Omicidio aggravato per essere stato commesso dall’autore di atti persecutori: le Sezioni unite riconoscono la natura di reato complesso

Omicidio aggravato per essere stato commesso dall’autore di atti persecutori: le Sezioni unite riconoscono la natura di reato complesso

Cass. Pen., Sez. Un., sent. 15 luglio 2021. (dep. 26 ottobre 2021), n. 38402 – Pres. Cassano, Rel. Zaza

Abstract (ITA): Il presente contributo analizza la sentenza delle Sezioni Unite n. 38402/2021 con la quale scioglie il contrasto giurisprudenziale sulla configurabilità del concorso di reati tra il delitto di atti persecutori ex art. 612 bis c.p. ed il delitto di omicidio aggravato ex art. 576, primo comma n. 5.1 c.p. Le Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto riconoscendo la natura di reato complesso ex art. 84 c.p. tra i due delitti.

Abstract (EN): This paper analyzes the judgment of the United Sections n. 38402/2021 with which it dissolves the jurisprudential contrast on the configurability of the conspiracy of crimes between the crime of persecutory acts ex art. 612 bis c.p. and the crime of aggravated homicide ex art. 576, first paragraph n. 5.1 c.p. The United Sections have enunciated the principle of law recognizing the nature of a complex crime pursuant to art. 84 c.p. between the two crimes.

Sommario: 1. La vicenda processuale – 2. Il reato complesso (art. 84 c.p.) – 3. Il reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) – 4. La circostanza aggravante del delitto di omicidio ex art. 576, primo comma, n. 5.1. c.p. – 5. Contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali – 6. Soluzione delle Sezioni Unite – 7. Osservazioni conclusive

1. La vicenda processuale

Con sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Latina, a seguito di giudizio abbreviato, veniva condannata l’imputata alla pena di anni sedici di reclusione per la continuazione fra il reato di cui all’art. 612 bis c.p. e quello di cui all’art. 575 c.p., quest’ultimo aggravato dai futili motivi ex art. 61, primo comma, n. 1 c.p. e dalla commissione del fatto ad opera dell’agente responsabile di atti persecutori nei confronti della stessa persona offesa ex art. 576, primo comma, n. 5.1 c.p.

Per ciò che riguarda le condotte di cui all’art. 612 bis c.p., sono state sostenute da diverse prove dichiarative. È stato sostenuto che le reiterate condotte persecutorie si sono protratte dall’anno 2015 fino al giorno dell’omicidio attraverso epiteti ingiuriosi, l’invio di messaggi offensivi e minacciosi e cercando il contatto fisico generando uno stato di ansia e timore che inducevano la vittima ad incontrare l’imputata.

Avverso la sentenza di primo grado, è stata proposta impugnazione e la Corte di assise di appello di Roma con la sentenza del 28 giugno 2018, ha assolto l’imputata dal reato di atti persecutori perché il fatto non sussiste ed ha riqualificato il reato di omicidio volontario in quello di preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p., escludendo anche le aggravanti e di conseguenza, rideterminando la pena in anni sei di reclusione.

A seguito della proposizione del ricorso per Cassazione da tutte le parti, la Prima sezione della Corte di Cassazione, in data 10 luglio 2019, annullava la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio.

Con la sentenza del 21 aprile 2020 la Corte di assise di appello di Roma, in sede di rinvio, riteneva l’imputata responsabile del reato continuato di atti persecutori ed omicidio volontario aggravato dall’art. 576, primo comma, n. 5.1 c.p., condannandola alla pena di anni quindici e mesi quattro di reclusione. La rideterminazione della pena è stata determinata per gli atti persecutori attraverso le prove dichiarative; e per quanto riguarda il reato di omicidio volontario attraverso le risultanze medico-legali poiché l’imputata aveva colpito la vittima e “l’evento letale era stato quanto meno accettato dalla stessa” inferendo una spinta cagionando l’evento morte.

Avverso la sentenza è stato presentato ricorso per cassazione dal Procuratore Generale in merito al giudizio di equivalenza delle circostanze. Invece, l’imputata ha ricorso con due atti di impugnazione in cui ha dedotto cinque motivi.

Il motivo più rilevante è il terzo, il quale esamina la violazione di legge del concorso di reati di atti persecutori con il reato di omicidio volontario, sostenendo la fattispecie del reato complesso di cui  all’art. 84 c.p., in quanto gli atti persecutori sono assorbiti dall’omicidio aggravato ex art. 576, primo comma, n. 5.1 c.p., di conseguenza non aderendo a quell’orientamento giurisprudenziale, sostenuto nella sentenza impugnata, secondo il quale esclude le diversità strutturali delle fattispecie incriminatrici.

