Pensione sociale: per usufruirne è irrilevante la rinuncia al contributo di mantenimento del coniuge

Pensione sociale: per usufruirne è irrilevante la rinuncia al contributo di mantenimento del coniuge

Corte di Appello di Roma, Sez. Lavoro, sent. 3  gennaio 2022, n. 4702

La Corte di Appello di Roma ha stabilito che ai fini della sussistenza del requisito reddituale per godere della prestazione assistenziale da c.d. pensione o assegno sociale, la scelta del richiedente di rinunciare di fatto alla corresponsione dell’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge non è di per sé idonea ad escludere la effettiva sussistenza di un obiettivo stato di bisogno e di carenza di fonti di reddito da parte dello stesso soggetto richiedente, cui deve aversi esclusivo riguardo.

 

Riflessioni e spunti critici di commento: il fondamentale ruolo assistenziale della pensione sociale

Con questa recentissima pronuncia i Giudici di appello romani intervengono, in maniera chiara e per certi versi possiamo dire anche decisa, a dirimere il contrasto, purtroppo ancora oggi frequente finanche nelle aule di giustizia, tra il cittadino richiedente il beneficio della pensione o assegno sociale per il suo conclamato stato di bisogno e l’ente erogatore INPS, quando tale contesto vada ad intrecciarsi con le vicende personali e familiari di crisi coniugale del primo.

La Corte, dunque, nel caso oggi in esame riforma integralmente la sentenza di primo grado con la quale era stato rigettato il ricorso volto ad ottenere il riconoscimento dell’assegno sociale in questione sul presupposto che non fosse stata provata la non sussistenza delle condizioni per l’ottenimento, da parte del coniuge della richiedente, del contributo di mantenimento tale da assicurare alla ricorrente le condizioni minime per non usufruire del beneficio sociale.

I primi Giudici, invero, avevano sostanziato la propria decisione sulla considerazione che il requisito prescritto dalla legge per ottenere l’assegno sociale, rinvenibile nel non superamento di un determinato limite reddituale, nel caso concreto fosse stato raggiunto unicamente per la volontà rinunciataria della stessa parte richiedente.

Come possiamo agevolmente notare, la posizione assunta dal Tribunale di Roma denota un atteggiamento eccessivamente “colpevolista” nei confronti della ricorrente che aveva formalizzato la propria separazione dal coniuge dinanzi all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune senza nulla disporre in merito alle condizioni economiche, stante lo stato di sovraindebitamento in cui versava lo stesso suo ex coniuge.

In definitiva, quindi, in questa perenne contrapposizione di vedute in ordine alla supremazia o meno dell’assistenza sociale rispetto a quella “privata” o “individuale”, ci si chiede se sia legittimo per l’Ente previdenziale sindacare i motivi per i quali il soggetto richiedente la pensione sociale non abbia ritenuto di pretendere dal coniuge l’assegno di mantenimento e se esso richiedente sia obbligato a far valere il proprio diritto al mantenimento prima di avanzare una tale richiesta di beneficio sociale ex Legge n. 335 del 1995.

Non si tratta, oltretutto, di questione di poco conto poiché è evidente come, al di là della specificità del caso concreto oggi esaminato e della particolarità della situazione di coniuge separato o divorziato del soggetto richiedente, se dovessimo ritenere plausibili e corretti sia i rilievi in proposito sollevati dall’INPS che, e soprattutto, la posizione del Tribunale di Roma arriveremmo all’assurdo di poter legittimare l’Ente erogatore alla disamina e valutazione di qualsivoglia ragione di credito spettante al soggetto richiedente ed alla possibile considerazione di queste ai fini del riconoscimento o meno del beneficio in parola.

La discutibile decisione amministrativa oggi assunta dall’INPS, peraltro, non costituisce un fatto isolato poiché, almeno per quanto ci è dato riscontrare, sembrerebbe rifarsi ad un indirizzo consolidato di altre sedi territoriali dell’Ente[1] in conformità, si badi bene, proprio di precise direttive della sede centrale dell’Istituto e sarebbe fondata, appunto, sul presupposto che il diritto all’assegno sociale avrebbe natura meramente sussidiaria e spetterebbe solo in mancanza di altre concrete e possibili fonti di reddito.

