Omicidio commesso con dolo d’impeto: la crudeltà e lo stato d’ira

Omicidio commesso con dolo d’impeto: la crudeltà e lo stato d’ira

Sommario: 1. Dolo: riferimenti normativi e dottrinali – 2. Il dolo d’impeto e lo stato d’ira: punti di incontro – 3. Compatibilità tra il dolo d’impeto e l’aggravante della crudeltà

 

 

Recenti fatti di cronaca narrano di un ragazzo ventenne che ha ucciso la madre a coltellate e l’ha successivamente decapitata. All’origine della tragedia una violenta lite tra madre e figlio. Seguiranno anche delle analisi sulle condizioni psicologiche del ragazzo e si procederà eventualmente all’acquisizione delle cartelle cliniche dello stesso che era seguito da uno specialista. Un caso del genere rientra senz’altro nelle ipotesi di omicidio commesso con dolo d’impeto. Il delitto può ritenersi aggravato dalla crudeltà o pesano le condizioni psicologiche del soggetto? Se e come rileva lo stato d’ira?

1. Dolo: riferimenti normativi e dottrinali

La definizione del dolo si ricava dall’art. 43 c.p.: “ Il delitto è … doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato della azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”. Il dolo costituisce la forma più grave di colpevolezza, nel senso che il reato doloso è quello punito con la pena più grave e consiste nella volontà di cagionare l’evento che costituisce il reato. Il reato doloso rappresenta dunque il modello fondamentale di illecito penale: qualunque reato o contravvenzione che sia previsto dal codice è sempre punito a titolo di dolo. Gli altri criteri di imputazione, cioè la colpa e la preterintenzione, operano solo nei casi previsti espressamente dalla legge. Ad esempio il danneggiamento è un reato punito solo a titolo di dolo, perché la forma colposa non è prevista dal codice.

A conferma di ciò, si cita l’articolo 42 comma 2 c.p.: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente previsti dalla legge”.

Secondo una parte della dottrina il dolo fa parte della struttura del reato, il quale, rappresenta di per sé il fatto tipico. Dal punto di vista naturalistico, invece, il dolo è elemento psicologico e soggettivo, rientrante nella volontà del soggetto e apparentemente estraneo al fatto. Tuttavia, il reato, come accennato precedentemente, è un fatto giuridico, e per colui che osserva esternamente il reato è semplicemente un fatto. Per esemplificare, se Tizio uccide Caio con un colpo di pistola si è in presenza di un omicidio e chi osserva dall’esterno vede semplicemente un uomo che spara ad un altro senza avere alcuna conoscenza della sua volontà. In realtà, per acquisire certezza in merito al fatto che la scena a cui si è assistiti costituisca un reato, occorre conoscere i motivi per i quali Tizio ha ucciso Caio e a questo scopo è fondamentale risalire alla sua volontà. Difatti, se il gesto di Tizio è dovuto a sentimenti di antipatia nutriti nei confronti di Caio, si avrà un omicidio. Se invece, il medesimo ha sparato per difendersi da Caio, allora non c’è reato, poiché quanto è avvenuto è manchevole della volontà di uccidere ovvero del dolo.

In tal senso, il dolo fa parte della struttura del fatto, e quindi del reato. L’attributo di doloso è usato in riferimento al fatto, non al reo.

Da notare come, nell’ambito del testo normativo, l’attributo doloso è indicato anche con l’espressione secondo l’intenzione. Se ne deduce che il dolo implica la conformità del fatto a quanto voluto dall’agente. A tal proposito, occorre specificare che il fattore intenzione è suscettibile di manifestarsi in due componenti: la previsione e la volontà dell’evento.

E’ da precisare che la nozione codicistica di dolo è stata oggetto di numerosi interventi, poiché ritenuta incompleta. Tale percezione di incompletezza è dovuta al fatto che la definizione di dolo è il prodotto dell’intreccio delle teorie prevalenti nel periodo d’istituzione del codice Rocco ( la teoria dell’intenzione, della rappresentazione, della volontà). Difatti, la nozione di dolo, con riferimento alla previsione e volizione dell’evento dannoso e pericoloso, esclude dal suo campo i reati di mera condotta e non solo.

