Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili

Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili

Uno Stato laico che si rispetti deve tener conto dei flussi migratori. Fino ad un passato non lontano, la omogeneità etnica del nostro sistema [1] e la conseguente monoculturalità del nostro tessuto sociale [2] rendevano i reati commessi per motivi culturali oggetto di indagini tutt’al più di taglio comparatistico, relative a realtà socio-giuridiche contrassegnate dalla presenza di consistenti minoranze etniche. Fa sicuramente scuola lo sviluppo della società statunitense che, ormai da molti decenni, fa i conti con gruppi ormai ben stabiliti di gruppi costituiti da minoranze, derivanti dai discendenti di coloro che furono importati negli States come schiavi (gli afroamericani ndr).

I reati coinvolti in tali procedimenti sono davvero assai numerosi, sebbene, come osserva Basile [3], riconducibili ad un numero chiuso di tipologie offensive. Tra i numerosissimi esempi offerti dagli Autori [4] si possono ricordare: le mutilazioni genitali femminili [5]; le condotte violente in ambiente domestico, come i maltrattamenti nei confronti dei minori e delle donne in attuazione di un’ancestrale concezione dello ius corrigendi; l’uso della violenza in funzione vendicativa di un torto subito, come nei casi delle ‘vendette di sangue’ motivate da una visione arcaica dell’onore; i comportamenti illeciti attinenti la sfera sessuale, come i rapporti con le minorenni, usuali nei contesti ove la maturazione psico-fisica delle fanciulle si considera raggiunta in verde età, o le violenze sessuali intraconiugali, ovvero ancora le ipotesi di ‘ratto a fine di matrimonio [6].

E’ opinione, ormai largamente condivisa che la possibilità che scatti una sanzione per punire una colpa del non sapere culturale costituisce una sconfitta perché si è semplicemente inceppato un circuito comunicativo tra gli individui e le istituzioni. [7]

Dobbiamo immaginare la legge come la punta di un iceberg, dietro tale legge vi sono una miriade di fattori, preconcetti che lo straniero probabilmente non conoscerà. E’ controproducente chiudersi nella propria cultura ed escludere chi non riesce a leggere la nostra “normalità” se si vuole davvero rispettare la caratteristica dell’elasticità delle norme che sappiano “reagire” ai continui cambiamenti e che non siano già troppo vecchie nel momento stesso in cui vengano scritte.

Anche in Europa il crescente flusso migratorio, ha portato a moltissime sentenze aventi ad oggetto reati culturalmente motivati. Anche qui, trattasi di categorie a “numero chiuso”, molto simili a quelle descritte da Basile a proposito del sistema giuridico statunitense, che lasciano fuori molte altre tipologie di reati come ad esempio i reati contro la personalità dello Stato o reati contro la Pubblica Amministrazione.

In Italia, La corte Costituzionale emanò una storica sentenza sull’art. 5 del codice penale che recita: -“Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”. Dicendo che: ” tra i doveri costituzionali dello Stato figura anche il dovere di formulare norme che possano essere percepite anche in funzione di norme extrapenali di civiltà effettivamente vigenti nell’ambiente sociale in cui operano.”

L’art. 5 è stato al centro di profondi dibattiti dottrinali. Originariamente essa in via assoluta non permetteva che l’ignoranza (cioè assenza di rappresentazione di una data realtà) ovvero l’errore (cioè divergenza tra rappresentazione soggettiva e realtà oggettiva) in relazione alla legge penale, potessero essere causa di esclusione della responsabilità penale. Si trattava di un’impostazione decisamente rigorosa che secondo parte della dottrina risultava contrastante con il principio di colpevolezza sancito nell’art. 27 Cost. che dice: 1. “La responsabilità penale è personale. 2. “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.” 3.”Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” 4. “Non è ammessa la pena di morte.