Con l’ordinanza del 1 marzo 2021, la V sezione penale della Corte di Cassazione, rimetteva la questione alle Sezioni Unite per sciogliere due contrastanti orientamenti giurisprudenziali. Prima di precisare il ragionamento logico-giuridico cui sono giunte le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno risolto il contrasto giurisprudenziale, è opportuno sommariamente indicare quali istituti giuridici sono stati presi in considerazione ai fini di sciogliere la questione.

2. Il reato complesso (art. 84 c.p.)

L’art. 84 c.p.[1] stabilisce che le disposizioni sul concorso di reati «non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato». Secondo la dottrina più recente, il reato complesso «consiste in una unificazione legislativa sotto forma di identico reato di due o più figure criminose, i cui rispettivi elementi costitutivi sono tutti compresi nella figura risultante dall’unificazione[2]».

In ordine alla natura giuridica, la dottrina e la giurisprudenza sono sostanzialmente concordi nel ritenere che si verta in un’ipotesi di unificazione legislativa di almeno due reati che dà origine ad una nuova fattispecie unitaria ed autonoma[3].

In questo senso – attraverso una funzione pratica – si evita di applicare l’istituto del concorso di reati assolvendo la volontà del legislatore, il quale ha previsto l’unificazione in un’unica fattispecie incriminatrice, fatti che danno vita ad altre fattispecie incriminatrici autonome.

A chiusura della norma, al comma 2 è indicato che qualora la legge nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79. «È bene aggiungere che ipotesi di questo ultimo genere non risultavano esistenti all’epoca del codice né nel codice stesso né nelle leggi penali complementari (alle quali, per l’art. 16 c.p., si applicano in linea di massima le regole del codice), così come non risultano essersi prodotte nella legislazione successiva; ma prudenzialmente il legislatore del 1930 si preoccupava di questa eventualità e non voleva che i massimi degli artt. 78 e 79 potessero essere mai superati[4]».

Si distinguono due categorie di reati complessi. La prima – reato complesso speciale – si configura con l’unificazione degli elementi costitutivi tra due fattispecie incriminatrici, in un’unica fattispecie (es. reato di rapina art. 628 c.p. che ricomprende gli artt. 624 e 610 c.p.). La seconda – reato complesso circostanziato – si verifica quando un reato è l’elemento aggravante di un altro reato, riunificandosi in una sola fattispecie incriminatrice (es. reato di evasione aggravata dalla minaccia artt. 385, secondo comma e art. 612 c.p.). La dottrina[5], ritiene che la circostanza del reato complesso sia soggetta al regime generale delle circostanze e, quindi, tra l’altro, al giudizio di comparazione di cui all’art. 69 c.p., soluzione questa che, soprattutto dopo la riforma della L. n. 220/1974, non è messa in discussione da alcuno proprio in quanto l’art. 69 si applica a tutte le circostanze e, quindi, anche a quelle speciali.

3. Il reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.)

Il delitto di atti persecutori è disciplinato dall’art. 612 bis c.p.[6] che è stato introdotto dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con mod., dalla L. 23 aprile 2009, n. 38, ai fini di contrastare il fenomeno di tali atti con una norma ad hoc che precedentemente si facevano ricondurre in altre fattispecie criminose. L’art. 612 bis c.p. è collocato dal legislatore nel “Titolo XII – Dei delitti contro la persona” poiché il bene giuridico tutelato è la libertà morale. Il soggetto attivo può essere chiunque, trattandosi di un reato comune.

È un reato abituale. Affinché si configuri il reato l’agente deve porre in essere condotte reiterate di minaccia e violenza generando uno stato di ansia e paura nei confronti della persona offesa o dei prossimi congiunti.

Il dolo è generico consistente nella coscienza e volontà dell’agente delle reiterate condotte di minaccia e di molestia generando uno degli eventi tipici della norma: a) cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura: secondo i primi commentatori doveva essere inteso come un vero e proprio stato patologico, accertabile nel processo per mezzo di consulenze tecniche[7]. La giurisprudenza di legittimità si è invece discostata da tale orientamento ritenendo integrato l’evento anche in assenza di prova della causazione di una patologia nella vittima. Ha infatti affermato che la prova dello stato d’ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall’agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante[8]; b) ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o dei prossimi congiunti; c) costringere ad alterare le proprie abitudini di vita.

