Organizzazioni terroristiche, con particolare riguardo alle cellule di ispirazione Jihadista, e art 270 bis c.p.
Sommario: Premessa – 1. Il requisito della partecipazione – 2. Fenomeno associativo terroristico e principi di materialità e di offensività – 3. Conclusioni
Premessa
Il problema dell’inquadramento del fenomeno del c.d. terrorismo a cellule o a rete, deriva dal fatto che il reato associativo, già di per sé, soffre di un deficit di determinatezza a livello di tipizzazione normativa. Il legislatore, infatti, non definisce né le condotte apicali né quelle di partecipazione e, ciononostante, anticipa la soglia della punibilità. Il rischio, dunque, è quello della violazione di taluni principi quali quello di determinatezza, di materialità e di offensività. Il legislatore, invero, non definisce mai la partecipazione interna al reato associativo nè individua le sue caratteristiche. Alcuni reati associativi ,i c.d. reati misti, sono maggiormente definiti, come avviene per l’associazione mafiosa di cui all’art 416 bis. Il legislatore, infatti, oltre a delineare gli scopi perseguiti dall’ organizzazione criminale e a punire i partecipi e i soggetti apicali con pene differenziate, indica anche le modalità operative dell’ organizzazione e, cioè, il cosiddetto metodo mafioso. La definizione dell’associazione mafiosa è più esaustiva in quanto è previsto che i soggetti che ne fanno parte sono quelli che si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. il legislatore, dunque, individua anche le modalità operative e, quindi, considera l’organizzazione anche nel suo momento dinamico. Tuttavia, anche rispetto all’associazione di tipo mafioso non fornisce una definizione dei partecipi, la quale è affidata all’attività di specificazione degli interpreti. La giurisprudenza[1] , per ovviare a tale deficit di determinatezza, ha chiarito che l’associazione di stampo mafioso si caratterizza per una stabile organizzazione, una ripartizione dei ruoli ed una gerarchia. Si ritiene, poi, che tali requisiti debbano caratterizzare tutte le associazioni criminali. Il problema che si pone è che, tendenzialmente, queste caratteristiche mancano, invece, nelle moderne organizzazioni terroristiche le quali sono strutturate “ a cellula”. Esse, infatti, agiscono attraverso organizzazioni di uomini e mezzi non strutturate, sono aperte all’adesione di chiunque sia portatore dello stesso scopo senza necessità di accettazioni formali e , spesso, operano a distanza attraverso contatti telefonici o informatici. Per tale motivo si nutrono dubbi in merito alla possibilità di applicazione dell’art. 270 bis c.p. Il legislatore, infatti, indica in tale fattispecie il solo fine terroristico o di eversione dell’ordine democratico e all’art. 270 septies definisce il fine terroristico o di eversione, ma non definisce la condotta di partecipazione. Comprendere quando risulti integrata la stessa risulta, invece, fondamentale per individuare i limiti di applicazione della relativa fattispecie e la sussumibilità al suo interno dei moderni fenomeni di criminalità terroristica internazionale.
1. Il requisito della partecipazione
Per quanto concerne il requisito della partecipazione nell’ambito della criminalità organizzata, sono venuti in rilievo tre orientamenti i quali, poi, sono stati mutuati anche per comprendere la partecipazione nell’ambito delle organizzazioni terroristiche moderne a cellule o a rete.
Un primo orientamento, tendeva ad identificare la partecipazione associativa con la sola manifestazione di aderire all’organizzazione criminale corredata dalla c.d. affectio societatis.
Tale concezione è oggi, però, superata, dalla dottrina (ma non sempre dalla giurisprudenza). Si rileva, infatti, che in tal modo la condotta partecipativa viene eccessivamente smaterializzata in spregio al principio di materialità. In virtù di esso, infatti, solo condotte che si concretano in una modificazione della realtà possono avere rilievo penale. Se si conferisce rilievo alla sola manifestazione di volontà, alla semplice adesione, si conferisce rilievo ad un mero atteggiamento psicologico e la condotta di partecipazione si smaterializza eccessivamente . Si violano, in tal modo, i principi di materialità e di offensività.