Si potrà parlare di colpevolezza del soggetto agente solo quando vi sia la conoscenza o, quanto meno, la possibilità di conoscenza dell’antigiuridicità del fatto, soprattutto in relazione agli illeciti penali rientranti nella categoria dei reati di mera creazione legislativa. Al fine di porre certezza ed accogliendo le istanze di giurisprudenza e dottrina, la Corte Costituzionale, con sentenza 24 marzo 1988, n. 364, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 «nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità della ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile».

Ciò significa che il soggetto può considerarsi colpevole solo quando la conoscenza della norma penale sia stata possibile, ovviamente fermo restando il generale principio di solidarietà sancito nell’art. 2 Cost. Che pone a carico di ciascun consociato un dovere strumentale di informazione e conoscenza della legge penale. Ne consegue che il soggetto deve considerarsi responsabile ogni qualvolta l’ignoranza della legge penale derivi dalla violazione di quel dovere di informazione. Non sarà così, invece, qualora, pur adempiendo al proprio dovere di informazione, si ravvisi una situazione di ignoranza inevitabile, cioè insuperabile da chiunque altro si fosse trovato nella medesima situazione. L’errore di diritto scusabile, in quanto dovuto ad ignoranza inevitabile, è configurabile solo in presenza di una oggettiva e insuperabile oscurità della norma o del complesso di norme da cui deriva il precetto penalmente sanzionato. Accade infatti di sovente che ci si trovi di fronte ad una materia oscura vista l’eccessiva proliferazione di norme e leggi a volte incomprensibili. Ci sono tantissimi esempi di codici penali avvolti da insuccesso proprio perché avevano un contenuto troppo distante dalla cultura delle popolazioni cui era destinato.

C’è da dire che in Italia non sempre le motivazioni legate al proprio background culturale sono state ritenute sufficienti per commisurare al reo una pena più mite, ne è un esempio la sentenza del Tribunale di Arezzo del 27 Novembre 1997. Il fatto riguardò un cittadino algerino, capo della comunità islamica di Arezzo, che sottopose ripetutamente la moglie (cittadina italiana) e i due figli a violenze, minacce e percosse volte a imporre il rispetto delle tradizioni e degli usi del suo credo. Tale scopo era ritenuto dall’autore non solo legittimo ma doveroso per “salvare l’anima” ai membri della propria famiglia. Tuttavia il giudice in questo caso non ha tenuto in considerazione il background culturale dell’algerino perché in passato aveva studiato in Europa, più precisamente a Parigi, e che si era avvicinato in modo così radicale alla religione islamica solo nell’ultimo periodo. Per questi e altri motivi, Il giudice ritenne, che lui fosse perfettamente conscio dei valori e delle regole della società occidentale. Perciò venne riconosciuto sia l’elemento materiale che il dolo del reato di maltrattamenti respingendo quindi la richiesta di proscioglimento per non aver commesso il fatto. Altro esempio è dato dalla sentenza della Corte di Cassazione del 7 Dicembre 1993 nella quale il giudice ribadisce un concetto importantissimo, e cioè che solo in situazioni eccezionali l’ignoranza della legge penale può rilevare come scusa e che l’imputato era già in Italia da 3 anni e prima di allora, era stato anche in Germania per un lungo periodo a differenza tra la legge penale italiana e la legge penale del Paese d’origine di per sé non basta certo per integrare una situazione di ignoranza inevitabile ai sensi dell’art. 5 c.p., come rivisto da C. cost. 364/1988. [8].

Una storica sentenza in cui invece c’è stata un’archiviazione delle indagini per motivi riguardanti reati culturalmente motivati invece, è stato il Decreto emesso dal Tribunale di Torino il 17 Luglio 1997. Nel caso di specie, alcuni medici della A.S.L. di Torino denunciano per lesioni personali gravissime (art. 583 comma 2 c.p.) i genitori nigeriani di una bambina, stabilmente residenti in Italia, i quali, in occasione di un viaggio nel Paese d’origine, avevano fatto sottoporre, presso un ospedale pubblico nigeriano, la propria figlia di sei mesi ad un intervento di asportazione parziale delle piccole labbra e del clitoride. Il Tribunale, su richiesta dello stesso P.M., procede, tuttavia, all’archiviazione delle indagini, constatando la “mancanza di condizioni per legittimare l’esercizio dell’azione penale” in ordine alla violazione degli artt. 110, 582 e 583 c.p., dal momento che i genitori avrebbero inteso “sottoporre la figlia a pratiche di mutilazione genitale pienamente accettate dalle tradizioni locali e dalle leggi del loro Paese”.