La giurisprudenza[9] ha affermato – in riferimento al cambiamento delle abitudini di vita – che è rilevante non la valutazione quantitativa, ad esempio in termini orari, di tale variazione, ma il significato e le conseguenze emotive di una condotta alla quale la vittima sente di essere stata costretta.

Il reato si consuma quando si verifichino – in modo reiterato – le condotte di minaccia o di molestie generando alternativamente tra loro uno degli eventi previsti dalla norma.  La giurisprudenza ha ritenuto di poter far ricorso, ai fini della definizione di molestia o minaccia, al significato degli artt. 612 c.p. (reato di minaccia) e 660 c.p. (reato di molestia).

La Corte di Cassazione è granitica sul punto. Vi sono infatti diverse pronunce in merito all’abitualità delle condotte persecutorie attraverso le quali non viene ad essere perfezionato il reato di atti persecutori con soltanto un unico episodio di minaccia o molestia.

Il legislatore ha utilizzato una tecnica normativa per fasi successive, che qualche autore[10], ha definito “tripartita”: perché si realizzi il reato, infatti, si richiedono condotte reiterate che realizzano molestie o minacce, che a loro volta determinano le tre situazioni finali di perdurante stato di ansia o paura, fondato timore per l’incolumità propria o altrui, mutamento delle proprie abitudini di vita. Non è condivisibile tale orientamento proprio perché il reato è a forma libera che non seleziona le condotte punibili perché sono illimitati gli atti che possono inserirsi nel disegno criminoso dello stalker.

Alcune ricerche criminologiche hanno individuato sette parametri di riconoscimento dello stalking, fra i quali vanno indicati la frequenza e la durata delle persecuzioni, elementi indispensabili affinché si verifichi la c.d. sindrome da trauma da stalking (STS)[11] che colloca la vittima nel “ciclo della cisi” suddivisibile nelle fasi della crisi, del recupero e della anticipazione del nuovo episodio[12].

Una pronuncia della Corte di Cassazione del 2014[13] ha indicato la natura abituale del delitto di atti persecutori indicando come possano essere sufficienti a concretizzare la reiterazione anche solo due condotte.

La reiterazione[14] è dunque l’elemento costitutivo della fattispecie e singoli atti persecutori realizzati in un’unica occasione non integrano il delitto di atti persecutori, bensì altre fattispecie (es. minaccia, molestia, violenza privata), eventualmente uniti dal vincolo della continuazione.

Il secondo comma dell’art. 612 bis c.p. prevede circostanze aggravanti che sono state modificate dalla L. n. 119/2013. La norma comprende tra le aggravanti anche chi è stato legato alla vittima da una relazione affettiva di fatto e, soprattutto, chi attualmente vive una relazione con la vittima.

Il reato si considera aggravato se il fatto è commesso: a) coniuge, anche separato o divorziato; b) che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa; c) commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Nei casi di a) e b) la norma è molto chiara nell’indicare la qualità del soggetto “stalker”, riferendosi al coniuge ovvero alle relazioni sentimentali tra lo stalker e la vittima.

Invece, nel caso di c), la novella del 2013 ha anche arricchito le ipotesi aggravate dalla circostanza dell’uso di strumenti informatici o telematici. Con questo è stata espressa la volontà di punire con severità il c.d. cyber stalking, di cui sono vittime frequenti i giovanissimi attraverso l’uso dei social network.

Al comma terzo dell’art. 612 bis c.p., il legislatore ha previsto delle ulteriori aggravanti, qualora gli atti persecutori sono posti in essere a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza, di una persona con disabilità, con armi ovvero da persona travisata.

Al quarto comma dell’art. 612 bis c.p. sono previste nella norma alcuni richiami processuali riguardo la condizione di procedibilità del reato a querela della persona offesa nel termine di sei mesi e la procedibilità di ufficio se il reato è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma.

4. La circostanza aggravante del delitto di omicidio ex art. 576, primo comma, n. 5.1

La circostanza aggravante speciale del reato di omicidio volontario che comporta la pena dell’ergastolo, è stata introdotta dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, come modificato dalla l. 23 aprile 2009, n. 38. Il legislatore ha previsto l’attribuzione di autonoma rilevanza penale alle condotte minacciose o moleste di tipo persecutorio ex art. 612 bis c.p., al fine di sanzionare l’omicidio che costituisce il drammatico esito finale della condotta persecutoria in danno della medesima vittima[15].