Si è cercato, quindi, di superare questo orientamento attraverso un orientamento cosiddetto causale i cui sostenitori ritengono che il partecipe è colui che con la sua condotta, dà un contributo causale al funzionamento dell’associazione. Questa concezione applica al reato associativo le coordinate del concorrente nel concorso di persone il quale, appunto, per essere tale deve fornire un contributo causale quanto meno in termini di agevolazione. Anche questa impostazione, però, viene criticata da chi rileva che non coglie il quid pluris della condotta partecipativa. Il partecipe di un’organizzazione criminosa, normalmente, non è il soggetto che dà un contributo causale, perché il contributo causale può anche essere contingente, unico, isolato. Il concorrente, infatti, può partecipare con un solo atto e anche isolato mentre ci si chiede se ciò sia sufficiente per integrare la partecipazione in una organizzazione criminale.
La partecipazione ad una associazione criminale, infatti, secondo molti, richiede un rapporto stabile e organico, anche perché i reati sono reati di natura permanente. Il partecipe di un’associazione è colui che si lega in un rapporto di stabilità, di durata, con l’organizzazione. Per tale motivo si è fatto strada l’orientamento oggi dominante che poggia su una concezione di tipo organizzatorio. In virtù della concezione organizzatoria, il partecipe è colui che è stabilmente inserito in un’organizzazione come suo membro. E’ colui che entra a far parte stabilmente di un’organizzazione e, come tale, viene anche accettato e riconosciuto senza che, però, sia necessaria la previa sottoposizione ad un rito iniziatico, la quale non è un elemento costitutivo della partecipazione ma può, invece, diventare uno degli indicatori, a livello probatorio, di questo inquadramento.
Sul punto risulta fondamentale la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, c.d. “Mannino, del 2005[2], con la quale la giurisprudenza ha cercato di individuare in maniera puntuale la condotta di partecipazione. Si è provato a rendere il più possibile materiale, la condotta di partecipazione e di superare la dimensione statica dell’inquadramento dell’organizzazione, sottolineando l’ esigenza di una proiezione dinamica della condotta associativa. La Corte, infatti, ha chiarito che la partecipazione non si può esaurire nella semplice messa a disposizione stabile, ma deve avere una “proiezione dinamica nella realizzazione di condotte che siano esecutive del ruolo di partecipe”. Secondo la Corte, infatti, “risponde di partecipazione ad associazione mafiosa colui che risulta in rapporto di stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio, tale questa compenetrazione, da implicare l’assunzione di un ruolo dinamico e funzionale. in esplicazione del quale ruolo l’interessato prende parte al fenomeno associativo rimanendo a disposizione”. Disposizione, inoltre, secondo la Corte, non significa mera disponibilità, ma che il soggetto deve prendere parte in modo attivo all’organizzazione e rimanere a disposizione anche per le attività future della stessa.
La sentenza Mannino cerca in tal modo di rendere la condotta di partecipazione il più possibile coerente con il principio di materialità e con quello di offensività. Per tale via, indica, poi, una serie di elementi sintomatici, indicativi e non esaustivi, da cui desumere l’esistenza di una condotta partecipativa.
Tra questi: l’affiliazione rituale, la commissione di delitti scopo rientranti nel programma associativo, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova.
La giurisprudenza successiva alla Mannino, come enunciazione di principio non si è distaccata dai principi espressi dalla stessa ma, nella sostanza, li ha, talvolta, elusi.
In alcuni arresti si è, infatti, affermato che “Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafiosa non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa e che il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all’associazione da parte del singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire ad esempio quale uomo d’onore”[3].
Il che dimostra che i principi affermati dalla sentenza Mannino in tema di condotta partecipativa non sono sempre osservati e si torna in alcune sentenze al vecchio criterio della messa a disposizione e ciò è dovuto alla sentita necessità di sopperire ad un quadro probatorio talvolta insufficiente. Per evitare di lasciare impunito colui che ha “contatti” con l’associazione si ritiene, infatti, sufficiente la disponibilità e si rileva che questa disponibilità rientra nei principi affermati dalla sentenza Mannino.
