Predisposizione genetica al crimine? L’impatto della genetica comportamentale sul diritto penale
Sommario: 1. Introduzione e questioni problematiche – 2. Come i geni influiscono sul comportamento criminale? – 3. Conclusioni e prospettive future
1. Introduzioni e questioni problematiche
Il nostro genoma è composto da poco più di 20.000 geni ed oggi, grazie alla ricerca ed al progresso tecnologico, è possibile comprendere quale sia la funzione di determinati geni e quali siano gli effetti che possono essere associati a variazioni del codice genetico.
Di regola, le variazioni genetiche sono alla base della grande diversità fenotipica: colore degli occhi, colore dei capelli, ma è indubbio che i geni concorrono a determinare anche il nostro carattere, la nostra personalità e la nostra vulnerabilità ad agenti ambientali.
E’ proprio la questione di quanto i geni determinano ciò che siamo e ciò che diventiamo ad essere al centro del dibattito tra neuroscienze, etica, filosofia e diritto.
Per genetica comportamentale si intende quella disciplina che studia e mira ad individuare le eventuali basi genetiche della predisposizione soggettiva a determinati comportamenti, in particolare, quelli anomali, aggressivi e antisociali.
Pur escludendo che i geni influiscono sul comportamento dell’individuo tanto quanto ne definiscono i tratti somatici, gli studi genetici sembrano aver acclarato una significativa connessione tra corredo cromosomico ed alcuni tratti della personalità e, più precisamente, con le capacità di reazione a determinati stimoli ambientali.
In altre parole, lo stesso genotipo, per tale intendendosi l’insieme dei geni di un individuo, può dare origine a diversi fenotipi – per tale intendendosi il complesso delle caratteristiche manifestate dall’individuo osservabili dall’esterno – a seconda delle caratteristiche ambientali; sussiste, dunque, una commistione: il genotipo influenza l’ambiente e l’ambiente, a sua volta, influenza il fenotipo.
Ed invero, il cervello oltre ad essere sotto il controllo genetico viene altresì plasmato dall’ambiente che lo circonda e dall’esperienza.
Pertanto, se la scienza esclude l’esistenza di un gene causativo di determinati comportamenti violenti o criminali, tuttavia, rivela come il patrimonio cromosomico possa favorire una risposta aggressiva alla scintilla innescata da un certo stimolo ambientale, collocando l’individuo possessore di tale patrimonio in una condizione di “vulnerabilità genetica” rispetto alla condotta sociale penalmente sanzionata.
In altri termini, la realizzazione di una condotta antisociale risulterebbe più probabile da parte del suddetto individuo in quanto geneticamente meno capace di controllare l’impulso aggressivo.
Sovente in medicina, quando si studiano le basi genetiche delle patologie, si distingue tra geni causativi e geni di suscettibilità. I primi sono quelli che, se presenti in forma alterata, portano inevitabilmente allo sviluppo della patologia ad essi associata. Diversamente, i geni di suscettibilità non implicano che alla presenza di una determinata variante di un gene consegua necessariamente lo sviluppo di quella patologia, ma solo una probabilità maggiore, rispetto agli individui senza quell’allele, di svilupparla.
Si parla quindi di variante allelica di un gene che aumenta la suscettibilità o la vulnerabilità a quella determinata patologia; sarà poi necessario l’intervento di altri fattori, genetici o ambientali, che concorreranno a far sì che alcuni individui sviluppino la patologia ed altri no.
Ebbene, sono proprio i geni di suscettibilità l’oggetto della ricerca della genetica comportamentale.
Sul punto, v’è chi avverte come questi studi di genetica comportamentale riportino alla luce quelli del padre dell’antropologia moderna ed, in particolare, la teoria dell’atavismo con cui Lombroso illustrava il delinquente nato, convinto che la natura criminosa dovesse essere necessariamente intrinseca all’individuo, portato a delinquere a causa della sua biologia difettosa.
La mostruosità fisica per Lombroso rispecchiava quella morale, per tale motivo esaminava i criminali e si prefiggeva di ricercare determinate espressioni fisiche, somatiche e psicologiche, prova dell’esistenza di una ben precisa anomalia congenita che avrebbe consentito di individuare per tempo i soggetti socialmente pericolosi al fine di isolarli dalla comunità prima che avessero tempo e modo di commettere eventuali crimini.
In realtà, oggi siamo lontani dal ricollegare la delinquenza alle rilevazioni morfologiche del volto dei criminali, eppure, occorre riconoscere alla riflessione ottocentesca di Lombroso sulle forme di patologia sociale e devianza la configurazione di una scienza alla ricerca dei fondamenti biologici del crimine.