Secondo la teoria dell’intenzione, il nucleo del dolo risiede nel tendere la volontà verso un determinato fine o nel commettere un fatto come mezzo per un fine ulteriore. Questa teoria non riesce a spiegare i casi di dolo eventuale. Per esemplificare, nell’ipotesi in cui un delinquente compie un furto in gioielleria e uccide un anziano, l’omicidio non è né il fine ultimo né un mezzo per conseguire lo scopo.

Nell’ambito della teoria della rappresentazione il dolo come atteggiamento psichico consiste nella rappresentazione dell’evento provocato. Rappresentazione che va intesa sia come desiderio di provocare quel determinato evento, sia come previsione di esso. La volontà non può avere ad oggetto l’evento in sé stesso ma solo la sua rappresentazione. L’evento, infatti, è prodotto dall’azione e non dalla volontà, la quale può produrre solo immagini. Quanto alla volontà, può avere ad oggetto solo il movimento corporeo dell’uomo (premere il grilletto al fine di uccidere); l’evento, invece (la morte) è un prodotto non della volontà, ma della condotta. L’ intento principale di questa teoria è quello di costruire una nozione di dolo che comprenda anche i delitti dolosi non intenzionali. Si prenda il caso di Tizio che brucia la casa per riscuotere i soldi dell’assicurazione, uccidendo una persona anziana paralitica che vive nel condominio. Per tali ragioni la stessa è considerata peccare per eccesso, perchè dilata oltre misura i confini del dolo per ricomprendervi anche i casi di cosiddetta colpa con previsione. Si prenda l’ipotesi di Tizio che corre ad alta velocità in un centro abitato e uccide un passante. Applicando la teoria della rappresentazione costui dovrebbe rispondere di omicidio doloso, per aver previsto l’evento e voluto il movimento corporeo che ha provocato l’investimento.

Secondo la teoria della volontà il dolo consiste nel voler vedersi realizzato l’evento, cioè i risultati dell’azione. La volontà, quindi, non abbraccia solo il movimento muscolare, come sostiene la teoria della rappresentazione, ma anche l’evento provocato.

E nel concetto di volontà dell’evento, come si vedrà meglio in seguito, rientrano sia l’accettazione del rischio che l’evento si verifichi, sia il dubbio.

Secondo la dottrina prevalente, il dolo comprende tutti e tre gli aspetti messi in luce dalle teorie appena sopra esposte. Da un lato è necessaria la conoscenza degli elementi che integrano la fattispecie. Se il soggetto non conosce un requisito del fatto tipico, la punibilità è esclusa per mancanza di dolo. Certamente occorre anche il momento volitivo, cioè la volontà consapevole di realizzare il fatto tipico. L’elemento dell’intenzione è assorbito da quello della volontà. Tale ricostruzione risulta essere in linea con la normativa codicistica che parla di evento previsto e voluto. Si vuole certamente fare riferimento al momento della previsione ( o rappresentazione) ed al momento della volizione (o volontà). Entrambi gli elementi sono necessari poiché non è possibile volere qualcosa se non si ha prima una rappresentazione mentale e la sola rappresentazione di un evento non ha significato se non è voluto dal soggetto ma è provocato da altre cause. Non è infatti possibile ipotizzare che ci si trovi dinanzi ad un delitto doloso qualora manchi uno dei due elementi. Se prendiamo alcune ipotesi di rappresentazione senza volontà, o di volontà senza rappresentazione, la fattispecie non è imputabile a titolo di dolo al soggetto agente. Un caso di rappresentazione senza volontà si ha quando Tizio vuole uccidere Caio il quale muore di paura alla sua vista senza che il primo abbia modo di impugnare un’arma e colpirlo. Un caso di volontà senza rappresentazione si ha quando Tizio infligge un forte pugno a Caio, di cui vuole la morte, sapendo che non può cagionarla con un semplice pugno. Tuttavia, Caio muore per una particolare fragilità dei capillari, non conosciuta da Tizio. In queste ipotesi (marginali) Tizio risponderà di omicidio preterintenzionale.

