Post o commenti offensivi su Facebook: rischio di diffamazione aggravata

Post o commenti offensivi su Facebook: rischio di diffamazione aggravata

Ebbene sì: un commento o un post, scritto a mezzo Facebook per denigrare una persona ed offendere la sua reputazione, ben può comportare – a carico dell’autore – il reato di diffamazione.

Il suddetto reato è previsto e punito dall’art. 595 c.p.  ed è integrato, in virtù del com.1, allorquando chiunque, comunicando con più persone, offenda la reputazione di un soggetto non presente, che sia assente fisicamente o che non sia in grado di percepire l’offesa.

Ai fini della sua integrazione non è necessario l’animus diffamandi o denigrandi, quale l’intenzione di offendere l’altrui reputazione; è sufficiente, infatti, il mero dolo generico, cioè la volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza di offendere l’altrui reputazione (ex pluris: Cass. Sez.V, 5 giugno 1996 – 7 agosto 1996, n. 7713) nonché la volontà che la frase denigratoria sia portata a conoscenza di più persone (cfr.: Cass. Sez. V, 10 febbraio 2015 – 5 agosto 2015, n. 34178).

La reputazione che quivi subisce la lesione è da intendersi, non come “reputazione – considerazione che ciascuno ha di sé” bensì, quale senso della dignità personale di cui il soggetto gode nell’opinione altrui.

Con la suddetta fattispecie di reato, infatti, si anela a tutelare la stima diffusa di cui il soggetto gode nell’ambiente sociale, nonché l’opinione sociale che gli altri hanno del suo onore e decoro (cft.: Cass. Sez. V, 28 febbraio 1995 – 24 marzo 1995 n.3247).

Essendo questo l’intento del Legislatore di cui all’art. 595 c.p., lo stesso Legislatore ha previsto come circostanza aggravante del reato di diffamazione, oltre all’ipotesi in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato (com. 2), l’ipotesi in cui l’offesa sia recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (com. 3).

In tale ultima evenienza il delitto di cui si discorre è punito, infatti, con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516,00 (a fronte della pena della reclusione fino a un anno o della multa fino a euro 1.032,00 nell’ipotesi di cui al com. 1 dell’art. 595 c.p., nonché a fronte pena della reclusione fino a due anni ovvero della multa fino a euro 2.065,00 nell’ipotesi di cui al com. 2).

L’inasprimento della pena (in previsione della circostanza di cui al com. 3 dell’art. 595 c.p.) trova la propria ratio e logicità nella circostanza che – essendo l’offesa perpetrata a mezzo stampa o altro mezzo di pubblicità – il soggetto passivo di reato (rectius: il soggetto offeso) subisce una maggiore lesione in quel che è la propria reputazione stante la idoneità, la potenzialità e la capacità del mezzo adoperato per esplicare l’offesa di raggiungere una pluralità di persone, anche non individuate nello specifico, nonché in numero indeterminato.

All’uopo la giurisprudenza, in pluris occasioni, ha enfatizzato la circostanza secondo cui la diffusione di un messaggio con le modalità del social network Facebook ha, potenzialmente, la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone.

“La funzione principale della pubblicazione di un messaggio in una bacheca o anche in un profilo Facebook, infatti, è proprio la ‘condivisione’ di esso con gruppi più o meno ampi di persone; queste ultime, non a caso, hanno accesso a detto profilo che altrimenti non avrebbe neppure ragione di definirsi social (Cass., Sez.V, n. 40083/2018)”.

Sulla base della suddetta premessa è ormai principio consolidato – sia nella giurisprudenza di legittimità che in quella di merito – quello secondo cui la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., sotto il profilo dell’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità distinto dalla stampa, giacché costituisce condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone,  e comunque,  una cerchia ampia di soggetti nel caso di notizia riservata ai soli amici (cfr: Cass., Sez. I, 22/01/2014, n. 16712; Cass., Sez. V, n. 40083/2018; Cass. Sez. V, 14 novembre 2016 – 1 febbraio 2017, n. 4873; Cass., Sez. I, 22 gennaio 2014, dep. 16 aprile 2014, n. 16712; Cass., Sez. I, 28 aprile 2015, dep. 8 giugno 2015, n. 24431; Cass., Sez. V, 15 dicembre 2015, dep. 24 febbraio 2016, n. 7264; Trib. di Firenze, Sez. I, Sent. 18 giugno 2014; Cass. sent. n. 3963/2015).

Resta, tuttavia, una linea di confine tra l’offesa arrecata con la stampa e l’offesa arrecata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità distinto dalla suddetta stampa pur essendo entrambi i mezzi potenzialmente capaci di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.

La suddetta linea di confine si posa anche su quel che è l’attività di informazione che – nel caso del social network – non si qualifica “informazione professionale diretta al pubblico”, come avviene – invece – con il c.d. mezzo stampa (cfr.: Cass., Sez. V, sent. n. 4873 del 1 febbraio 2017; Cass., Sez. I, sentenza n. 24431 del 8 giugno 2015).

Certo è che la diffamazione attuata con commento o post offensivo può comportare conseguenze penali.