E’ facile, dunque, cogliere il filo rosso conduttore con le moderne tecniche di genetica e con le neuroscienze applicate in campo giuspenalistico. Lombroso torna oggi ad essere attuale, non certo nelle teorie da lui formulate, bensì nella filosofia profonda degli studi di neuroimaging e genetica comportamentale, identici, nel presupposto di partenza, alle ricerche antropometriche di Lombroso, trovare cioè l’origine biologica del crimine.
Senza negare le potenzialità e i vantaggi offerti dalle neuroscienze e della genetica applicate in campo penale, è bene però rimarcare che i risultati ottenuti debbano essere letti ed interpretati con estrema cautela, senza lasciarsi andare a facili entusiasmi, tenendo sempre ben chiaro in mente che anche la scienza conosce dei limiti e senza sottovalutare gli svantaggi e i rischi che, allo stesso tempo, l’applicazione di queste nuove tecniche in ambito giuridico potrebbe comportare.
Si pensi – ed è forse ciò che maggiormente preoccupa – al risvolto lombrosiano dell’inesistenza del libero arbitrio. Ancora oggi, infatti, molte suggestioni del pensiero lombrosiano sono rintracciabili nelle teorie deterministiche che pretendono di evincere una ineluttabile predisposizione al comportamento delittuoso.
Questo voler trovare la causa biologica del crimine mal si concilia col paradigma su cui si fonda la responsabilità penale: ed invero, se una persona non solo non è in grado di comprendere il disvalore del fatto, ma non è più libera di agire, di determinarsi in modo conforme alla legge, come si può muoverle un rimprovero penale?
2. Come i geni influiscono sul comportamento criminale?
Sono ormai molteplici gli studi scientifici che, pur senza giungere a sostenere l’esistenza di una determinazione meccanicistica, individuano una correlazione tra geni e criminalità. Posto che non esiste alcun gene in grado di causare direttamente lo sviluppo di un determinato comportamento, normale o deviante, ovvero non esiste alcun gene causativo che porti a comportamenti violenti e criminali, il possedere una variante allelica invece di un’altra di geni che regolano il metabolismo di neurotrasmettitori coinvolti nella modulazione del tono dell’umore, nel controllo degli impulsi e nei meccanismi di gratificazione e punizione, può essere associato ad un maggior rischio di sviluppo di comportamenti anormali e socialmente inaccettabili.
Dunque, la domanda da porsi non è se i geni incidono sull’insorgenza del comportamento criminale, bensì come.
Proprio all’interazione tra geni, cervello e comportamento, nel 2010 la rivista scientifica Behavior Genetics ha dedicato un numero monografico ad una raccolta di saggi da cui è derivata l’ulteriore conferma del ruolo svolto dal patrimonio genetico sulla struttura e sulle funzioni cerebrali, le quali a loro volta influiscono sul comportamento sociale. Peraltro, già in precedenza, la comunità scientifica aveva promosso un dialogo tra le neuroscienze e la genetica comportamentale, individuando nel diritto penale il campo del diritto maggiormente interessato ai risultati dell’interazione tra le due discipline in questione; basti pensare alle ricadute delle nuove tecniche neuroscientifiche e di genetica comportamentale sul piano dell’accertamento della capacità di intendere e di volere ex art. 85 c.p. e, dunque, sull’imputabilità.
Volgendo lo sguardo all’esperienza comparatistica, è possibile rilevare l’incremento dell’uso dei dati neurobiologici nel quadro delle strategie difensive – specie da parte di imputati di crimini violenti – in particolare negli ordinamenti di common law: tali strategie vengono adottate non solo allo scopo del riconoscimento della incapacità (o di una ridotta capacità) di intendere e volere all’interno del giudizio sull’imputabilità, ma anche al fine di conseguire una riduzione della pena nella fase del c.d. sentencing, o in prospettiva processuale, la determinazione della incapacità di stare in giudizio (c.d. competency).
Anche l’esperienza italiana ha visto l’ingresso dei dati neuroscientifici nell’ambito di alcuni procedimenti penali, ed anzi, è proprio un provvedimento adottato da un giudice italiano a rappresentare il primo caso nella giurisprudenza penale europea ove i dati di genetica comportamentale abbiano espletato un effetto pratico sul giudizio di imputabilità [1].
E’ evidente come, nel loro insieme, i risultati degli studi genetici riportano alla luce l’annoso dibattito intorno al libero arbitrio, cioè della polarità fra necessità e libertà, fra Lutero, Spinoza, Benjamin Libet [2] ed Hobbes da un lato, Aristotele, Agostino, Erasmo e Kant dall’altro: siamo davvero liberi nelle nostre scelte, oppure ciò che siamo e facciamo è geneticamente predeterminato?
