pubblico, che la sorregge e giustifica, rappresentandone la causa in senso giuridico.

Proprio tale più generale immanenza dell’interesse pubblico, anche in ipotesi ulteriori rispetto a quella di natura provvedimentale, ha già fatto più volte affermare alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2017 n. 2256, 19 agosto 2016 n. 3653, 3 dicembre 2015 n. 5510; sez. V, 5 dicembre 2013 n. 5786; sez. V, 14 ottobre 2013 n. 5000), la irriducibilità degli accordi di cui all’art. 11 della l. n. 241/1990 a meri “strumenti di matrice civilistica”.

In definitiva, nei casi in cui la P.A. – dopo avere individuato per il tramite di un generale e preventivo atto di esercizio di potestà, anche in ossequio al principio di legalità, la finalità di pubblico interesse – decida di perseguire quest’ultima non già attraverso procedimenti amministrativi tipici ed esercizio di poteri provvedimentali, bensì ricorrendo a ordinari modelli privatistici (nei limiti consentiti dall’ordinamento), la predetta finalità di interesse pubblico resta immanente al contratto ed al rapporto così posto in essere.

Ciò comporta, di conseguenza, che, laddove la finalità di pubblico interesse non risulta (o non risulta più) essere perseguita (o perseguibile) per il tramite del contratto, non può escludersi, in generale, che l’Amministrazione possa intervenire sul rapporto insorto (ovvero sulle conseguenze di fatto di un rapporto comunque cessato) per il tramite dell’esercizio di poteri pubblicistici.

Ebbene fornendo una risposta positiva alla prima e principale questione di diritto, avanzata dalla Sezione rimettente, la Plenaria ha avuto modo di affrontare e risolvere anche la seconda questione, così riassumibile: se il giudicato civile, sull’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, precluda o meno a quest’ultima l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù di passaggio, col mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.

Sul punto l’Adunanza Plenaria ha chiarito che, perché possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che la sentenza preveda espressamente, in accoglimento di una specifica domanda avanzata in tal senso dal ricorrente o dall’attore, la condanna dell’Amministrazione alla restituzione del bene.

Per altro verso l’effetto preclusivo, in quanto derivante, da una espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42 bis, comma 2, comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi, inibire anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6 dello stesso articolo.

Quanto a questo secondo aspetto, la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato).

Appare, dunque, evidente come, se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell’ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, vi imponga ex novo (e, quindi, ex nunc) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato.

In conclusione, da quanto sinora esposto, si può ritenere che sussiste una differenza fondamentale tra la norma contenuta nel vecchio art. 43 e quella contenuta nell’introdotto art. 42-bis del D.P.R. 327/2001. Quest’ultima nuova disposizione ha, infatti, evitato di riprodurre il vulnus arrecato dal superato art. 43 T.U., ovvero quello di accordare alla P.A. la possibilità di acquisire il bene a propria discrezione con il solo pagamento di una somma pecuniaria, avendo introdotto, a carico dell’’Amministrazione procedente, la regola che impone una valutazione rafforzata e motivata delle situazioni alla base della decisione, e che evita che l’istituto in esame divenga di uso routinario.

Nonostante ciò l’istituto dell’acquisizione sanante, per come disciplinato all’art. 42-bis del DPR 327/2001, ha un ambito di applicazione ancora molto “ampio” che viene ad essere ridimensionato dalla giurisprudenza che ne indica, caso per caso, i limiti applicativi, per evitare l’eccessiva compressione dei diritti di proprietà dei privati in favore dell’interesse pubblico, con cui gli stessi vengono bilanciati, al fine di giustificare l’occupazione sine titulo perpetrata dalla P.A. espropriante.

 

 


1. F. CARINGELLA, Manuale di Diritto Amministrativo, XI edizione, pag. 979;
2. Sul punto si vedano le Sentenze CEDU n. 36813/1597 del 29.3.2006 “Scordino c/ Italia”; sentenza CEDU, Sez. III, n. 68610/2001 del 19.10.2006 “Gautieri e altri c/ Italia;
3. Cfr Sentenza della Corte Costituzionale n. 71 del 30.04.2015;
4. Cfr Adunanza plenaria Consiglio di Stato n. 2/2016.
5. Cfr Sentenza della Sez. IV del Consiglio di Stato, in particolare, con Ord. 15 luglio 2019, n. 4950;
6. Cfr Adunanza plenaria Consiglio di Stato n. 5/2020.

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