Pari opportunità e legge elettorale: quali prospettive?
La prima seduta del Consiglio regionale del 15 novembre 2021 ha dato avvio all’apertura della XII legislatura regionale in Calabria: si è aperta una nuova stagione politica con la presenza femminile di 6 consigliere ad occupare gli scranni di palazzo Campanella. Dopo anni in cui si è dovuto far fronte all’incapacità della politica regionale di intervenire sul tema della rappresentanza paritaria, per la prima volta si è votato con una legge elettorale adeguata al quadro normativo vigente in materia di rappresentanza di genere.
Nel 2010 la Calabria conosce una composizione consiliare tutta al maschile, con 50 consiglieri uomini su 50; nel 2014 su 30 consiglieri regionali, solo una è donna; nel 2019 Jole Santelli è la prima donna a ricoprire il ruolo di Presidente della Giunta ma anche stavolta in Consiglio Regionale la presenza femminile è in proporzione 2 su 30.
L’assenza della rappresentanza femminile nei luoghi decisionali ha evidenti ricadute sulle risposte ai bisogni della società: un esempio concreto riguarda la vicenda della tampon tax: nel 2019 la Tesoreria dello Stato, quantificando le coperture necessarie per abbassare l’aliquota IVA dal 22 al 10% sui prodotti igienici femminili, le aveva sovrastimate, non tenendo in considerazione la frequenza né la varietà di utilizzo dei prodotti igienico-sanitari femminili. Appare evidente che i principi di pari opportunità e rappresentatività in una società in continua evoluzione sono il cardine del costituzionalismo democratico e dello Stato sociale: è possibile dare le risposte giuste a determinati bisogni solo quando si conoscono le domande.
La storia del riconoscimento alle donne dell’elettorato attivo e passivo è attraversata da ideologie politiche, leggi, sentenze che più o meno incisivamente si sono scontrate con i rigidi valori della tradizione, che definivano staticamente i ruoli sociali e relegavano la donna all’ambiente domestico. Mazzini, criticando il conservatorismo della Camera dei Deputati di fine Ottocento, scrisse che sperare di ottenere conquiste in tema di eguaglianza dalla Camera, in quel modo costituita, e dalla monarchia sarebbe stato come se “i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù”. Il regio decreto n. 164 del 4 maggio 1898 aveva infatti rifiutato il voto amministrativo a “analfabeti, interdetti, inabilitati, condannati all’ergastolo, mendicanti e donne”.
Le istanze femministe, “figlie non volute” della Rivoluzione Francese che aveva invocato diritti di libertà e di eguaglianza per tutti ad esclusione delle donne (interessante è la rilettura critica della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino di Olympe de Gouges: La Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina), erano del tutto invisibili alla società del tempo.
L’ingresso in sede giudiziaria della questione sull’elettorato femminile avvenne nel 1906: su spinta di intellettuali del rango di Maria Montessori, gruppi di donne avanzarono la pretesa di iscriversi alle liste elettorali. Alcune commissioni elettorali accolsero questa richiesta, che venne però bocciata dalle rispettive competenti Corti d’Appello, tranne una, la Corte di Appello di Ancona, dove il presidente Ludovico Mortara scrisse una sentenza a suo tempo eversiva. Accogliendo l’istanza di iscrizione alle liste elettorali di dieci donne segnò la storia del diritto di voto femminile. Mortara si espresse con rigore scientifico sulla questione. La sua interpretazione della legge conteneva una carica innovatrice che, tuttavia, fu resa nulla in sede di giudizio di legittimità: la Corte di Cassazione sancì che “il diritto di elettorato trova per le donne un ostacolo non in ciò che la legge dice, ma secondo quello che alla legge si è voluto far dire, secondo la prassi inveterata nel tempo e affermata come una consuetudine di diritto pubblico”.
Nel 1911, anno della riforma elettorale voluta da Giolitti, venne esteso il diritto di voto a suffragio universale maschile, con il conseguente aumento in Parlamento di socialisti e cattolici. Le donne furono ancora una volta escluse. Le ragioni, stavolta, erano prettamente politiche: il voto di sei milioni di donne era considerato, a detta dello stesso Giolitti, “un salto nel buio”.
Nonostante alcune spinte innovatrici, come quella del Partito Popolare di Don Sturzo e numerosi tentativi approvare la legge sul suffragio femminile, tutti naufragati in un nulla di fatto, di “voto alle signore” si tornò a parlare nel 1925. Mussolini sancì, riconoscendo l’introduzione delle donne alla vita sociale del paese (nel solo interesse di quest’ultimo) l’ammissione di alcune categorie di donne all’elettorato amministrativo. Tuttavia, quel risicato 2% di donne ammesse alla tornata elettorale dell’aprile 1926 a Bologna non riuscì a infilare la scheda nell’urna: di lì a poco vennero aboliti gli organi rappresentativi degli enti locali, con l’istituzione dei podestà di nomina regia. Annullati i turni elettorali, ebbe inizio una vera e propria offensiva verso i diritti delle donne, che partiva dalle scuole, dove sui quaderni delle Piccole Italiane campeggiava la scritta: “la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo“.