Dalla risposta che decidiamo di fornire a tale quesito deriva un diverso significato da attribuire alla responsabilità penale: se ogni individuo è libero di decidere se compiere o meno una certa azione, sarà pienamente responsabile del gesto compiuto; se le azioni compiute sono, al contrario, completamente preordinate, è chiaro che l’autore non potrà essere responsabile del gesto compiuto.
Alla luce delle considerazioni sopra espresse – i geni agiscono sul cervello, dunque sul comportamento, alterando la sensibilità all’ambiente circostante – ci si deve quindi chiedere se l’identificazione di fattori di vulnerabilità genetica possa essere utile per valutare in maniera più consapevole la responsabilità penale degli individui colpevoli di atti criminali o violenti, aggiustando il grado della pena sulla base di eventuali “attenuanti genetiche”.
Del resto, già Socrate sosteneva Nemo sua sponte peccat.
Ebbene, bisogna certamente rifugiare da quello che viene definito determinismo genetico, ovvero pensare che una predisposizione genetica al comportamento criminale annulli la responsabilità dell’individuo, che le nostre azioni dipendono esclusivamente dal nostro DNA e non dal libero arbitrio. Si è già precisato, infatti, che è un dato comune che gli effetti dei geni sul comportamento siano di tipo probabilistico.
Una conferma in tal senso, la si rinviene in una recente pronuncia della Corte di Cassazione [3] che, nell’affrontare il tema del libero arbitrio, ha rigettato i ricorsi della Procura Generale e delle Parti Civili approvando il ragionamento logico-giuridico seguito dalla Corte d’Assise d’Appello, laddove quest’ultima ha ritenuto che la perizia non avrebbe avuto il fine ultimo di negare il libero arbitrio sulla base dell’equazione «danno, più predisposizione genetica, uguale necessaria infermità di mente», né tantomeno quello di rinvenire un’origine esclusivamente biologica del comportamento dell’omicida. Al contrario, sostiene la Corte, sono proprio la lesione cerebrale e la predisposizione genetica unite a fattori ambientali ad aver probabilmente scatenato il comportamento antisociale, ingenerando nel colpevole un’incapacità «a governare la propria volontà, viziata dal danno cerebrale riportato».
Ma v’è di più, nel caso in esame, la Suprema Corte ha precisato che nel seguire il principio di diritto affermato dalle SS.UU. Raso del 2005 – ovvero, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, rientrano nel concetto di “infermità” anche i gravi disturbi della personalità, a condizione che il giudice ne accerti la gravità e l’intensità, tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere o di volere, e il nesso eziologico con la specifica azione criminosa – non occorre rispettare lo standard probatorio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, bensì quello più favorevole dell’in dubio pro reo; pertanto, non occorre la prova certa del vizio parziale di mente, ma è sufficiente un ragionevole livello di probabile sussistenza del nesso eziologico tra l’actio criminalis e l’interazione della lesione cerebrale e della predisposizione genetica con l’ambiente esterno.
Si ribadisce, dunque, ancora una volta, come la questione non è se la predisposizione genetica giochi un ruolo causale o meno, ma se sia tale da aumentare, in determinate circostanze, il rischio di sviluppare certi comportamenti.
Pertanto, si può asserire che l’evoluzione delle conoscenze di genetica comportamentale non impongono cambiamenti sostanziali alla nozione di responsabilità; tuttavia, comprendere le implicazioni complessive dei meccanismi genetici potrebbe modificare, in qualche modo, il concetto di colpa e di conseguenza quello di giusta pena da infliggere.
In particolare, le indagini sperimentali si sono focalizzate sul ruolo del gene dell’enzima monoamino ossidasi A (MAOA), implicato nell’attività che presiede al metabolismo della serotonina, un neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione del tono dell’umore e nella modulazione del comportamento. In altre parole, il gene MAOA codifica un enzima la cui funzione è quella di distruggere i neurotrasmettitori, ovvero quelle molecole messaggero che viaggiano nelle sinapsi quando pensiamo o compiamo un’azione, la regolazione della cui attività è fondamentale per una vita normale.
L’attenzione all’incidenza del gene MAOA sul comportamento aggressivo è aumentata da quando è stato riscontrato che gli individui maschi di una famiglia olandese [4], con un pesantissimo passato di comportamento antisociale, possedevano una mutazione a carico del gene MAOA che lo inattivava completamente.
Di tale gene si conoscono diverse varianti alleliche, ciascuna espressiva di una maggiore (MAOA-H) o minore (MAOA-L) attività enzimatica. Una pluralità di studi sembrano dimostrare che gli individui in possesso dell’allele correlato ad una minore attività enzimatica della serotonina (MAOA-L) – considerata tra i più significativi catalizzatori del comportamento criminale – tendono a rispondere con maggiore aggressività agli stimoli esterni e ad agire con maggiore impulsività.