L’assioma, dunque, che pervicacemente persegue l’INPS ruoterebbe tutto intorno al concetto che la rinuncia all’assegno di mantenimento, ovvero la sua mancata richiesta sia pure in presenza di potenziali presupposti di fatto e di diritto, costituirebbe un automatico riconoscimento di autosufficienza economica, tale da escludere tout court la prestazione assistenziale pretesa.

In altre parole, in quella stretta connessione che l’Ente individua tra detto ultimo beneficio ed il diritto al contributo di mantenimento si finisce per imporre al soggetto che si trovi in stato di bisogno di pretendere il sostegno del coniuge obbligato prima di potersi rivolgere alla solidarietà generale.

Occorre anche dire, per completezza espositiva, che detta posizione dell’INPS, come del resto dimostrato anche dalla pronuncia del Primo Giudice ad essa favorevole, ha trovato appoggio anche in un orientamento, neanche tanto isolato, della giurisprudenza di merito, come è rilevabile, ad esempio, nella sentenza n. 1709 del 17.11.2017 del Tribunale di Torino con la quale è stato affermato che la rinuncia del coniuge al mantenimento periodico per ottenere la piena proprietà di un immobile di lusso, pur in assenza di altri redditi, dimostri la sua consapevolezza di far fronte alle proprie esigenze di vita unicamente attraverso il trasferimento di detta proprietà e di poter provvedere alle spese relative a tale immobile (mutuo, tasse, utenze), dato che altrimenti non avrebbe optato per tale soluzione.

La sentenza della Corte di Appello oggi in commento, invece, a nostro parere maggiormente condivisibile nei suoi presupposti e nelle conseguenti conclusioni, ci riporta in un contesto probatorio molto più rigoroso e, soprattutto, più rispondente al dettato normativo sopra riportato.

Ricordiamo, infatti, in proposito come questo emolumento, meglio conosciuto come la pensione sociale di cui all’art. 26 della Legge n. 153 del 1969, sia effettivamente una prestazione economica di assistenza sociale istituita dall’art. 3 commi 6 e 7 della menzionata Legge n. 335 del 1995 che testualmente così dispone: “Con effetto dal 1 gennaio 1996, in luogo della pensione sociale e delle relative maggiorazioni, ai cittadini italiani, residenti in Italia, che abbiano compiuto 65 anni e si trovino nelle condizioni reddituali di cui al presente comma è corrisposto un assegno di base non reversibile fino ad un ammontare annuo netto da imposta pari, per il 1996, a L. 6.240.000, denominato “assegno sociale”. Se il soggetto possiede redditi propri l’assegno è attribuito in misura ridotta fino a concorrenza dell’importo predetto, se non coniugato, ovvero fino al doppio del predetto importo, se coniugato, ivi computando il reddito del coniuge comprensivo dell’eventuale assegno sociale di cui il medesimo sia titolare. I successivi incrementi del reddito oltre il limite massimo danno luogo alla sospensione dell’assegno sociale. Il reddito è costituito dall’ammontare dei redditi coniugali, conseguibili nell’anno solare di riferimento. L’assegno è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti. Alla formazione del reddito concorrono i redditi, al netto dell’imposizione fiscale e contributiva, di qualsiasi natura, ivi compresi quelle esenti da imposte e quelli soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o ad imposta sostitutiva, nonché gli assegni alimentari corrisposti a norma del codice civile…”.

L’unico presupposto, dunque, cui ancorare il riconoscimento di detta prestazione è, per il legislatore, lo “stato di bisogno”, da accertarsi, in particolare, con riferimento esclusivo al possesso di redditi propri e/o del coniuge tali da non superare il limite massimo annualmente stabilito, come ribadito anche dalla Corte di Appello nella pronuncia oggi in commento.