2. Fenomeno associativo terroristico e principi di materialità e di offensività
Ulteriori problemi crea il fenomeno associativo a carattere politico-terroristico e, in particolare, quello di matrice islamica, di tipo Jihadista, come l’ Isis.
Questa realtà criminale, infatti, presenta caratteristiche significativamente diverse rispetto alla criminalità comune e, in particolare, rispetto a quella di stampo mafioso. Le organizzazioni mafiose, invero, tradizionalmente sono organizzazioni criminali molto strutturate, costituite da organizzazioni anche singole ma territorialmente insediate e durature. Le organizzazioni di stampo terroristico, invece, sono contingenti e poco strutturate. Esse hanno una struttura cellulare o a rete ,in quanto si caratterizzano per l’unione di poche persone e non è sempre facile capire chi ha effettivi collegamenti con esse e di che tipo di collegamenti si tratti rispetto all’organizzazione criminale terroristico più importante e, cioè, quella madre. Il problema che si è posto è che vi sono soggetti che aderiscono ideologicamente all’organizzazione ma che non entrano effettivamente in collegamento con l’organizzazione madre. Spesso, inoltre, si tratta di contatti sporadici o comunque mutevoli con pochi altri soggetti e non si capisce se le cellule istituite in italia sono ricollegabili all’isis madre o si prefiggono solo compiti di proselitismo ,di indottrinamento o di addescamento in vista di una partecipazione alla organizzazione alla casa madre che ancora non si è realizzata. Non si capisce, inoltre, se l’organizzazione internazionale madre è a conoscenza o meno del soggetto che si identifichi ideologicamente in essa e vuole partecipare . Ci si è chiesti, in particolare, se il fenomeno della proposta in incertam personam e, cioè, proposte di affiliazione attraverso strumenti di comunicazione quali internet o social media possano essere ricondotte nell’alveo dell’art 270 bis cp . Il problema che si pone è che , in tal modo, si hanno adesioni che non si tramutano in veri contatti che possono dar luogo a strutture associative. Come già visto rispetto allʼassociazione criminosa in generale, si è rilevato che per rendere compatibile il reato associativo con i principi di materialità e offensività è necessario che lʼassociazione abbia una struttura organizzativa adeguata e proporzionata rispetto alla realizzazione del programma criminoso che lʼorganizzazione si prefigge. Tuttavia molti hanno rilevato che tale elaborazione risulta difficilmente praticabile rispetto all’esigenza di reprimere penalmente i gruppi islamici. Essi, infatti, presentano caratteristiche parzialmente differenti rispetto alla criminalità nostrana. Per tale motivo vi è chi sostiene che, per la criminalità islamica, quando non risultino sussistenti elementi probatori sufficienti per applicare la disposizione di cui all’art 270 bis cp, deve farsi ricorso allʼapplicazione delle misure di prevenzione. Si è rilevato, poi, che il legislatore ha introdotto varie fattispecie incriminatrici accessorie rispetto alla fattispecie associativa di cui allʼarticolo 270 bis, proprio per punire le attività preparatorie strumentali o funzionali alle organizzazioni terroristiche di questo tipo e che possono applicarsi alcune norme che tutelano l’ordine pubblico e, tra queste, l’istigazione e l’apologia di delitto di cui all’art 414 co 1 e 3 cp. Si possono punire, in tal modo, forme di addestramento, di proselitismo e di reclutamento che non assurgano a vera e propria partecipazione. Le attività preparatorie o funzionali rispetto all’attività dell’associazione sono punite , dunque, autonomamente indipendentemente da una eventuale partecipazione,secondo il reato specifico che viene in questione. Per punire determinate condotte, però, la giurisprudenza ha ritenuto spesso necessario intervenire anche con la fattispecie associativa di cui all’art. 270 bis cp.