Il dolo è composto dunque dalla rappresentazione e dalla volontà dell’evento. La rappresentazione (cioè la conoscenza o la previsione) deve avere ad oggetto il fatto nel suo insieme. In caso di furto, ad esempio, occorre essere a conoscenza del fatto che la cosa di cui ci si sta appropriando sia di appartenenza altrui. Qualora manchi questa conoscenza o ci si appropri della cosa erroneamente non si può parlare di furto perchè manca difatti il dolo. La rappresentazione o previsione non implica che il delitto debba essere stato programmato in anticipo. La volontà può nascere all’improvviso come nel cosiddetto dolo d’impeto. L’atto della premeditazione costituisce un’aggravante. Da precisarsi che la rappresentazione sussiste anche in caso di dubbio, quando non si possieda certezza dell’altrui proprietà della cosa che si intende portare via e di cui ci si appropria.

Per una parte della dottrina la rappresentazione deve avere ad oggetto l’evento inteso come fatto tipico. L’oggetto del dolo è dunque costituito da tutti gli elementi oggettivi richiesti per l’integrazione del fatto di reato. Tale teoria è confermata nell’articolo 47 c.p. per cui il dolo è escluso quando c’è un errore sul fatto che costituisce reato. L’evento inteso come fatto tipico comprende la condotta, le circostanze concomitanti e susseguenti all’azione, l’evento naturalistico.

La rappresentazione deve avere ad oggetto solo l’evento. Non anche il nesso causale. Quest’ultimo è infatti un elemento necessario perchè ricorra un reato, ma esso non deve necessariamente essere rappresentato e voluto dall’agente. L’esempio ricorrente è quello di Tizio che getta nel fiume Caio per farlo annegare, mentre costui muore per aver battuto la testa ad un sasso. In tale ipotesi l’evento sarà ugualmente attribuito a Tizio, perchè anche se il decorso causale non è quello che costui si è rappresentato originariamente, l’evento della morte è pur sempre ricollegabile alla condotta di Tizio, e sono pur sempre ravvisabili i due elementi del dolo (la rappresentazione e la volontà dell’evento finale). D’altronde, se si considera la formula definitoria dell’articolo 43, essa richiede che il soggetto voglia l’evento come conseguenza della sua azione o omissione, e non richiede anche che l’agente si rappresenti le precise modalità dello svolgimento causale.

Occorre anche la volontà dell’evento. La volontà deve essere presente al momento in cui il fatto è commesso. Il soggetto deve volere il fatto tipico che ha realizzato e solo quello. Si considerano voluti anche i risultati sperati o solo desiderati. Per quanto concerne la sussistenza della volontà al momento della commissione del fatto, non ha rilievo né il dolo susseguente né il dolo antecedente. Il dolo susseguente si ha quando la volontà nasce dopo: “Tizio viene aggredito da Caio con un coltello per essere ucciso, ma è lui che lo uccide a sua volta”. Il fatto che si accorga di avere ucciso proprio Caio, fidanzato non approvato di sua figlia, non fa si che sia responsabile del reato di omicidio. Il dolo antecedente si ha quando la volontà di commettere il reato è antecedente al fatto ma viene meno in un momento successivo e l’evento viene dunque realizzato senza volontà. In riferimento all’esempio precedente, Tizio non sarà responsabile di omicidio, qualora abbia meditato di uccidere Caio in passato.

