Parità di genere e non discriminazione in ambito lavorativo

Parità di genere e non discriminazione in ambito lavorativo

Sommario: 1. Un diritto europeo e nazionale – 2. Parità retributiva – 3. Dignità personale, discriminazioni e mobbing – 4. Parità delle condizioni di lavoro

 

1. Un diritto europeo e nazionale

La parità di genere rappresenta una tra le più grandi conquiste raggiunte dalle società. Fino al secolo scorso, la donna era ritenuta inferiore rispetto all’uomo, ed obbligata a restare a casa, occupandosi delle mansioni domestiche. L’uomo invece, era colui che andava a lavoro e si occupava delle principali questioni inerenti alla famiglia. All’epoca era quasi impossibile immaginare una donna impegnata in un contesto lavorativo, ricoprendo perfino ruoli preminenti nel contesto sociale.

Con il trascorrere degli anni gli uomini e le donne si sono invece trovati a lavorare fianco a fianco. È quindi possibile affermare che c’è veramente stata una vera evoluzione nel ruolo della donna nella società, ed un’effettiva attuazione del principio di uguaglianza sostanziale  sancito a livello Costituzionale dall’articolo 3.

Il principio di non discriminazione e di parità di genere,  applicato al diritto del lavoro trova una regolamentazione non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo, mediante direttive e pronunce della Corte di Giustizia, che successivamente trovano applicazione nelle legislazioni dei paesi membri mediante leggi o decreti di attuazione. Infatti con la nascita dell’Unione Europea, è divenuta sempre più urgente la necessità di creare un quadro normativo atto a tutelare la parità di genere e contrastare le discriminazioni tramite un apparato legislativo uniforme tra gli Stati membri.  

Il primo intervento normativo europeo si può riscontrare nell’art. 119 del Trattato Originario, che interveniva sulla parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici. Tuttavia, sarà solo dalla seconda metà degli anni Settanta che la comunità europea produrrà una serie di direttive con lo scopo di rendere concreto il progetto di parità di genere e non discriminazione. Tra i primi atti possono essere citate: la direttiva 75/177 del 1975 (sempre in tema di eguale retribuzione indistintamente se il lavoratore è uomo o donna), la direttiva 76/207 del 1976 (sulla parità di accesso al lavoro) e la direttiva 79/7 del 1978 (relativa alla parità in ambito di sicurezza sociale). Nel corso del tempo tali direttive sono state poi ampliate, modificate e accorpate alle successive con l’intento di rendere, con il progredire delle società, sempre più attuale ed unitario l’ambito di tutela in questione. 

Con l’inizio del nuovo secolo (rispettivamente il 29 giugno del 2000 ed il 27 novembre dello stesso anno) il confine delle pari opportunità si allarga a seguito di altre due direttive: la 2000/43 (attuata nel nostro ordinamento interno con il D.lgs 9/7/2003 n° 215) e la 2000/78 (attuata in Italia mediante D.lgs 9/7/2003 n° 216) andando a lambire temi quali la parità ed il divieto di discriminazioni sulla razza, la religione e le tendenze sessuali. 

Nel 2006, tramite Decreto legislativo (198/2006) in Italia viene approvato il codice delle pari opportunità con lo scopo di rimuovere le discriminazioni in ogni ambito della vita di un soggetto compreso l’ambito lavorativo, il quale occupa gran parte della vita delle persone, le quali hanno il diritto ad essere tutelate e di poter essere trattate tutte allo stesso modo senza alcuna disuguaglianza. 

2. Parità retributiva

Uno dei principi tramite il quale è possibile eliminare una fattispecie discriminatoria in ambito lavorativo, è mediante il riconoscimento della stessa retribuzione per lo svolgimento di un lavoro nel medesimo settore, indistintamente se questo è svolto da un uomo o da una donna. 

La retribuzione viene considerata la necessaria obbligazione cui è sottoposto un datore di lavoro nei confronti dei “suoi” lavoratori. Le basi normative possono essere reperite nell’art. 2094 e 2099 del codice civile, nella contrattazione collettiva, la quale ad oggi è un solido punto di riferimento in termini di tutele per i lavoratori i quali rappresentano la posizione contraente più debole, e nell’art. 36 della nostra Costituzione, la quale pone l’attenzione anche sul criterio di retribuzione, che deve essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato. Viene inoltre enunciato che la retribuzione deve concedere la possibilità di mantenere uno stile di vita decoroso per il lavoratore stesso e per la sua famiglia. 

Esiste una correlazione tra  l’art. 2099 c.c. e l’art. 36 Cost., in quanto l’articolo 2099 (nello specifico il secondo comma) è funzionale all’art. 36 Cost. in quanto esso è atto a rendere attuabili i parametri di proporzionale retribuzione delineati dalla norma costituzionale mediante anche la determinazione  ad opera del giudice su quanto il lavoratore ha diritto a percepire (per il lavoro prestato e la qualità dell’attività medesima). 

