Parole denigratorie ed emoji nelle chat tra colleghi: licenziamento legittimo?
L’uso delle emoji, sebbene non disciplinato dalla legge, può rivelarsi un parametro utile per i giudici ai fini di una assoluzione o condanna. Ne sono consapevoli alcuni utenti che a causa di alcune frasi pubblicate su Facebook, WhatsApp o altri sistemi di comunicazione di gruppo, si sono successivamente trovati ad affrontare la questione nell’ambito di veri e propri processi.
Il tribunale di Parma, con la sentenza n. 237 del 07 gennaio 2019, dichiarava illegittimo il licenziamento per giusta causa ai danni di una lavoratrice che accompagnava delle emoji alle frasi denigratorie nei riguardi del proprio datore di lavoro, smorzando così l’insulto e lasciando intuire un tono umoristico delle conversazioni. Il contesto può variare e rivelarsi scherzoso in base alle emoji utilizzate.
Invero, in alcune circostanze – ove per esempio si sia creato un clima di tensione tra lavoratore e datore – c’è in gioco la perdita del posto di lavoro, e quindi dello stipendio necessario per la propria sopravvivenza e della famiglia; in tali contesti, la giurisprudenza tende a “giustificare” le parole forti, trattandosi della salvaguardia dei propri diritti.
Diverso epilogo ha avuto invece un’altra pronuncia, emessa dal tribunale di Roma in data 12 marzo 2018, , n. 1859. In questo caso, è stato ritenuto di dover condannare un’insegnante che lamentava condotte vessatorie da parte del datore di lavoro. Nel caso di specie, si evinceva (nelle precedenti chat) tra la lavoratrice e il suo capo, un linguaggio cortese e familiare. La faccina che manda un bacio, per esempio, non è certo indice di un clima di tensione. Tuttavia i successivi messaggi inviati dalla stessa, sono stati ritenuti dettati dallo scopo di diffamare.
A riguardo, suscita ancora interesse una recente sentenza in cui si è ritenuto illegittimo il licenziamento di una lavoratrice che aveva scambiato con alcune colleghe – mediante gruppo WhatsApp – opinioni offensive nei confronti del datore di lavoro. Secondo il giudice, l’uso delle faccine denunciava un atteggiamento scherzoso e se si considera che per arrivare a una condanna penale non ci deve essere alcun «ragionevole dubbio» sulla colpevolezza dell’imputato, allora il senso delle singole parole può essere alterato dalle emoji a cui vengono accompagnate. Le stesse, per quanto denigratorie sembrino, possono essere dunque riconducibili ad un “diritto di critica” come nel succitato caso. A salvare la dipendente, quindi, in questo caso sono proprio le faccine che attenuerebbero la portata offensiva dei messaggi.
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Anna Guarnaccia
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