E’ voluto anche il risultato sperato. Se Tizio spara Caio da una distanza superiore a quella che l’arma consentirebbe e comunque lo uccide, il dolo di omicidio è certamente configurabile. Se Tizio dà un pugno a Caio nella speranza che il pugno lo uccida, e Caio muore, risponde di omicidio. Ciò anche se di per sé il pugno non è un atto idoneo a determinare la morte. Si precisa che non sempre un risultato, solo perché sperato, è idoneo a configurare l’esistenza del dolo. Si fa l’esempio di chi pone in essere una serie di pratiche magiche che raggiungono il risultato. In tal caso il dolo non sussiste perchè il soggetto si è rappresentato l’evento come derivante da altri e diversi fattori casuali che non la propria condotta. O meglio, secondo altra parte della dottrina, il dolo come volontà dell’evento è configurabile, ma manca il nesso causale. Se ne conclude che è voluto anche il risultato sperato ma l’azione posta in essere deve essere adeguata astrattamente a cagionare l’evento.

2. Il dolo d’impeto e lo stato d’ira: punti di incontro

Ex articolo 133 c.p. il dolo è diversamente punito in ragione della sua intensità. Il dolo è volontà dell’evento ma non ogni azione volontaria è voluta con la stessa intensità. Cogliere in flagranza l’assassino della propria figlia e ucciderlo in un impeto d’ira è differente da uccidere una persona per rubarle del denaro, dopo aver premeditato il delitto per mesi. In relazione all’intensità si distinguono vari tipi di dolo. Abbiamo il dolo d’impeto, quando la volontà nasce al momento del fatto e si traduce subito in azione; il dolo di proposito, caratterizzato da un ampio intervallo temporale tra il momento della decisione e quello dell’esecuzione; la premeditazione, consistente non solo in un ampio stacco temporale, ma anche in una ostinazione criminosa particolarmente riprovevole come nell’ipotesi di omicidio su commissione. Ciò che distingue il dolo d’impeto dal dolo di proposito è la differenza cronologica. Questa differenza è il segno esteriore di un diverso processo motivazionale in cui alla presunta assenza o presenza di contromotivi all’azione criminosa corrisponda una minore o maggiore persistenza ed intensità della volontà a delinquere.

Lo stato d’ira è costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che comporta la perdita dei poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi. Esso descrive uno stato di eccitazione emotiva che si distingue da un mero stato di agitazione e da meri stati psicologici quali odio, risentimento, vendetta, ritorsione. Lo stato d’ira è causato normalmente da una provocazione subita. Con il termine provocazione si vuole generalmente riferirsi alla circostanza attenuante prevista dall’art. 62 n. c.p., consistente appunto nell’avere agito nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui. Ai fini della configurabilità dell’attenuante della provocazione occorre lo stato d’ira ma anche il fatto ingiusto altrui e un rapporto di causalità psicologica tra l’offesa e la reazione , indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (Cass. 9-2-2012, n. 5056). Il fatto ingiusto altrui è costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto ma anche dall’inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l’ordinaria, civile convivenza. Possono, perciò, rientrarvi oltre ai comportamenti sprezzanti o costituenti manifestazione di iattanza, anche quelli sconvenienti o, nelle particolari circostanze, inappropriati.

Rileva la questione relativa all’attualità della reazione, e cioè alla possibilità di riconoscimento della predetta attenuante anche nei casi in cui la provocazione, pur non essendo istantanea, sia continua e protratta nel tempo. In tal caso occorrerebbe prudentemente chiedersi se sia possibile configurare uno stato d’ira a seguito, ad esempio, di vessazioni continuate, ponendosi il dubbio di ammissibilità dell’ira (intesa come emozione e dunque come concetto extragiuridico) “accumulata”. Sul punto tuttavia la giurisprudenza sembra aver risolto da tempo la questione, sostenendo ad esempio che, in tali casi, la provocazione protratta nel tempo, pur non avendo la conseguenza di raggiungere quella “intensità di stimolazione tale da produrre nel perseguitato una conflagrazione reattiva”, può comunque avere la capacità di determinare “una accumulazione degli stimoli psichici cui è stato esposto, destinata ad esplodere, all’occasione, nel comportamento violento e reattivo dell’altrui fatto ingiusto”(Cass. Pen. sez. I n. 99/6285). Proprio in virtù di tali interpretazioni, dunque, è stato più volte riconosciuto lo stato d’ira come conseguenza di vari fatti ingiusti e provocazioni che, pur non essendo singolarmente sufficienti a giustificare l’attenuante, possono esserlo a seguito di una lettura complessiva del caso concreto.

