Perché le imprese di investimento non vogliono essere “internalizzatore sistematico” per i derivati
In base alla definizione fornita da MiFID II/MiFIR, col termine internalizzatore sistematico si intende “un’impresa di investimento che in modo organizzato, frequente, sistematico e sostanziale negozia per conto proprio eseguendo gli ordini del cliente al di fuori di un mercato regolamentato, di un sistema multilaterale di negoziazione o di un sistema organizzato di negoziazione senza gestire un sistema multilaterale.”
Già con MiFID I gli internalizzatori sistematici era soggetti ai requisiti di trasparenza tipici delle sedi di negoziazione ufficialmente riconosciute dal legislatore, ma in questo contesto regolamentare spettava all’entità operante decidere se accettare o meno lo status di internalizzatore sistematico. Con MiFID II le soglie che determinano qualora un operatore rientri o meno in tale definizione sono decisamente più chiare e definite, e quindi nel caso una impresa di investimento ricada nello scopo della nuova direttiva, essa è tenuta a rispettare determinati requisiti in termini di trasparenza, reporting e best execution.
Le suddette soglie riguardano il soggetto giuridico nel suo complesso, ragione per cui le società sono tenute ad aggregare tutti gli scambi effettuati dalle proprie filiali in modo tale da determinare il livello degli indici di cui MiFID II richiede il calcolo, necessitando quindi di un’appropriata fonte di dati concernenti l’ammontare delle transazioni.
Ad oggi sembrerebbe che la maggior parte delle società di investimento non voglia venire classificata come internalizzatore sistematico, soprattutto nell’ambito degli strumenti derivati nel contesto della nuova MiFID II. Infatti possedere lo status di internalizzatore sistematico, così come previsto dalla MiFID II, in altri strumenti finanziari, come le azioni, può apportare benefici all’impresa di investimento, ottenendo un maggiore flusso di scambi, poiché le azioni devono necessariamente essere scambiate in un mercato regolamentato, in un sistema multilaterale o in un internalizzatore sistematico. Per quanto riguarda i derivati, questo sistema sembrerebbe però apportare più problemi che reali vantaggi. Alcune delle questioni chiave sono quella di definire se le società dovessero essere automaticamente considerate come internalizzatore sistematico o meno e quella concernente la soglia con cui fissare il confine. In merito a questi argomenti alcune chiarificazioni sono state proposte dall’ESMA sotto forma di Q&A ad ottobre.
Nonostante il nuovo sistema riguardante gli internalizzatori sistematici non entrerà in vigore ufficialmente fino a settembre 2018, è possibile aderire e conformarsi ai nuovi requisiti anticipatamente. Non sembra esserci consenso unanime su quante società di investimento provvederanno ad adeguarsi prima della deadline di settembre. Fino ad adesso solo Deutsche Bank, UBS e Nordea si sono ufficialmente registrate e diversi esperti ritengono sia improbabile che molti altri prenderanno la stessa decisione, essenzialmente perché non sembra ci sia un concreto e reale guadagno derivante da questo status. Infatti, questa adesione, oltre a garantire migliori servizi per i clienti, e quindi costi extra per le imprese di investimento, non sembra essere capace di generare profitti per le stesse.
Scegliendo di acquisire lo status di internalizzatore sistematico, una banca o un altro tipo di impresa di investimento assume obblighi di segnalazione e di reporting nei confronti dei propri clienti. Se le società non volessero acquisire in maniera anticipata tale status, possono invece offrire ai propri clienti delle segnalazioni assistite. Comunque è prevedibile che diverse società accetteranno di acquisire lo status, per non rischiare di perdere i propri clienti a favore di competitors capaci di garantire una maggiore tutela e trasparenza grazie all’applicazione dei nuovi principi in materia di internalizzatore sistematico.
In materia di strumenti derivati, l’ESMA ha formulato un approccio in parte diverso da quello adottato nei confronti delle altre classi di strumenti finanziari, definendo in maniera granulare le diverse categorie di prodotto, così come previsto dal regime di trasparenza delineato nella seconda norma tecnica di regolamentazione, emanata proprio da questa autorità europea. Ciò potrebbe potenzialmente implicare migliaia di categorie: una impresa di investimento può essere un internalizzatore sistematico per un particolare tipo di interest rate swap, ma non per un altro, per esempio uno con una differente scadenza. Questa struttura è diversa da quella in vigore per le obbligazioni, in cui se una società decide di ottenere lo status di internalizzatore sistematico, questo vige per tutti i tipi di strumenti obbligazionari.