Il voto alle donne fu ufficialmente riconosciuto, su proposta di De Gasperi e Togliatti, con decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1945 e poi con il decreto n. 74 del 1946 sulla elezione dell’Assemblea costituente. Furono proprio le donne della Costituente ad elaborare e introdurre il principio di parità in tutti i settori più rilevanti dell’ordinamento: fu sui temi del voto, rappresentanza politica e partecipazione agli uffici pubblici che emersero i maggiori contrasti (famosa è la sentenza n. 33 del 1960 con cui la Corte dichiarò l’incostituzionalità della legge che escludeva l’accesso alle donne dai pubblici uffici che comportavano l’esercizio di potestà politiche).
A quasi più di mezzo secolo dal suffragio universale, è rimasto modesto il dato percentuale delle donne nelle Assemblee elettive. Proprio questa consapevolezza ha spinto il legislatore, anche su impulso del diritto comunitario, a introdurre, nel nostro ordinamento le cd. azioni positive, con lo scopo di riequilibrare tale situazione di svantaggio femminile, in tema di lavoro, impresa e cariche elettive.
Il dibattito in dottrina si è sviluppato sull’ammissibilità di queste misure in materia elettorale. Inizialmente la Corte con la sentenza n. 422 del 1995 bocciò le misure antidiscriminatorie adottate con la legge sulle elezioni amministrative n. 81 del 1993. Secondo la Corte, infatti, tali misure avrebbero introdotto il concetto di “rappresentanza dei sessi”: tale affermazione partiva dal presupposto che il concetto di rappresentanza, inteso come tutela degli interessi di un gruppo, così come il concetto di democrazia, inteso come controllo del popolo sul potere del governo, siano concetti slegati dal sesso. Si sanciva pertanto “l’irrilevanza giuridica del sesso” in ambito elettorale e si riteneva che la previsione di una quota con cui imporre una particolare composizione delle liste rappresentasse una forma di discriminazione: una “discriminazione attuale come rimedio a discriminazioni passate”.
In realtà si può affermare che le quote siano riservate al sesso femminile non in quanto gruppo di interesse (“che si ritiene svantaggiato”) ma in quanto manifestazione della persona umana, che a sua volta può rientrare nei singoli gruppi di interesse. Secondo le prime pronunce della Corte, pertanto, in materia elettorale doveva essere rigidamente rispettato il principio dell’eguaglianza formale, onde evitare di falsare l’idea di rappresentanza politica strettamente intesa, attribuendo ad un gruppo un vantaggio nel risultato dell’elezione non più conseguente alla libera competizione elettorale.
Il dibattito sul tema, che ha coinvolto il tessuto sociale e i partiti, è scaturito nel 2003 in due interventi di revisione della Carta Costituzionale: il primo, di integrazione dell’art. 51, il quale ha sancito che al fine di favorire condizioni di eguaglianza nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne e uomini”. E il secondo che ha affidato al legislatore regionale il compito di rimuovere ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne, con particolare riferimento alle cariche elettive (art. 117 c. 7 Cost.). Le successive pronunce della stessa Corte Costituzionale, in netto contrasto con l’impianto interpretativo degli anni precedenti, seguono questo filo riformatore, come emerge dalla sentenza n. 49 del 2003. La Corte Costituzionale mette in risalto la funzione riequilibratrice e non discriminatoria della doppia preferenza di genere, responsabilizzando i partiti nella formazione della classe dirigente e nella presentazione delle liste e sancendo al contempo la sacralità della “libera scelta degli elettori”. Le leggi elettorali, sia nazionali che regionali che si sono via via susseguite hanno più o meno marcatamente tutelato l’equilibrio di genere.
Quanto emerso negli anni è la dimostrazione che la legge elettorale perfetta non esiste, e che le difficoltà nel bilanciamento dell’art. 51 e del principio di rappresentatività sono concrete. Come dimostrato dall’esempio calabrese, da cui prende avvio l’analisi fin qui condotta, è evidente che nel contesto socio culturale in cui viviamo, le “forzature” in fatto di quote e rappresentanza siano imprescindibili. Il modello maschile, in particolare negli ambiti decisionali, appare ancora quello dominante. Non è un caso se, guardando alle recenti statistiche, ci accorgiamo che la crescita femminile è maggiore nelle posizioni cui si accede per concorso: ciò che per l’uomo è destino, per la donna è conquista.
Ancora oggi, nel 2021, stereotipi striscianti condizionano carriere, licenziamenti, scelte, performance: “think manager think male” è lo strascico di una cultura patriarcale e retrograda, che vede l’uomo come unico e solo modello di leader. Il percorso di costruzione di un modello equilibrato di rappresentanza di genere non è ancora terminato. Le azioni positive hanno il vantaggio, in qualche misura, di condizionare l’atteggiamento sia degli uomini che delle donne sul tema delle disuguaglianza di genere. Queste, temporaneamente, possono “facilitare” la partecipazione ed instillare, mediaticamente e culturalmente, una nuova concezione di rappresentanza e di leadership.
Ma al di là di tali strumenti (è attualmente in corso la discussione sulla modifica e integrazione del codice delle pari opportunità, il d.lgs. 198/2006) è importante considerare che la partita della parità di genere, concreta espressione dei diritti di libertà di ciascuno, si gioca sul campo dei diritti sociali: riforme e investimenti strutturali sul welfare pubblico consentono alle donne di avere più tempo per il lavoro e l’occupazione. Declinare il concetto di “cura” non più esclusivamente al femminile, è la strada per colmare il gap di genere e garantire la costruzione di una società inclusiva, in cui uomini e donne possano liberamente manifestare la propria personalità.
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Mariagrazia Bevacqua
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