La dottrina, nel momento in cui è stata introdotta la circostanza aggravante, ha affermato come la formulazione testuale della circostanza aggravante lasciava aperto il problema interpretativo tra le condotte di atti persecutori ed il successivo atto dell’omicidio se dovesse esserci o meno una qualche connessione oggettiva tale che «lo scioglimento di tale dubbio ermeneutico rimane, di conseguenza, affidato alla futura interpretazione giurisprudenziale. D’altra parte, se l’omicidio si verificasse proprio nell’ambito di una medesima campagna persecutoria come sbocco puntualmente programmato, si potrebbe anche ipotizzare che il disvalore del reato di stalking rimanga assorbito dal più grave delitto di omicidio[16]».

Ed ancora, l’intento legislativo, sotto un profilo di politica criminale, è stato quello di affrontare un fenomeno molto frequente di fatti omicidiari in danno di vittime di atti persecutori da parte degli stessi autori di tali atti.

5. Contrasto tra i due orientamenti giurisprudenziali

Le Sezioni Unite penali hanno dovuto sciogliere il contrasto giurisprudenziale formatosi tra due orientamenti.

Il primo orientamento (Cass. Pen., sez. I, sent. 12 aprile 2019, n. 20786) considera la natura soggettiva dell’aggravante perché fondata sull’identità dell’autore di due reati con la conseguenza nell’affermare che l’elemento aggravatore non è pertinente alla condotta. Esclude la configurabilità dell’art 15 c.p. per la non sussistenza del rapporto di specialità che la norma richiede. Di conseguenza, sussiste il concorso tra il reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) ed il reato di omicidio volontario aggravato (art. 576, primo comma, n. 5.1).

Un secondo orientamento (Cass. Pen., sez. III, sent. 13 ottobre 2020, n. 30931), in consapevole contrasto con quello appena richiamato, ha invece affermato il principio secondo cui sussiste concorso apparente di norme tra il delitto di atti persecutori e quello di omicidio (nella specie, tentato) aggravato ex art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, che deve considerarsi quale reato complesso ai sensi dell’art. 84 c.p., comma 1, assorbendo integralmente il disvalore della fattispecie di cui all’art. 612 bis c.p., ove realizzato al culmine delle condotte persecutorie precedentemente poste in essere dall’agente ai danni della medesima persona offesa. Se si considerasse il concorso tra i due reati, si farebbe pesare per due volte gli atti persecutori dell’agente.

6. Soluzione delle Sezioni Unite

Il quesito formulato con l’ordinanza di rimessione della questione alle Sezioni Unite è stato espresso nei seguenti termini: “Se, in caso di omicidio commesso dopo l’esecuzione di condotte persecutorie poste in essere dall’agente nei confronti della medesima persona offesa, i reati di atti persecutori e di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, comma primo, n. 5.1 cod. pen. concorrano tra loro o sia invece ravvisabile un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, comma primo, cod. pen.”.

Le Sezioni Unite hanno dapprima messo in luce il primo orientamento giurisprudenziale analizzandolo in tutti i suoi aspetti ed espressamente demolendolo su diversi punti. In primo luogo, hanno espresso parere favorevole a non sostenere che le due fattispecie incriminatrici ricadano nel concorso apparente di norme di cui all’art. 15 c.p. per la mancanza del rapporto di specialità richiesto dalla norma.

In secondo luogo, attraverso altre enunciazioni, in riferimento ad altre fattispecie incriminatrici, le Sezioni unite hanno rilevato come ci si trovi di fronte ad un reato complesso ex art. 84, primo comma, c.p. Attraverso quest’ultima riflessione e disamina dell’istituto che le SS.UU. giungono a sostenere che il reato di atti persecutori e quello di omicidio aggravato ex art. 576, primo comma, c.p. – attraverso l’unitarietà dell’azione complessiva – configuri il reato complesso di cui all’art. 84 c.p. Difatti le Sezioni Unite non aderiscono al primo orientamento per sposare il secondo.

Secondo le Sezioni Unite l’omicidio volontario è pertanto aggravato, nell’ipotesi in esame, non per le caratteristiche personali del soggetto agente, ossia l’essere un persecutore, ma per ciò che egli ha fatto, vale a dire per il fatto persecutorio commesso. Fatto che in quanto tale, e non solo per il suo significato in termini di capacità criminale del soggetto agente, è costitutivo della fattispecie astratta di un reato a questo punto complesso nella forma circostanziata.

