Omessa comunicazione dello stato di gravidanza, responsabilità civile della madre nei confronti del padre naturale
Sommario: 1. Lesione del diritto al riconoscimento del figlio naturale – 2. Diritto all’identità genitoriale – 3. Accertamento della paternità: ammissibilità delle prove atipiche nel processo civile – 4. Linee guida in materia di trattamento dei dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero
Il dispositivo che chiude la sentenza n. 8459 del 5 maggio 2020 è l’epilogo di una pronuncia della Corte di Cassazione che costituisce una fonte ricca di principi trasversali e multidisciplinari. Ma procediamo per gradi.
1. Lesione del diritto al riconoscimento del figlio naturale
In primo luogo, rileva il seguente interrogativo: una donna in stato di gravidanza ha la facoltà di tacere la propria condizione e l’avvenuto concepimento al padre naturale del bambino?
Quella che potrebbe sembrare una questione esclusivamente morale, rileva, in realtà, anche sul piano legale ed è giunta all’attenzione della Corte di Cassazione.
Il caso appare peculiare e la sentenza in parola consente di inquadrare tale fattispecie nello schema della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.
L’omessa comunicazione dell’avvenuto concepimento e l’occultamento dell’esistenza di un figlio, nel caso di specie, non si inscrive nell’alveo in cui vengono in rilievo i doveri tra coniugi, individuati dall’art. 143, co. 2, c.c., o tra conviventi more uxorio, nè tanto meno nell’ambito degli obblighi di cui agli artt. 147 c.c., 316 e 316 bis c.c.
Dalla ricostruzione della vicenda in esame, è emerso che tra i due soggetti coinvolti vi fu un unico incontro, al quale non è seguita nessuna relazione di tipo sentimentale ma, come se fosse poca cosa, esclusivamente la nascita di un figlio.
Nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, l’omissione informativa della donna circa il proprio stato interessante non si traduce nella violazione di obblighi derivanti da un rapporto giuridico precostituito tra le parti, né nella lesione del prevalente interesse del minore alla bigenitorialità[1] (Cass. civ. sez. I n. 9764 del 08/04/2019).
L’attenzione è rivolta esclusivamente al danno subito dal genitore che non ha avuto notizia della paternità.
Sul punto, la Corte di Cassazione osserva che, in un primo momento, la condotta omissiva della donna potrebbe qualificarsi illecita, perché lesiva del diritto all’autodeterminazione del padre naturale, di fatto privato della possibilità di riconoscere il nato ex artt. 250 e 254 c.c e, conseguentemente, di assolvere ai doveri e godere dei diritti derivanti del rapporto genitoriale.
Tali argomentazioni muovono dal presupposto che l’atto di riconoscimento consista nell’ estrinsecazione dell’esercizio dell’autonomia privata, ossia di una scelta discrezionale rimessa alla libertà individuale del soggetto che la pone in essere.
Tuttavia, esaminando attentamente la questione, la Suprema Corte chiarisce che la disciplina della filiazione, alla stregua degli artt. 2 e 30 Cost., ha individuato nella nascita il momento che determina l’insorgenza dei doveri genitoriali – e dei corrispondenti diritti del minore – ricollegati non all’effetto giuridico della istituzione della relazione parentale (sia essa presunta ex art. 231 c.c., accertata ex art. 236, co. 2, c.c., artt. 237,241 c.c., o dichiarata per atto volontario ex art. 250 e 254 c.c. o per sentenza ex artt. 269 e 277 c.c.) bensì al mero fatto-giuridico della procreazione (ex multis, Cass. civ. sez. III n. 14382 del 27/05/2019).
Ne consegue che, il diritto del genitore naturale a riconoscere lo status di figlio in capo al nato, non è una situazione giuridica di diritto soggettivo assoluto e personalissimo; esso è invece la manifestazione formale e concreta di una preesistente situazione giuridica data dal concepimento, dalla quale deriva il diritto-dovere di riconoscimento del figlio naturale, che si atteggia come una condotta funzionale alla protezione del superiore interesse del minore.
L’art. 250 c.c., invero, devolve alla cognizione del giudice la valutazione dell’interesse primario del figlio al riconoscimento, di guisa che il giudice è chiamato, non solo a ratificare un fatto naturale (quale è la procreazione), ma anche a valutare l’interesse del figlio ad avere quel soggetto come padre. L’esame della rispondenza del riconoscimento all’interesse del minore passa attraverso il necessario bilanciamento tra diritti tutti costituzionalmente garantiti: il diritto alla paternità e il diritto del minore ad avere un padre, sia in relazione alla propria identità personale, sia in relazione al fondamentale apporto nella sua crescita psicofisica della presenza di entrambi i genitori. In particolare se, da un lato, il genitore ha diritto a riconoscere il figlio, dall’altro lato, tale diritto non è assoluto, ma è controbilanciato dal diritto del minore a non vedere compromesso il proprio sviluppo psico-fisico e anzi è quest’ultimo che, in caso di contrasto, deve prevalere (Cassazione civile sez. I, 14/02/2019, n. 4526; Cassazione civile sez. I, 28/02/2018, n.4763).