I Giudici di appello, infatti, letteralmente sottolineano come in questi casi si debba “attribuire rilievo, ai fini del diritto rivendicato, in ragione del chiaro tenore letterale della norma (ove fa chiaro riferimento ai redditi “effettivamente percepiti” e agli assegni alimentari “corrisposti”) al solo dato oggettivo della mancata percezione di un reddito incompatibile, non essendo invece di ostacolo a tale fine né la mera potenzialità reddituale dell’interessato né le ragioni dell’insorgere in capo a quest’ultimo dello stato di bisogno” [2].

La Corte, quindi, “cristallizza” la situazione reddituale ed economica del soggetto richiedente al momento della presentazione della relativa istanza e soprattutto evidenzia la totale ininfluenza dell’eventuale rinuncia all’assegno di mantenimento, non ritenendola di per sé idonea ad escludere la effettiva sussistenza di un obiettivo stato di bisogno e di carenza di fonti di reddito.

E’ estremamente significativo, oltretutto, come nell’affermare ciò i Giudici di secondo grado richiamino anche la conforme giurisprudenza della Corte Suprema la quale, in tempi anche molto recenti, ha statuito che “Il diritto alla corresponsione dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della l. n. 335 del 1995, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dall’assenza di redditi o dall’insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, restando irrilevanti eventuali altri indici di autosufficienza economica o redditi potenziali, quali quelli derivanti dall’assegno di mantenimento che il titolare abbia omesso di richiedere al coniuge separato, e senza che tale mancata richiesta possa essere equiparata all’assenza di uno stato di bisogno” [3] spingendosi anche oltre nel precisare ulteriormente come non sia “previsto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole”.

La Corte di Cassazione, del resto, non è nuova ad orientamenti di tal genere sul tema, dal momento che già a suo tempo[4] essa, in  occasione di un giudizio avente ad oggetto la vicenda di un soggetto titolare, solo formalmente, di un assegno divorzile in realtà mai percepito per inadempimento del coniuge obbligato, ha evidenziato come il rigetto della richiesta di assegno sociale in questo caso contrasti apertamente con la vigente normativa che, appunto, nel primo periodo della seconda parte dell’art. 3 comma 6 della Legge 8 agosto 1995 n. 335 testualmente dispone: “L’assegno è erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti.

In questo contesto interpretativo, quindi, il messaggio univoco e conforme che viene veicolato, da ultimo anche dalla Corte di Appello di Roma, é unicamente quello della esclusività dell’elemento oggettivo e fattuale della situazione reddituale rispetto a qualsivoglia ulteriore elemento presuntivo o meramente potenziale che possa influenzare il delicato e complesso lavoro di valutazione comunque rimesso all’ente previdenziale, sia pure nella contemporanea necessità di non tralasciare mai le legittime, e talvolta quasi obbligate, incertezze e perplessità che possano sorgere in merito a dette richieste di assegno sociale.

Non dobbiamo, infatti, mai dimenticarci che questa importante conquista sociale rappresenta pur sempre una voce di spesa per la collettività di notevolissimo valore economico, data la enorme platea dei suoi beneficiari, per cui, come purtroppo accade quando si tratti di erogazione economica a carico di organi dello stato o di enti pubblici, il rischio di possibili abusi o di comportamenti fraudolenti è elevatissimo e questa circostanza non a caso non è sfuggita nemmeno ai giudici romani in questa occasione.

La Corte di Appello della capitale, invero, in un illuminante passaggio della sentenza oggi in commento dimostra l’attenzione prestata a questo triste, e frequente, fenomeno tutto italiano sottolineando come le proprie conclusioni siano ulteriormente confermate anche dal fatto che l’INPS non “ha, del resto, validamente dedotto o provato che tale scelta da parte dell’assistita sia stata il frutto di una preordinazione dolosa ovvero che la separazione non sia effettiva e che la predetta ed il coniuge continuino in realtà a condurre una regolare vita familiare”.