In merito a ciò è inevitabile citare la sentenza della Corte di Cassazione n° 24449 del 30/11/2016. In tale pronuncia viene riconosciuto ad una lavoratrice (a seguito di pronuncia giurisprudenziale) l’adeguamento della propria retribuzione in relazione alla forza (fisica) che doveva impiegare nel lavoro e alla necessità di avere per lei e la sua famiglia un’esistenza dignitosa. A pieno vengono quindi a combinarsi le interpretazioni dei parametri dall’art 36 della Costituzione e il secondo comma dell’art. 2099 del Codice Civile dove dispone che il giudice può determinare la retribuzione, in mancanza di accordo tra le parti (datore e lavoratore).    

A livello sovranazionale, la direttiva 75/117 successivamente ricompresa nella più recente 2006/54, sancisce  che le norme, i contratti ed i regolamenti che presentano caratteristiche discriminatorie sono sanzionabili con la nullità, per prevenire quanto prima anche una disparità salariale laddove fosse presente. 

Intorno alla direttiva sopra citata ed all’art. 157 TFUE si accosta una considerevole produzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, ma in particolare, è doveroso fare riferimento alla pronuncia del 31/03/1981 causa 96/80, dove la Corte ancor prima del definitivo intervento del legislatore, iniziava a porre una linea guida sul delicato ambito delle parità e della discriminazione. In particolare viene trattato il tema delle discriminazioni indirette, e fra le più frequenti quelle relative al part-time. La sentenza focalizza l’attenzione sull’interpretazione dell’art.119 (Trattato Originario,) stabilendo che vi è disparità di retribuzione tra i generi laddove il datore di lavoro elargisca un salario differente per i lavoratori addetti alle stesse mansioni e con lo stesso orario giornaliero. Pertanto la corresponsione di una paga differente dovuta a orari diversi di lavoro (tempo pieno o ridotto) non costituisce una violazione del principio (retributivo) in merito alla parità.  

Vi sarebbe violazione laddove il lavoro a tempo ridotto venisse utilizzato come mezzo di discriminazione indiretto, impiegando per esempio, la maggior parte le donne in tale orario e conferendole quindi uno stipendio più basso rispetto ai colleghi uomini adibiti a svolgere le proprie mansioni per l’intero orario lavorativo. 

Utilizzare entrambe le fasce orarie con la sola finalità economica non rappresenta pregiudizio, tenendo presente che ci deve essere una equa ripartizione dei lavoratori di entrambi i sessi.   

3. Dignità personale, discriminazioni e mobbing

Accade sempre più spesso, negli ambienti di lavoro, il verificarsi di comportamenti molesti e umilianti verso un lavoratore o una lavoratrice. Tali comportamenti vanno a ledere gravemente la dignità della persona e per tale motivo non possono non restare impuniti. 

Allo stesso tempo rappresentano non solo un danno psico fisico al soggetto che subisce, ma anche un grave elemento di discriminazione, in quanto di frequente tali molestie hanno uno scopo ricattatorio.

Benché non esista una norma specifica in ambito lavorativo che sanzioni tali condotte, i soggetti vittime di mobbing (così definito il fenomeno in questione dagli psicologi Herald Ege e Heinz Leymann, e prima ancora dall’etologo Konrad Lorenz), sono tutelati tramite norme già presenti nel nostro ordinamento a livello civile quanto in quello penale. In campo civilistico una tutela verso i comportamenti rappresentati come mobbing si possono cogliere nell’art. 2087 c.c., il quale specifica che una prima tutela è ad opera del datore di lavoro, il quale deve mettere in atto tutti gli accorgimenti necessari al fine di tutelare i lavoratori e la loro personalità morale, e conseguentemente preservare la loro dignità personale. Tuttavia non sempre accade ciò, in quanto i fenomeni di mobbing vengono posti in essere non solo dai lavoratori colleghi della vittima, ma anche dal datore medesimo. Infatti, il mobbing è stato rappresentato dividendolo in due classificazioni: il mobbing orizzontale ed il mobbing verticale. Il primo, è la rappresentazioni di comportamenti attuati da lavoratori di pari grado; il mobbing verticale invece è quello del datore o da chi ricopre ruoli gerarchicamente superiori rispetto al lavoratore o alla lavoratrice vittima. Al fine quindi di ampliare le tutele nei confronti delle vittime, può essere fatto ricorso all’art. 2043 c.c. (sanzionando il venire meno dell’obbligo di non causare un danno ingiusto ad altrui soggetto), ed agli articoli dell’ordinamento penale: nello specifico gli art. 323 c.p., 582 e 583 c.p., 609 c.p., 612 c.p., i quali cercano di incriminare il mobber laddove il comportamento rientri in uno dei reati previsti dai citati articoli del codice penale.