In tale prospettiva, l’omesso riconoscimento del nato, conseguente all’ occultamento dell’avvenuto concepimento, determina una violazione dell’interesse del minore, idonea a dar luogo ad un illecito civile, capace di generare conseguenze patrimoniali e non patrimoniali, azionabili in via risarcitoria dal figlio o dal suo rappresentante durante la minore età (cfr. Cass. civ. sez. I n. 5652 del 10/04/2012; Cass. civ. sez. VI-III n. 3079 del 16/02/2015).
In altri termini, la condotta della madre cha ha celato al padre naturale la nascita del loro bambino, non lede il diritto soggettivo del padre a porre in essere l’atto di riconoscimento; essa, al contrario, dà luogo ad un illecito civile che lede il diritto all’identità personale del minore, rispetto al quale l’atto di riconoscimento si pone quale esercizio di un diritto ancillare. Ne consegue che – sotto il profilo del mancato riconoscimento – la responsabilità risarcitoria che si configura in capo alla madre è azionabile da parte del figlio e non da parte del padre naturale, al quale la gravidanza era stata nascosta.
La situazione giuridica da riconoscere in capo a quest’ultimo merita, invece, un discorso diverso.
2. Lesione dell’identità genitoriale
Il genitore al quale sia stata taciuta l’esistenza di un figlio, subisce una lesione del diritto alla identità personale, ancorato agli artt. art. 2 e 30, co. 4, Cost., in quanto l’esplicazione della personalità dell’essere umano nelle formazioni sociali in cui opera, si esprime anche attraverso la filiazione, sia sotto il profilo della trasmissione del proprio patrimonio genetico, sia sotto l’aspetto relazionale, inteso come scelta volontariamente assunta dal genitore di dedicare il proprio tempo ed impegno all’assistenza, alla crescita ed alla realizzazione delle aspirazioni del minore, oltre che ad instaurare un rapporto conoscitivo ed affettivo con la persona generata.
Orbene, è proprio in relazione a tale situazione giuridica, che la Cass. civ., sez. III, 5 maggio 2020, n. 8459 ha chiarito che «l’omessa informazione dell’avvenuto concepimento, da parte della donna, consapevole della paternità, pure in assenza di una specifica prescrizione normativa impositiva di tale obbligo di condotta, può tradursi in una condotta non iure – ove non risulti giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro – in quanto in astratto suscettibile di determinare un pregiudizio all’interesse del padre naturale ad affermare la propria identità genitoriale, qualificabile come danno ingiusto e che viene ad integrare, nel ricorso dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa, la fattispecie della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.».
Dunque, la situazione giuridica risarcibile, facente capo al padre naturale, è quella relativa non già al diritto al riconoscimento, bensì all’identità genitoriale, intesa quale verità inerente al rapporto di filiazione ed alla acquisizione formale del relativo status. Nondimeno, accanto al principio del favor veritatis, opera sempre quello del favor minoris ( cfr. Cassazione civile sez. I, 15/02/2017, n.4020).
Ciò posto, la sentenza in commento è particolarmente interessante perché offre importati spunti di riflessione anche in materia di tutela della privacy dei dati e prova atipica nel processo civile.
3. Accertamento della paternità: ammissibilità delle prove atipiche nel processo civile
Nel caso di specie, era accaduto che il CTU, durante le operazioni peritali, avesse avuto accesso a campioni biologici del padre naturale, custoditi dall’Azienda ospedaliera, presso la quale il medesimo era stato ricoverato.
A dire del ricorrente, i campioni biologici avrebbero dovuto essere distrutti ed, in ogni caso, non ceduti al consulente del giudice.
Conseguentemente, i dati personali posti a fondamento delle risultanze della CTU, non avrebbero potuto essere utilizzate nel processo civile, in quanto illecitamente ceduti dalle strutture ospedaliere, in violazione dell’art. 191 c.p.p. che vieta espressamente l’utilizzazione delle prove illegittimamente acquisite.
Sul punto, la Corte ha osservato che la categoria della inutilizzabilità della prova di cui all’art. 191 c.p.p., non è contemplata nell’ordinamento processuale civile, in ragione delle diversità delle tutele che presidiano il processo penale rispetto a quello civile, nel quale il Giudice non incontra il limite della “tipicità” del mezzo probatorio (ex multis, Cassazione civile sez. I, 10/10/2018, n. 25067; Cassazione civile sez. II, 20/01/2017, n.1593). Difatti, nel giudizio civile, le prove atipiche sono comunque utilizzabili, salvo che le stesse non si traducano ex se nella lesione di un diritto fondamentale della persona.