Per tale motivo, ha cercato di riadattare l’elaborazione sviluppatasi in materia di criminalità comune e, in particolare di quella mafiosa ,rendendo più flessibile ed elastico il concetto di partecipazione rispetto a quello individuato, da ultimo, con la sentenza Mannino nell’ambito della criminalità organizzata .
Si è, quindi, proposto talvolta un concetto più estensivo e più flessibile di partecipazione e, dunque, meno rigoroso e garantistico. Questa necessità di adattamento è dovuta alle caratteristiche criminologiche della criminalità politico-jihadista e alle sentite esigenze repressive in virtù dell’allarme sociale che essa desta. Il problema che si è posto, però, è se ciò sia possibile e, cioè, fino a che punto si possa ampliare il dato normativo, così come integrato dalla giurisprudenza. Un eventuale adattamento rispetto alla specificità dell’organizzazione, infatti, deve avvenire sempre nel rispetto dei limiti interni della legalità e della determinatezza e del rispetto dei principi di materialità e di offensività. Il rischio della flessibilità e della smaterializzazione eccessiva del concetto di partecipazione è, infatti, quello di violare i principi di materialità e di offensività.
Inoltre, in altri ordinamenti sposare l’ideologia jihadista, limitandosi alla sua condivisione, è un fatto lecito. Limitarsi a condividere l’ideologia jihadista è, poi, una libera manifestazione del pensiero e criminalizzare questo atteggiamento significherebbe adottare un’interpretazione contrastante con l’articolo 21 della nostra Costituzione, che protegge la libera manifestazione del pensiero. Proprio per questo alla giurisprudenza che incentra la condotta di partecipazione sulla mera adesione psicologica si contrappone quella che cerca di superare tale orientamento. Si ammette, infatti, che la manifestazione di un certo pensiero possa essere sanzionata in considerazione non già del contenuto epistemico di tale pensiero, bensì della forma in cui esso si è manifestato e, soprattutto, delle possibili conseguenze nel mondo empirico, secondo uno schema argomentativo che consente di tenere insieme materialità e offensività del reato, da un lato, garanzia della libertà di espressione , dall’altro[4].
Secondo alcuni, come chiarito, perché possa dirsi integrata la partecipazione al gruppo criminale è sufficiente l’adesione del singolo ad una proposta “in incertam personam” e, dunque, se il gruppo rivolge il messaggio attraverso qualsiasi strumento (anche social) chiunque può aderirvi senza che di tale adesione sia necessaria la conoscenza da parte della struttura[5].
La giurisprudenza più recente[6]sottolinea, invece, che perché possa configurarsi una condotta di partecipazione ad un’associazione con finalità di terrorismo internazionale ex art. 270-bis, comma 2, c.p., non è sufficiente l’adesione del singolo a proposte in incertam personam ad un sodalizio internazionale. L’adesione, infatti, deve essere accompagnata dalla necessaria conoscenza del soggetto da parte dell’organismo internazionale a cui si aderisce. Quindi l’adesione deve essere conosciuta dalla struttura internazionale. Questa conoscenza,però, secondo la giurisprudenza, può essere conseguita anche in forma indiretta o mediata. E’ sufficiente, infatti, che la struttura internazionale sappia di avere a disposizione quella determinata persona che essa considera sua risorsa, anche se ne viene a conoscenza di ciò non direttamente e, cioè, attraverso il soggetto che aderisce. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, se così non fosse si rischierebbe di considerare partecipe all’organizzazione internazionale anche chi non ha nessun contatto con il gruppo madre e,cioè, soggetti che si limitano ad avere rapporti di mera condivisione o di informazione mediate i social. Proprio perché la condotta di partecipazione non può consistere in una mera adesione psicologica al programma criminale, essa presuppone, poi, un accertamento ulteriore. E’, infatti, necessario verificare l’esistenza di una struttura organizzativa minima, ancorchè rudimentale, idonea al perseguimento degli scopi dell’organizzazione. E’ sufficiente, quindi, anche una struttura debole e non particolarmente strutturata, purché essa sia idonea al perseguimento del fine che l’organizzazione si prefigge. Inoltre, risulta necessario verificare la consistenza materiale della condotta del soggetto. Non occorre la dimostrazione di un ruolo specifico svolto da questi, in quanto la partecipazione al sodalizio può realizzarsi nei modi più svariati, ma è necessario individuare un contributo di tipo materiale. Essa accoglie in tal modo una nozione estesa di partecipazione ma in linea con i principi costituzionali. Secondo la Cassazione, tuttavia, per aversi partecipazione sono sufficienti anche attività di proselitismo, diffusione di documenti di propaganda, assistenza agli associati, finanziamento, predisposizione o acquisizione di armi, o di documenti falsi e, più in generale, tutte quelle attività funzionali all’azione terroristica, alcune delle quali integrano, però, anche fattispecie accessorie di parte speciale. Parte della dottrina rileva, infatti, che se può costituire attività di partecipazione anche un’attività di indottrinamento, di addestramento o di arruolamento, si pone , comunque, il problema della distinzione tra una vera condotta partecipativa e una condotta che integra una delle fattispecie di parte speciale a carattere accessorio. Il rischio, infatti, è quello di una violazione del principio del ne bis in idem.