Sempre riferendosi al carattere psicologico della predetta attenuante, essa è considerata incompatibile con quella del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 c.p. nei casi in cui vi sia una sorta di coincidenza tra lo stato d’ira e l’infermità mentale o quest’ultima abbia avuto una preponderante incidenza su di esso (Cass. Pen. sez. I, n. 21405/2009). Sembra invece poter coesistere qualora l’infermità, pur tendendo a reazioni particolarmente iraconde, non sia, nel caso concreto, la fonte dello stato d’ira derivante da un preciso fatto provocatorio. Ciò, ammesso ovviamente che il seminfermo mantenga la lucidità di comprendere l’ingiustizia del fatto altrui.

3. Compatibilità tra il dolo d’impeto e l’aggravante della crudeltà

Oggetto di numerose recenti analisi, sia dottrinali che giurisprudenziali, è stata la questione relativa alla compatibilità tra il dolo d’impeto e l’aggravante della crudeltà, che è già stata oggetto di ampia trattazione a seguito della nota pronuncia a Sezioni Unite (Cass. Pen. S.U., sent. 23 giugno 2016 – dep. 29 settembre 2016, n. 40516). Con questa sentenza le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono pronunciate in senso affermativo sulla compatibilità tra il dolo d’impeto e la circostanza aggravante della crudeltà, di cui all’art. 61, n. 4 c.p., risolvendo la questione ad esse sottoposta dall’ordinanza di rimessione emessa dalla Prima Sezione a seguito di un ricorso per saltum azionato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vasto.

La fattispecie concreta oggetto di giudizio, nello specifico, riguardava il caso di un trentasettenne, pienamente capace di intendere e volere ma gravato da spiccate problematiche di natura psicopatologica, che a seguito dell’ennesima lite scatenatasi nel contesto familiare, uccise entrambi i genitori colpendoli complessivamente con centoundici coltellate. La Corte, nella sua pronuncia, pur escludendo che nel caso in questione fosse ravvisabile la circostanza aggravante, ha affermato che non sussistono ragioni di incompatibilità col dolo d’impeto.

In particolare, la Corte enuncia un primo principio di diritto: “il dolo d’impeto, designando un dato meramente cronologico, non è incompatibile con la circostanza aggravante della crudeltà di cui all’art. 61, primo comma n. 4 c.p.”.

Un secondo principio di diritto concerne la stessa aggravante dell’aver agito con crudeltà, che, in conformità alle premesse sopra fatte, viene definita come circostanza “di natura soggettiva caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole, che deve essere oggetto di accertamento alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo”.

La giurisprudenza è dunque ormai orientata in via maggioritaria ad affermare una piena compatibilità tra il dolo d’impeto e l’aggravante della crudeltà. Sul tema è difatti stato confermato da recentissime pronunce che la deliberazione delittuosa può essere “fulminea ed estemporanea, ma nel contempo fredda e ordinata, estrinsecandosi in forme che denotano l’efferatezza e la brutalità tipiche dell’aggravante”(Corte di Cassazione Penale, sez. I, 16 maggio 2019, n. 21402), permettendo pertanto il riconoscimento della predetta aggravante pur nel caso di dolo d’impeto. Nella citata pronuncia si è altresì specificato che, a differenza dell’aggravante delle sevizie (contenuta nel medesimo art. 61 n. 4 c.p. e non compatibile con l’impeto), la condotta crudele non necessita di una studiata predisposizione finalizzata a cagionare alla vittima un male aggiuntivo costituito da inutili sofferenze (che costituirebbe appunto una sevizia), ma “esige un’azione e un atteggiamento della volontà connotati da spietatezza e gratuita eccedenza rispetto alla normalità causale, documentate dalle stesse modalità concrete della condotta, che integrano il nucleo fattuale dell’aggravante giustificando la maggiore riprovevolezza dell’azione dolosa e il conseguente aggravamento della pena.”


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