Orbene, secondo la Corte di legittimità, la decisone della Corte territoriale sul punto va confermata, essendosi quest’ultima espressa in maniera conforme al principio enunciato dalle Sezioni Unite dell’ 8 febbraio 2011, n. 3034 secondo cui, “l’utilizzo dei dati personali per lo svolgimento di attività processuale non si traduce in una violazione della relativa disciplina poiché, ai sensi del D.Lgs. n. 193 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47 (cd. Codice della Privacy), tale regolazione non trova applicazione quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria ed, in tal sede, vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benchè anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy”.
Secondo la Corte, l’assunto difensivo secondo cui il CTU non avrebbe potuto acquisire presso le Aziende ospedaliere i vetrini con i campioni biologici in quanto i “dati personali”, alla data di cessazione del trattamento, avrebbero dovuto essere distrutti, è privo di qualsivoglia fondamento.
La Corte ricorda che la distruzione automatica dei dati personali al momento della dimissione o del decesso del paziente, trova un limite espresso nella stessa legge di protezione dei dati personali, nella misura in cui la conservazione del dato risulti funzionale all’accesso alla giustizia, come emerge chiaramente anche dalla disciplina introdotta dal regolamento UE n. 679/2016 che limita “il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo” (art. 17 reg. UE), “nella misura in cui il trattamento sia necessario…..e) per l’accertamento, l’esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria“.
Ne consegue che, se lecita era la “conservazione” dei vetrini da parte delle strutture ospedaliere, risulta del tutto infondata anche la asserita violazione del divieto di “cessione” dei dati personali concernenti la parte in causa, in quanto, a fronte della richiesta del CTU nominato dal Giudice, la consegna dei vetrini da parte delle Aziende ospedaliere costituiva atto di adempimento alle prescrizioni del provvedimento giudiziario di conferimento dell’incarico, con il quale il CTU veniva autorizzato anche ad acquisire “informazioni” presso terzi ex art. 194 c.p.c.
4. Linee guida in materia di trattamento dei dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero
Da ultimo, si segnala la Delibera 26.6.2008 n.46 del Garante Privacy con la quale sono state adottate le “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali da parte dei consulenti tecnici e dei periti ausiliari del giudice e del pubblico ministero”, totalmente conformi ai principi enunciati nella sentenza in commento. Tali linee guida, in particolare, dispongono che “il consulente e il perito possono trattare lecitamente dati personali, nei limiti in cui ciò è necessario per il corretto adempimento dell’incarico ricevuto e solo nell’ambito dell’accertamento demandato dall’autorità giudiziaria sono tenuti ad acquisire, utilizzare e porre a fondamento delle proprie operazioni e valutazioni informazioni personali che, con riguardo all’oggetto dell’indagine da svolgere, siano idonee a fornire una rappresentazione (finanziaria, sanitaria, patrimoniale, relazionale, ecc.) corretta, completa e corrispondente ai dati di fatto… Ciò, non solo allo scopo di fornire un riscontro esauriente in relazione al compito assegnato, ma anche al fine di evitare che, da un quadro inesatto o comunque inidoneo di informazioni possa derivare nocumento all’interessato, anche nell’ottica di una non fedele rappresentazione della sua identità (art. 11, comma 1, lett. c).”
Le stesse Linee Guida, dunque, pongono dei limiti all’attività peritale, in ossequio al principio di pertinenza nel trattamento dei dati, disponendo in particolare che “le relazioni e le informative fornite al magistrato ed eventualmente alle parti non devono né riportare dati, specie se di natura sensibile o di carattere giudiziario o comunque di particolare delicatezza, chiaramente non pertinenti all’oggetto dell’accertamento peritale, né contenere ingiustificatamente informazioni personali relative a soggetti estranei al procedimento (art. 11, comma 1, lett. d)…..)“.
[1] Il bene della “bigenitorialità” costituisce un valore essenziale, oggetto di un preciso diritto soggettivo che sorge già per il solo fatto della nascita. Esso si traduce nella «presenza comune dei genitori nella vita del figlio idonea a garantirgli una stabile consuetudine di vita e salde relazioni affettive con entrambi” (cfr. Cassazione civile sez. I, 08/04/2019, n.9764; Cass. civ. sez. VI-I n. 18817 del 23/09/2015). Ai sensi dell’art. 7 §1 della Convenzione internazionale sui diritti della Infanzia approvata a New York il 20 novembre 1989, ratificata in Italia con L. 27 maggio 1991, n. 176, «il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi». (cfr. Cass. civ. sez. I n. 23913 del 27/12/2012).
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