Questa giurisprudenza, dunque, se da un lato, cerca di non smaterializzare troppo la condotta partecipativa, non identificandola con la sola condivisione ideologica, dall’altro, però, finisce con l’individuare come rilevanti condotte riconducibili alle fattispecie di parte speciale. Si rischia, in tal modo, come rilevato da attenta dottrina, di violare il principio di materialità perché il discrimine tra semplice condotta specifica e partecipazione finisce con l’essere l’adesione psicologica.
Per tale motivo una parte della dottrina garantista, critica questa giurisprudenza rilevando che finisce con lo sfociare direttamente o indirettamente in un modello di diritto penale d’autore, incentrato più sull’atteggiamento psicologico che su di una condotta di materiale di partecipazione. Anche perché non si richiede la stabilità del vincolo associativo, ma ci si accontenta anche di contatti isolati e sporadici. Il che, come chiarito, comporta una possibile violazione della materialità e dell’offensività della condotta. La sentenza, dunque, cerca di essere garantista ritenendo non sufficienti adesioni in incertam persona e considerando necessaria la conoscenza, anche indiretta, da parte dell’organizzazione madre ma, comunque, appare non del tutto in linea con i principi costituzionali.
Per evitare la violazione del principio di offensività la Corte di Cassazione fa leva sull’offensività in concreto. Secondo l’interpretazione giurisprudenziale dominante, il reato di associazione di cui all’art. 270 bis c.p. è un reato a pericolo astratto o presunto. Nei reati a pericolo presunto o astratto, a differenza di quanto avviene per i reati di pericolo concreto, il legislatore si limita ad incriminare una determinata condotta in base ad un giudizio di ragionevolezza condotto secondo l’id quod plerumque accidit , cioè che secondo leggi scientifiche o massime di esperienza. Quindi, la condotta è incriminata in considerazione delle sue caratteristiche astratte di pericolosità, senza che il legislatore attribuisca all’interprete il compito di verificare se in quel caso specifico la pericolosità astratta si traduca in un pericolo concreto. La Corte di Cassazione[7], per evitare violazioni del principio di offensività, chiarisce che è vero che il reato associativo di cui all’art. 270 bis c.p. è di pericolo astratto o presunto, per cui basta la idoneità generale ed astratta della condotta a porre in pericolo il bene protetto, ma il giudice è tenuto a verificare che quella pericolosità astratta sia in qualche modo effettiva anche nel caso concreto e, cioè, è tenuto a verificare l’offensività in concreto. Come chiarito, infatti, dalla Corte Costituzionale[8], il principio di offensività ha un duplice ambito applicativo. Esso, invero, da una parte è indirizzato al legislatore che è tenuto a costruire fattispecie di reato fondate su di una lesione o di una esposizione al pericolo effettivo dei beni giuridici protetti, ma, dall’altra, è un criterio interpretativo rivolto al giudice. Quest’ultimo, infatti, deve escludere dall’area del penalmente rilevante quelle condotte che si rivelano in concreto del tutto prive di offensività. Il problema rilevato da parte della dottrina è che nelle fattispecie di pericolo astratto è difficile verificare la pericolosità in concreto ed è per questo che il legislatore le costruisce in tal modo. E’ una pericolosità che rimane sempre in astratto ma la giurisprudenza cerca, per tale via, di non attribuire rilevanza penale a contributi puramente mentali. Si rileva, però, come, nonostante gli sforzi interpretativi, non è detto che seguendo tale interpretazione la condotta partecipativa acquisti un effettivo spessore materiale tangibile.