Le Sezioni Unite hanno considerato che il delitto di omicidio ex art. 575 c.p. nella forma aggravata ex art. 576, primo comma, n. 5.1 c.p., assorbe il delitto ai sensi dell’art. 612 bis c.p. – sempre che il delitto di omicidio – sia considerato come ultimo estremo atto persecutorio nei confronti della medesima vittima verificatosi non a distanza consistente nel tempo, poiché non si realizzerebbe il requisito minimo dell’unitarietà del fatto rappresentato dalla contestualità dei due reati, con la conseguente impossibilità di configurare il reato complesso e quindi l’assorbimento del reato di atti persecutori in quello di omicidio.

La Corte di Cassazione ha accolto, così, il solo gravame della ricorrente in riferimento all’esclusione del reato continuato tra i delitti di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e di omicidio aggravato (art. 576, primo comma, n. 5.1 c.p.), dichiarando non fondati i restanti motivi e inammissibile il ricorso presentato dalla Procura Generale.

Di conseguenza, poiché il reato ai sensi degli artt. 575, 576, primo comma, n. 5.1 c.p., assorbe il reato di cui all’art. 612 bis c.p., la Suprema Corte ridetermina la pena in anni quattordici e mesi quattro di reclusione, condannando, altresì, l’imputata alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile.

7. Osservazioni conclusive

In conclusione, viene affermato il seguente principio di diritto: “La fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi degli artt. 575 e 576, primo comma, n. 5.1 cod. pen. — punito con la pena edittale dell’ergastolo — integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84, primo comma, cod. pen., in ragione della unitarietà del fatto”.

A parare di chi scrive, il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite è senz’altro condivisibile sia sotto l’enunciazione del principio di diritto affermato sia poiché vengono puntualmente ricondotte a giustizia le fattispecie criminose. In altri termini, considerare il reato di omicidio volontario e il reato di atti persecutori sotto il vincolo della continuazione, peserebbe per due volte il disvalore dei reiterati atti persecutori precedenti per quanto siano stati gravemente minacciosi o molesti.

Pertanto, attraverso l’argomentazione delle Sezioni Unite, l’istituto del reato complesso di cui all’art. 84, primo comma, c.p., può configurarsi nel momento in cui tra i due reati – di atti persecutori e di omicidio – si verifichi la natura della unitarietà del fatto considerato il reato di omicidio come ultimo atto estremo delle condotte persecutorie nei confronti della medesima vittima.

Ciò è supportato dal fatto che, la sentenza delle Sezioni Unite, mette in luce la natura del reato complesso circostanziato, mediante il quale l’elemento costitutivo del reato di atti persecutori viene ad essere assorbito nel reato di omicidio aggravato dall’essere l’autore lo stesso che ha commesso gli atti persecutori nei confronti della medesima vittima.

È da segnalare che di recente è stata depositata una pronuncia – sez. I n. 1638/2022 – la quale si è uniformata alla sentenza delle Sezioni Unite sul reato complesso tra il delitto di atti persecutori ed il delitto di omicidio aggravato, in merito al quale la Corte ha riconosciuto, anche nel caso di specie, la natura del reato complesso applicabile alla fattispecie tentata di omicidio aggravato commesso dall’autore di atti persecutori[17].

 

 

 

 

 


 