La definizione e il livello di granularità richiesto sembrano però essere ancora poco chiari ed infatti, ad esempio, l’adesione di Deutsche Bank allo status di internalizzatore sistematico si riferisce esclusivamente alla sfera del fixed income e dei derivati, mentre Nordea ha specificato che si concentrerà solamente sui derivati sui tassi di interesse, in quanto considerati dalla banca gli strumenti a cui i propri clienti privati e istituzionali sono più interessati.
Nonostante il tentativo di chiarificazione fornito dall’ESMA, rimangono aperti diversi interrogativi. Benché le soglie per essere classificati come internalizzatore sistematico siano già state definite, sono comunque necessari altri dati, che presumibilmente non saranno però disponibili prima di agosto 2018. Quindi le società avranno poi soltanto un mese, fino al primo settembre, per analizzare i dati e definire se esse ricadano nella definizione di internalizzatore sistematico. Ad oggi quindi le società possono solo cercare di dedurre se verranno definite tali, esclusivamente basandosi sul volume di trading attuale.
Prima che l’ESMA emanasse le norme in materia, alcuni sostenevano che quando ci si trova davanti a una situazione in cui due imprese di investimento concludono affari tra di loro, nessuna delle controparti andrebbe categorizzata come cliente. Nella pratica comune infatti le due imprese non avrebbero visto la controparte come cliente, ma l’intero scambio sarebbe stato classificato come una situazione in cui due controparti qualificate intrattengono un flusso d’affari fra loro. In termini tecnici ciò significherebbe che questo tipo di scambio non sarebbe stato preso in considerazione al fine di determinare se un intermediario finanziario rientri o meno nella definizione di internalizzatore sistematico. In realtà l’ESMA si è spesa a ribadire che vi è comunque una forma di relazione con un cliente in tale transazione e quindi le società di investimento devono individuare questa componente. Ciò potenzialmente potrebbe portare a un numero di internalizzatori sistematici maggiore di quello originariamente preventivato e a uno sforzo considerevole per individuare esattamente chi svolge il ruolo di cliente negli scambi. In particolare nell’ambito degli strumenti derivati, generalmente la controparte che riceve la prestazione, piuttosto che quella che la paga, sarebbe il cliente e tecnicamente entrambe offrono un servizio di esecuzione, in quanto ci troviamo davanti a uno scambio bilaterale.
La possibilità di aderire alla normativa in maniera anticipata pone enormi sfide concernenti l’esatta definizione dei limiti e delle soglie cui fare riferimento, che si affiancano alla miriade di altri requisiti previsti da MiFID II. Inoltre per non perdere competitività, le società di investimento stanno cercando di prendere una decisione al più presto possibile, nonostante al momento non ci sia piena consapevolezza riguardante gli obblighi di trasparenza a cui vanno incontro.
Proprio gli obblighi di segnalazione e di reporting animano il dibattitto concernente lo status di internalizzatore sistematico in merito agli strumenti derivati. Il range di prodotti per cui gli internalizzatori sistematici devono fornire dati tende ad essere tra i più complessi nell’ambito del business gestito dalle diverse imprese di investimento, essendo le trading venues generalmente abituate ad avere a che fare con prodotti più standardizzati che si addicono al trading elettronico – nel contesto dei derivati, a qualcosa tipo “vanilla” i.e. derivati semplici. I prodotti scambiati dagli internalizzatori sistematici sono generalmente più complessi ed interessanti dei derivati semplici, come ad esempio una una qualche complessa ‘digital barrier option’ sulla FTSE100 contro il più elementare FTSE100. Essendo che il titolo sottostante il derivato è scambiato su una trading venue, anche su quella complicata opzione ricadono obblighi di reporting. Mentre si è facilmente in definire il FTSE100 abbastanza facilmente, non si può dire lo stesso per i complessi strumenti derivati.
Le implicazioni a lungo termine di questo nuovo regime non sono ancora chiare, ma ci si può aspettare più alti volumi di scambi on-venue, minore liquidità nel mercato in generale, e una maggiore pressione sui prezzi.
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Claudia Di Guardo
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