Si tratta, infatti, di una affermazione, evidentemente giunta a conclusione di una complessa attività di valutazione dei fatti e degli elementi probatori forniti dalle parti, che testimonia comunque la difficoltà e la delicatezza del compito, rimesso dalla legge all’Ente previdenziale, di gestione e corretta distribuzione di risorse della collettività, nel rispetto delle giuste e legittime rivendicazioni dei cittadini che mai possono essere pretermesse sulla base di semplici ed ipotetiche presunzioni.

Ancora una volta, dunque, la pronuncia oggi in commento si pone a baluardo del primato assoluto della legge ed a tutela di autentiche e reali situazioni di bisogno costituzionalmente garantite dall’art. 38 della Costituzione! [5]


[1] In un caso, ad esempio, la sede di Mascalucia nel settembre del 2019 aveva respinto l’istanza con la seguente motivazione: ” Le vigenti disposizioni in materia non consentono l’accoglimento di una prestazione assistenziale in presenza di variazioni dello stato patrimoniale, per Sentenza, Omologa, accordo presso lo Stato Civile, donazioni, compravendite o locazioni, effettuate dall’Istante in un breve lasso di tempo precedente la data della domanda; che nelle condizioni del ricorso, inoltre, i coniugi si dichiarano entrambi economicamente autosufficienti si da provvedere ciascuno al proprio mantenimento “
[2] Si tratta di posizione consolidata della Corte di Appello di Roma che si è già pronunciata in tal senso con le sue precedenti sentenze nn. 160/2016, 735/2018, 383/2019, 921/2019 e 240/2021
[3] Vedi Cass. Sesta Sezione lavoro – ord. n. 14513 del 09.07.2020 e, conforme, anche Cass. Prima Sezione – sent. n. 24954 del 15.09.2021
[4] Vedi sentenza n. 6570 del 18 marzo 2010
[5] In tal senso Cass. Civ. sent. n. 6570 del 2010

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Nata a Lecce nel 1963 e conseguita la Laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Siena con la votazione di 110/110, svolge da subito la pratica legale presso uno studio di Milano abilitandosi all’esercizio della professione forense nel 1991 e nello stesso anno diventa titolare dello studio già avviato dal padre Avv. Renato da cui eredita, oltre alle qualità umane, l’inclinazione per il Diritto Civile, operando prevalentemente in tutto il Salento. All’iniziale interesse per il Diritto di famiglia e dei minori si affianca l’approfondimento di altre branche del diritto privato, quali il Diritto Commerciale e la sicurezza sul lavoro, complice anche l’espletamento di ulteriori incarichi quali quelli di Giudice Conciliatore e di Mediatore Professionista. La sua attività professionale si estende nel tempo anche al campo dei diritti della persona e tutela degli stessi e l’acquisizione di una crescente esperienza in materia di privacy e sicurezza sul lavoro la incita ad incrementare l’impegno riposto nell’aggiornamento continuo. Particolare rilevanza assume anche lo svolgimento dell’attività di recupero crediti nell’interesse di privati e società, minuziosamente eseguita in ogni sua fase, nonché quella per la tutela del debitore con specifica attenzione alla nuova disciplina in materia di sovraindebitamento. Dal 1990 è docente di Scienze Giuridiche ed Economiche presso gli Istituti ed i Licei di Istruzione Superiore di Secondo Grado, attività che svolge con passione e che, per il tramite della continua interazione con le nuove e le vecchie generazioni, le agevola la comprensione dei casi e delle fattispecie a lei sottoposte, specie nell’ambito del diritto di famiglia. E’ socio membro di FEDERPRIVACY, la più accreditata, a livello nazionale, Associazione degli operatori in materia di privacy e Dpo. Dà voce al proprio pensiero per il tramite degli articoli pubblicati sul proprio sito - SLS – StudioLegaleSodo (www.studiolegalesodo.it) nonché attraverso i rispettivi canali social ( FaceBook e LinkedIn ) ed è autrice di vari articoli e note a sentenza su riviste telematiche del diritto di primario interesse nazionale.

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