Offensività della condotta nella domanda infedele di reddito di cittadinanza
L’articolo 7 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito in legge 28 marzo 2019, n. 26 (l’atto normativo che ha istituito il reddito di cittadinanza) prevede due norme incriminatrici: al comma 1 viene sanzionata con la reclusione da due a sei anni la condotta di “chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falso o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute”; al comma 2 viene sanzionata con la reclusione da uno a tre anni “l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’articolo 3 commi 8, ultimo periodo, 9 e 11”.
Fin dall’introduzione di queste nuove disposizioni venne rilevato da parte di alcuni interpreti come queste disposizioni fossero eccezionalmente severe, figlie del “cattivismo” legato ad una malintesa esigenza di “governo penale dei poveri”: “si arriva a minacciare una sanzione fino a sei anni di reclusione salvo aggravanti per una prestazione non dovuta che mediamente arriva secondo le stime dell’Inps a € 4000 all’anno, e fino a tre anni, salvo aggravanti, per un ritardo nella comunicazione di una variazione reddituale che può comportare un indebito anche soltanto di € 40” (Roberto Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, in Questione Giustizia, 6 giugno 2019).
Nei due anni di esistenza del reddito di cittadinanza, la giurisprudenza di legittimità è inevitabilmente arrivata a confrontarsi con le tematiche penalistiche legate ad una misura che ad ottobre 2021 coinvolgeva 3.843.354 persone ed 1.713.101 nuclei familiari. A fronte di questi numeri importanti, i nuclei familiari per i quali è intervenuta una revoca sono stati solo 95.793 nell’anno 2021, la maggior parte per assenza dei requisiti di residenza o di cittadinanza (dati Osservatorio Statistico INPS novembre 2021).
Nello specifico, si sono susseguite molte sentenze che hanno definito ricorsi per cassazione aventi ad oggetto provvedimenti di sequestro preventivo delle carte di debito “Postamat RDC”: Cass. pen., sez. III, 5289/2020; sez. III, 5290/2020; sez. II, n. 2402/2021; sez. III, n. 33431/2021; sez. III, n. 44366/2021.
In questi casi, i provvedimenti di sequestro preventivo sono stati motivati da varie dichiarazioni omissive in sede di domanda di Reddito di cittadinanza o di DSU ai fini ISEE (atto presupposto all’erogazione del beneficio economico). Si registrano: omessa dichiarazione dello svolgimento di un rapporto di lavoro (Cass. pen., sez. III, 5289/2020; sez. III, 5290/2020); dichiarazione di una consistenza immobiliare diversa da quella reale nella DSU ai fini ISEE (Cass. pen., sez. II, n. 2402/2021); omessa indicazione nella domanda di reddito di cittadinanza della circostanza che un membro del nucleo familiare era detenuto al momento della presentazione della stessa (Cass. pen., sez. III, n. 44366/2021).
I beneficiari di Reddito di cittadinanza sono infatti onerati di una lunga serie di dichiarazioni e comunicazioni, previste dall’articolo 3, commi 8 e seguenti della citata legge istitutiva della misura, da rendere entro termini perentori: l’omissione, l’infedeltà o la tardività di una di queste dichiarazioni pongono problemi sia di natura amministrativa (decadenza dal beneficio) che penale (sanzioni di cui agli articoli 7, commi 1 e 2, d.l. 4/2019 conv. in l. 26/2019). La ratio di questi obblighi, per la giurisprudenza, risiede nel patto di leale cooperazione che intercorrerebbe tra il cittadino e l’Amministrazione: il cittadino non può valutare quali elementi dichiarare e quali omettere, ma deve dichiararli tutti (anche quelli percepiti in nero!), lasciando all’Amministrazione stessa l’onere di determinare l’esatto ammontare e di computarlo ai fini del superamento delle soglie di accesso al beneficio (Cass. pen., n. 5289/2020, par. 3).
Tutti i precedenti fanno leva sull’analogia tra il meccanismo sanzionatorio in oggetto e quello previsto dall’art. 95 DPR 112/2002 in materia di ammissione al patrocinio giudiziario a spese dello Stato dei soggetti non abbienti (c.d. gratuito patrocinio).
La più recente delle sentenze citate, Cass. pen., sez. III, n. 44366/2021, pubblicata il 01/12/2021, sembra tuttavia aprire una nuova prospettiva, accogliendo alcuni rilievi già svolti da alcuni interpreti, nel solco della pronuncia delle Sezioni Unite penali n. 14723/2020 in materia di gratuito patrocinio.
Quest’ultima pronuncia ha affermato il seguente principio di diritto: “la falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dall’art. 79, comma 1, lett. c) d.P.R. n. 115 del 2002, qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, non comporta la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dagli artt. 95 e 112 d.P.R, n. 115 del 2002”.
In altre parole, questo orientamento tiene ben presente la necessità di distinguere le condotte in base ai diversi gradi di offensività, per evitare l’applicazione di sanzioni di rilevante gravità anche in conseguenza della violazione di un obbligo privo di concreta offensività rispetto al bene giuridico tutelato.
Senza contare, inoltre, che l’assimilazione tra la disciplina penale delle omesse o false dichiarazioni in materia di domanda di reddito di cittadinanza e quella prevista in materia di gratuito patrocinio non tiene conto delle differenze strutturali tra i due istituti [Rosalia Affinito, Marco Maria Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, in Sistema Penale, 9 (2021), p. 12].
Sulla base di queste considerazioni, in Cass. pen. n. 44366/2021, i giudici di legittimità hanno ritenuto che “appare, pertanto, più in linea con i principi di ordine costituzionale in tema di necessaria offensività del reato il ritenere che con la espressione “al fine di ottenere indebitamente il beneficio…” il legislatore abbia inteso tipizzare in termini di concretezza il pericolo che potrebbe derivare dalla falsità ovvero dalla omissività delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del “reddito di cittadinanza”, nel senso che la loro rilevanza penale sarà sussistente nei soli casi in cui intenzione dell’agente era il conseguire, attraverso di esse, un beneficio diversamente non dovuto”.
Ciò nonostante, nella sentenza in commento, il ricorso della beneficiaria viene rigettato, in quanto alla luce delle informazioni rese dalla Guardia di Finanza, e non contestate dalla stessa ricorrente, la beneficiaria stessa non si sarebbe trovata nelle condizioni reddituali per accedere al beneficio economico se avesse dichiarato la condizione di detenzione del membro familiare, in quanto ciò avrebbe portato ad una diversa base di calcolo del suo status economico. In questo caso, dunque, la condotta contestata si è rivelata offensiva in concreto.
Un simile approccio può costituire un tentativo di compromesso tra l’esigenza di garantire effettività al patto di leale cooperazione tra il cittadino beneficiario della misura e l’Amministrazione, ed il rispetto del principio di offensività, evitando eccessi “cattivistici” della repressione penale a danno di soggetti molto spesso comunque svantaggiati.
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