[1] Per completezza si riporta integralmente l’art. 84 c.p.: «Le disposizioni degli articoli precedenti non si applicano quando la legge considera come elementi costitutivi, o come circostanze aggravanti di un solo reato, fatti che costituirebbero, per se stessi, reato. Qualora la legge, nella determinazione della pena per il reato complesso, si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono, non possono essere superati i limiti massimi indicati negli articoli 78 e 79».
[2] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2014, VII ed., 726-727.
[3] Cfr. A. PAGLIARO, Il reato, in Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-Padovani-Pagliaro, Milano, vol. II, 2007, 450; G. VASSALLI, voce Reato complesso, in Enc. dir., 1987, XXXVIII, § 8.
[4] G. VASSALLI, voce Reato complesso, in Enc. dir., 1987, XXXVIII, § 2.
[5] G. VASSALLI, voce Reato complesso, in Enc. dir., 1987, XXXVIII, § 10. Cfr. S. PROSDOCIMI, voce Reato complesso, in Dig. d. pen., 1996, XI, § 2.
[6] Art. 612 bis c.p.: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio».
[7] R. BRICCHETTI, L. PISTORELLI, Entra nel codice la molestia reiterata, in Guida dir., 2009, n. 10, 58.
[8] Cfr. Cass. pen. sez. V, n. 8832/2011; Cass. pen. sez. V, n. 24135/2012; Cass. pen. sez. VI, n. 50746/2014; Cass. pen. sez. VI, n. 20038/2014.
[9] Cass. pen. sez. V, sent. n. 24021/2014 ha sottolineato che «il fatto poi che lo stalking sia reato di evento e non di pura condotta nulla ha a che vedere con il fatto che, nella maggior parte dei casi, la prova debba essere dedotta dalle parole della stessa vittima. Invero, è principio elementare quello in base al quale un fatto non va confuso con la sua prova. D’altra parte, non pochi sono i delitti con riferimento ai quali, in genere, l’unica prova consiste nelle dichiarazioni della persona offesa (si pensi, ad esempio, a tutti i reati a sfondo sessuale). Ciò che dunque rileva è la attendibilità della persona offesa e la credibilità del suo racconto».
[10] C. MINNELLA, Lo stalking tra criminologia, giurisprudenza e recenti modifiche normative, in Rass. pen., 2013, n. 3, 69 e ss.
[11] Cfr. G. BENEDETTO, M. ZAMPI, M. RICCI MESSORI, M. CINGOLANI, Stalking: aspetti giuridici e medico-legali, in Riv. It. Med. Leg., 2008, Anno XXX, Fasc. 1, 152 e ss.
[12] C. MINNELLA, Lo stalking tra criminologia, giurisprudenza e recenti modifiche normative, in Rass. Pen., 2013, n. 3, 78 «nella prima fase lo stalker inizia con atti di tormento, attacco e inseguimento che generano nella vittima paura ed anche se quest’ultima tenta di reagire, la ripetitività la porta a maturare la convinzione che gli attacchi non finiscano mai. La seconda fase, che matura nel breve tempo intercorrente tra il ripetersi degli episodi molestanti, si caratterizza per la ricerca della sensazione di pace e di tranquillità ed è definita fase di recupero, ma la sua durata è assai ridotta stante la frequenza con cui si susseguono nuovi episodi molestanti. proprio tale frequenza determina quindi uno stato di allerta, provocato dalla aspettativa della vittima che con il passare del tempo dalla precedente molestia, si aspetta di subirne un’altra. Si identifica così la terza fase, detta fase di anticipazione, caratterizzata dall’ansia dell’attesa di ulteriori attacchi futuri».
[13] Cass. pen. sez. V, sent. 11 dicembre 2014, n. 51718: «Nel delitto previsto dell’art. 612 bis cod. pen., che ha natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice».
[14] Cfr. Cass. pen. sez. V, sent. 05 giugno 2013, n. 46331; Cass. pen. sez. V, sent. 22 dicembre 2014, n. 20065; Cass. pen. sez. V, sent. 24 settembre 2014, n. 48391.
[15] Per un confronto precedente alla recente sentenza delle SS.UU. n. 38402/2021 si v.: Non è chiaro se essa si riferisca ai soli casi in cui la condotta di omicidio si ponga all’esito della condotta persecutoria, quale sviluppo finale di essa (in tal senso, F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, Padova, 2007, ed. V). Altrettanti dubbi pone la questione circa la necessità della condanna definitiva dell’autore degli atti persecutori ovvero se sia sufficiente la sola contestazione del delitto di cui all’art. 612-bis anche durante il processo per omicidio (E. DOLCINI, G. L. GATTA, Art. 576, in Cod. pen. comm., a cura di E. DOLCINI, G. L. GATTA, 2015, Milano, vol. II, 2883).
[16] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, Bologna, 2014, vol II, t. I, VI ed., 16.
[17] Cass. pen. sez. I, sent. 03 novembre 2021, dep. 17 gennaio 2022, n. 1638: «La sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto […] che tra il reato di atti persecutori e quello di tentato omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1 non sussistesse una relazione di specialità, si pone in contrasto con il principio di diritto affermato dalla Sezioni Unite di questa Corte del 15 luglio 2021, Magistri, secondo cui, alla stregua dell’informazione provvisoria, “la fattispecie del delitto di omicidio, realizzata a seguito di quella di atti persecutori da parte dell’agente nei confronti della medesima vittima, contestata e ritenuta nella forma del delitto aggravato ai sensi dell’art. 575 c.p. e art. 576 c.p., comma 1, n. 5.1, punito con la pena edittale dell’ergastolo, integra un reato complesso, ai sensi dell’art. 84 c.p.p., comma 1, in ragione della unitarietà del fatto”, principio questo, ovviamente, applicabile anche alla fattispecie tentata di omicidio aggravato».

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