All’uopo si evidenzia che il reato non è escluso neppure laddove l’intento diffamatorio sia raggiunto mediante subdole allusioni o con l’utilizzo di espressioni dubitative.

Ricorre – infatti – il reato di diffamazione anche quando l’addebito sia espresso in forma tale da suscitare il semplice dubbio sulla condotta disonorevole (cfr.: Cass. Sez. V, 7 febbraio 1991 – 17 aprile 1991 n. 4384; Cass. Sez. VI, 19 ottobre 1979 – 23 febbraio 1980, n. 2768).

Neppure l’eventualità che la persona offesa sia fra i fruitori del messaggio consente di escludere il reato, o di mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria (ormai irrilevante quanto a responsabilità penale): cfr: Cass. Sez.V, sent. n. 40083/2018.

Ma vi è di più: il reato sussiste anche laddove il soggetto attivo del reato non menzioni – nel post – nome e cognome della persona a cui si riferiscono le offese e, tuttavia, questa ultima sia in qualche modo, comunque, individuabile da parte di talune persone.

Come enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione, infatti, ai fini della integrazione del reato di diffamazione, anche a mezzo di Internet, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa (Cass., Sez.I, sent. 22 gennaio – 16 aprile 2014, n. 16712).

Il reato, inoltre, sussiste – ad ogni effetto di Legge – anche nei confronti di colui che si limita ad aggiungere al post originale un successivo commento avente la medesima portata offensiva.

La condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook, per la idoneità del mezzo utilizzato, realizza – infatti – la pubblicizzazione e la diffusione del commento stesso, nonché la sua circolazione tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica (cfr.: Trib. di Campobasso, Sez. pen., sent. n. 396/2017).

Inde est quod anche la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia stata già compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni giacché gli elementi diffamatori aggiunti ben possono comportare una maggiore diminuzione (rectius: maggiore lesione) della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati (cfr.: Trib. di Campobasso, Sez. pen., sent. n. 396/2017; Cass. Sez.V, 47452 del 7 dicembre 2004).

Occorre, tuttavia, ricordare come, nonostante la sussistenza dell’offesa alla reputazione altrui, talvolta il reato di diffamazione non può dirsi sussistente.

Varie, infatti, sono le cause di non punibilità previste dalla legge ma tuttavia, per quanto concerne il discorso de quo, valore preminente va attribuita all’esimente della provocazione di cui all’art. 599 c.p..

La suddetta disposizione sancisce la non punibilità di chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dall’art. 595 c.p. nello stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

La giurisprudenza pertinente asserisce al riguardo che, ai fini del riconoscimento dell’esimente della provocazione nei delitti contro l’onore, non è necessario che la reazione venga attuata nello stesso momento in cui si riceve l’offesa, essendo sufficiente – sic et simpliciter – che la reazione abbia luogo finché duri lo stato d’ira suscitato dal fatto provocatorio (Cass., Sez. V, sent. n. 7244 del 24 febbraio 2016; Cass. Sez. I, 7 ottobre 2015 – 10 dicembre 2015, n. 48859).

L’immediatezza della reazione – a cui allude l’art. 599 c.p. – deve essere, id est, intesa come legame di interdipendenza tra reazione irata e fatto ingiusto subito, sicché il passaggio di un lasso di tempo considerevole può – comunque – assumere rilevanza al fine di escludere il rapporto causale (l’esimente) e riferire la reazione ad un sentimento differente, quale l’odio o il rancore (Cass., Sez. V, sent. n. 7244 del 24 febbraio 2016).

Il Legislatore, dunque, nel mondo del diritto penale, sfiorando il principio “lex videt iratum, iratus legem non videt (a tenore del quale “la legge tiene conto di chi ha agito in stato d’ira; chi è in stato d’ira non tiene conto della legge”)”, attribuisce rilevanza giuridica allo “stato d’ira” causato da un fatto ingiusto altrui – non solo  con l’art. 62 c.p. (ove il suddetto status assurge a circostanza attenuante comune), bensì anche – con il discorrendo art. 599 c.p. (ove, invece, si atteggia quale causa di esclusione della punibilità).


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Avv. Ilaria Parlato

L'AVV. ILARIA PARLATO fornisce assistenza legale in tutta l'Italia. Ha conseguito con profitto il Master di Alta Formazione Professionale in Criminologia e Psicopatologia Forense. È autrice di articoli in materia di Diritto Civile, Diritto di Procedura Civile, Diritto Penale e Diritto di Procedura Penale, pubblicati da riviste di pregiato valore nel mondo dell'avvocatura quali Salvis Juribus, Studio Cataldi, Altalex, Diritto.it e La legge per tutti. L'AVV. ILARIA PARLATO è, altresì, autrice del libro giuridico "Risarcimento del danno per violazione dei doveri coniugali in regime more uxorio", pubblicato – nell'anno 2016 - dalla Fondazione Mario Luzi, casa editrice avente la prerogativa di premiare il merito e gli autori più meritevoli. Contatti Avv. Ilaria Parlato: 342.58.21.731 - 333.68.18.643 Anche per WhatsApp. Pagina Facebook: Studio Legale Avv. Ilaria Parlato.

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