Di notevole impatto è anche la legislazione dell’Unione Europea, la quale ha realizzato una serie di direttive atte a tutelare la dignità della persona e  reprimere il fenomeno delle molestie e delle molestie sessuali nel contesto lavorativo. Per fare ciò, la comunità europea ha seguito le esperienze già consolidate di Paesi come il Canada, l’Australia e Gli Stati Uniti d’America. Peculiare attenzione verrà posta dalla comunità europea sulla condanna alle molestie. Ciò, verrà rappresentato dall’Unione europea nelle direttive n°43 e n°78 del 2000. All’interno di queste, oltre a raffigurare la condanna per tali comportamenti, viene anche stabilito che le molestie rientrano nella classificazione dei fenomeni discriminatori, e nello specifico per quel che riguarda il ricatto sessuale laddove vi sia un trattamento meno favorevole nei confronti della vittima a seguito di un rifiuto ad un gesto sgradito di matrice sessuale.

Tale fattispecie (del ricatto sessuale) è stata resa attuabile nel nostro ordinamento mediante il D.lgs n°5 del 25/01/2010.  

Oltre ciò, più in generale, qualsiasi molestia che il lavoratore o la lavoratrice subisce sono una grave lesione della propria dignità come conseguenza degli effetti che ricadono sulla persona stessa. È da considerare anche un altro fattore: il clima (ostile, degradante ed imbarazzante) che può venire  a crearsi nell’ambiente in cui il soggetto quotidianamente va a svolgere la propria attività. 

4. Parità delle condizioni di lavoro

Quando viene richiamata la parità delle condizioni lavorative, viene preso in esame il principio di pari opportunità dell’accesso al lavoro, della formazione del lavoratore, dei regimi pensionistici, degli avanzamenti di carriera, e della conclusione del rapporto di lavoro. È possibile quindi affermare che il legislatore ha cercato di creare una legislazione paritaria che andasse a lambire ogni momento della vita del lavoratore all’interno dell’azienda e vi fossero le stesse opportunità indistintamente dal genere. Tutto ciò è reso fattibile sia nel lavoro subordinato che in quello autonomo (grazie all’attuale direttiva n° 2010/41 e antecedentemente alla direttiva n° 86/613). 

Si parla spesso della condizione lavorativa delle donne in quanto sono state loro, nel corso della storia, ad essere sempre trattate con inferiorità. Tuttavia una prima grande svolta si può trovare nel diritto interno facendo riferimento all’art. 37 della Costituzione. Tale articolo può rappresentare la conclusione di questo trattamento inferiore, in quanto esprime il riconoscimento alle donne lavoratrici gli stessi diritti che da sempre hanno goduto gli uomini. Le donne non dovranno più sopportare condizioni di svantaggio, ma al pari degli uomini potranno essere indipendenti e frequentare un ambiente lavorativo dove non siano discriminate per il semplice fatto di essere donne. Tale articolo assume una connotazione di particolare rilevanza laddove viene sancito che il lavoro, cui la lavoratrice è impiegata, deve permetterle anche in piena autonomia di adempiere alle proprie attività familiari, ed avere la possibilità (senza alcuna ritorsione, come un licenziamento) di prendersi cura del proprio figlio, e se necessario potersi anche allontanare dal lavoro per il periodo necessario alla cura del bambino. Infatti, lo stesso articolo 37, ancora prima di ricorrere alla legislazione sulla maternità, attribuisce una tutela maggiore alla madre lavoratrice, specificando che ad essa deve essere sostanzialmente riconosciuta un’adeguata protezione. 

Da sempre il tema della maternità ha rappresentato una forte disparità di genere delle condizioni lavorative, benché il legislatore cerchi di porre un argine alle discriminazioni legate a tale fenomeno. Nello specifico può essere fatto riferimento alla legge 300/1971.

Allo stesso tempo, anche a livello comunitario è intervenuta la Corte di Giustizia, ed in tale contesto è necessario menzionare le sentenze: C-177/88, C-179/88, C-438/99, C-109/00, dalle cui pronunce è possibile notare una linea comune per quel che riguarda la tutela offerta alle donne, infatti, le sentenze citate pongono l’attenzione sul fatto che è discriminatorio e dannoso (alla lavoratrice e di conseguenza alla sua famiglia) licenziare o non rinnovare un contratto lavorativo solo perché è in stato di gravidanza. Oltre ciò, è parimenti denigratorio non assumere una donna nel suddetto stato.

La tutela offerta si allarga anche alle madri adottanti, in particolare nel primo anno dall’ingresso del minore nel nuovo nucleo familiare. 

Le condizioni di lavoro, in cui le lavoratrici andranno a svolgere le proprie mansioni, sono ad oggi ampiamente protette, grazie alla legislazione interna, ma anche per merito della continua attività legislativa e giurisprudenziale dell’Unione Europea.


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