Tuttavia è bene sottolineare che in Italia è intervenuta la Legge n.7 del 09.01.2006 che ha introdotto l’Art. 583 c.p. bis che recita: 1. “Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da quattro a dodici anni. Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo. 2. Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è diminuita fino a due terzi se la lesione è di lieve entità. [9] La pena è aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a danno di un minore ovvero se il fatto è commesso per fini di lucro. La condanna ovvero l’applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale per il reato di cui al presente articolo comporta, qualora il fatto sia commesso dal genitore o dal tutore, rispettivamente: a) la decadenza dall’esercizio della responsabilità genitoriale; b) l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno. 3. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì quando il fatto è commesso all’estero da cittadino italiano o da straniero residente in Italia, ovvero in danno di cittadino italiano o di straniero residente in Italia. In tal caso, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia” [10]. 

 

 

 

 

 


[1] DE MAGLIE, p. 36. [2] Ivi, p. 35; sul punto v. altresì BASILE, p. 92. [3] BASILE, p. 159. [4] Cfr., per tutti, l’imponente casistica giurisprudenziale raccolta da BASILE, p. 165 ss. [5] Per opinione unanime dei tre Autori, proprio l’approvazione della ‘famigerata’ legge n. 7/2006, che ha introdotto nel codice penale italiano l’art. 583bis, rubricato ‚Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili‛, ha concorso a rendere attuale nel sistema interno il tema del trattamento penalistico del fattore culturale (v., ad esempio, BASILE, p. 14). La relativa disciplina, per quanto finalizzata a reprimere condotte gravemente offensive di beni dotati di rango primario, risulta contrassegnata, oltre che da una deprecabile disattenzione ai profili di effettività politico-criminale dell’incriminazione, da una sorta di ‚terrorismo sanzionatorio‛ (così DE MAGLIE, p. 42) rivelatore della matrice apertamente etnocentrica e simbolica dell’opzione punitiva. [6] Ipotesi con riferimento alla quale BASILE (p. 148) ricorda la presenza anche nel nostro codice, fino al 1981, dell’istituto del ‘matrimonio riparatore’ (art. 544) quale causa estintiva dei reati in materia sessuale: esempio considerato il più emblematico nella pletora di norme a ‘tutela dell’onore’ presenti nell’originaria versione del codice Rocco, il quale prevedeva sanzioni assai benevole per i reati di aborto, infanticidio, omicidio, lesioni personali, abbandono di neonato qualora fossero commessi, appunto, ‘per causa d’onore’ (v. BASILE, p. 144 ss.). [7] Pantheon, Ricca “Agenda della laicità interculturale”, Torri del vento edizioni. Palermo 2012. Capitolo 6: “esprimersi, comunicare e simboleggiare” da pag. 203. [8] 143 Basile Fabio, Immigrazione e reati culturalmente motivati, il diritto penale nelle società multiculturali Giuffré, 2010. Caso a pag. 213 e 214. [9] Il secondo comma, è stato introdotto dall’Art. 4 della Legge n. 172 dell’01.10.2012. [10] L’articolo 93 deo d.lg. del 18.12.2013 n. 154, ha sostituito alle parole “potestà del genitore” le parole “responsabilità genitoriale”. Tale modifica entrò in vigore il 07.02.2014

Sitografia
Diritto penale e reati culturalmente motivati: la morsa della scelta alternativa per le c.d. “vite di scarto” | Salvis Juribus
A PROPOSITO DI REATI CULTURALMENTE MOTIVATI (dirittopenaleuomo.org)

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