In alcune pronunce[9], infatti, la giurisprudenza ha affermato che “ è necessaria una condotta del singolo che si innesti in una struttura organizzativa che per struttura e idoneità abbia un grado di effettività tale da essere compatibile con il principio di offensività, e quindi tale da rendere almeno possibile l’attuazione del programma criminoso. Mentre non è necessaria anche la predisposizione di un programma di attività terroristica.” Si è rilevato, dunque, che per esservi responsabilità penale è necessaria la dimostrazione dell’effettivo inserimento nella struttura organizzativa attraverso condotte sintomatiche consistenti, però, anche solo nello svolgimento di attività preparatorie rispetto all’ esecuzione del programma oppure nell’assunzione di un ruolo concreto nell’organigramma. Per tale motivo la partecipazione può concretizzarsi anche in condotte strumentali e di supporto logistico alle attività dell’associazione che, però, rivelino in maniera inequivoca l’inserimento del soggetto nell’organizzazione[10]. E tale apprezzamento è rimesso al giudice del caso concreto. La condotta del singolo deve innestarsi nella struttura. E’ necessario che esista un legame biunivoco concreto e consapevole tra la struttura e il singolo.
3. Conclusioni
La giurisprudenza, dunque, si è sforzata di trovare un compromesso ragionevole tra l’obiettivo di incriminare la mera adesione ideologica al sodalizio criminoso e l’esigenza di dare alla condotta di partecipazione uno spessore materiale e offensivo il più possibile compatibile con il principio di offensività. Parte della dottrina, però, rileva come nel tentativo di realizzare questo compromesso, non riesce a proporre un concetto soddisfacente di partecipazione veramente in linea con il principio di offensività. Essendo comprensibile l’allarme sociale destato dal fenomeno e per evitare l’impunità di quei soggetti la cui condotta non assurge ad effettiva partecipazione, si individua come soluzione quella di ricorrere alle misure di prevenzione o alle fattispecie accessorie di parte speciale. Qualificare partecipi i soggetti, in base a tali approdi giurisprudenziali significa, infatti, secondo tale dottrina, ampliare eccessivamente il dato normativo e in maniera difforme rispetto ai principi costituzionali fondamentali.
[1] tra le altre cfr. Cass., SS.UU. 12 luglio 2005 n. 33748
[2] Cass., SS.UU. 12 luglio 2005 n. 33748
[3] Cassazione Penale, Sez. II, 31 maggio 2017 (ud. 10 maggio 2017), n. 27394
[4] G. De Francesco, l’estensione delle forme di partecipazione al reato: uno sguardo sistematico su alcune recenti proposte in tema di criminalità organizzata, Ind. Pen.2009, 3, 398
[5] Cass., Sez V, 13 luglio 2017, n. 50189
[6] Cfr. Cass., Sez VI, 23 febbraio 2018 n. 40348 e Cass., Sez. VI, 19 dicembre 2017, n. 14503
[7] Cass., Sez I, 28 marzo 2017, n. 44850
[8] Corte Costituzionale n. 360/1995
[9] Cass., n. 51218 del 2018
[10] Cass., , Sez II, 21 febbraio 2017, n. 25452
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Avv. Olga Paola Greco
Avvocato presso la Corte d'appello di Napoli, si occupa di diritto penale e di diritto civile. E' autrice di numerosi articoli di contenuto scientifico.
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