Più nel dettaglio, un’indagine condotta su di un vasto campione di soggetti maschi adulti, ha riscontrato una generale scarsa tendenza a sviluppare comportamenti violenti tra gli individui non esposti a episodi di vittimizzazione e maltrattamento in età infantile, a prescindere dalla loro dotazione genetica. Al contrario, tra gli individui vittime di episodi di tal natura, quelli dotati della variante allelica a bassa attività enzimatica, hanno denotato una tendenza al comportamento violento significativamente maggiore rispetto a quelli dotati della variante allelica ad attività elevata; dunque, ciò significa che possedere la variante a bassa attività, di per sé, non determina lo sviluppo di un comportamento aberrante ma aumenta la vulnerabilità ad eventi esterni avversi, da cui può derivare lo sviluppo di un comportamento anormale.
Ciò conferma ulteriormente quanto la combinazione tra fattore genetico e fattore ambientale sia in grado di influire – sia pure non in modo determinante – sul comportamento umano.
Risultati ancora più eloquenti sono stati ottenuti dalla combinazione tra le indagini di genetica comportamentale e le tecniche di neuroimaging, attraverso le quali è stato possibile riscontrare nei portatori dell’allele MAOA-L, qualora sottoposti a determinati stimoli emotivi capaci di sollecitare una reazione aggressiva, una minore attività dell’area prefrontale della corteccia, la quale, occupandosi dell’inibizione degli impulsi, svolge un ruolo fondamentale nei processi cognitivi e nella regolazione del comportamento.
Considerazioni simili possono essere fatte riguardo a molti altri geni coinvolti nella regolazione dei neurotrasmettitori nel sistema nervoso; per esempio, l’allele Short del polimorfismo 5HTTLPR (serotonin- transporter- linked promoter region) è responsabile di una ridotta espressione, pari al 30-40%, del trasportatore della serotonina, che causa un dimezzamento nell’efficienza di trasporto di questo neurotrasmettitore (HEILS et al. 1996). Numerosi sono gli studi che evidenziano un’associazione tra tale allele Short e una maggiore predisposizione al comportamento antisociale violento ed impulsivo (VIRKKUNEN et al.,1995; SAKAI et al.,2006; HABERSTICK et al.,2006); vulnerabilità al comportamento aggressivo che appare accentuarsi in presenza di condizioni ambientali stressanti (CASPI et al.,2002; CRAIG, 2007; REIF et al.,2007).
Altro esempio è quello del gene che codifica per il recettore D4 della dopamina, polimorfismo costituito da ripetizioni in tandem a numero variabile di una sequenza di 48 paia di basi presente nell’esone 3 del gene. L’allele più frequente risulta essere quello con 4 ripetizioni, mentre quello con 7 ripetizioni è stato riportato in associazione con un comportamento aggressivo ed iperattivo, a prescindere dal quoziente intellettivo degli individui (DEYOUNG, 2006), così come con un comportamento di maggiore impulsività in risposta agli stimoli esterni e di ricerca continua di nuove sensazioni (EBSTEIN et al.,1996).
3. Conclusioni e prospettive future
Ebbene, i dati sopra espressi indicano che l’aggressività umana risulta essere il frutto della complessa interazione tra fattori genetici ed ambientali; che l’influenza dei geni sul comportamento deve essere considerata come un fenomeno multifattoriale in cui giocano un ruolo fondamentale non solo i geni ma anche l’ambiente esterno, tenendo ben a mente che non esiste alcun tipo di determinismo genetico, secondo cui le nostre azioni dipenderebbero esclusivamente dal nostro DNA, né un determinismo ambientale, nel senso che tutti coloro che sono cresciuti in ambienti malsani diventano necessariamente criminali e tutti coloro che sono cresciuti in un ambiente favorevole e protettivo diventano persone per bene: né l’ambiente, né i geni sono condizioni necessarie e sufficienti per sviluppare comportamenti criminali, l’effetto di questi due parametri è solo di tipo probabilistico potendo aumentare il rischio di sviluppare una condotta criminale e violenta.
Ad oggi possiamo dire che la sfida e l’apertura all’interazione tra aspetti biologici e psicologici della condotta umana lanciate da Freud agli inizi del 900, sono ancora vive e solo l’evoluzione ed il perfezionarsi della scienza potrà darci risposte sempre più accurate sullo sviluppo del comportamento criminale.
Questa commistione tra diritto e genetica, di fronte a studi non ancora definitivi ed incompleti – specie perché aventi ad oggetto il sistema nervoso, il più complesso ed ancora sconosciuto in molte delle sue parti – nasconde però un lato oscuro: invero, il dualismo cartesiano tra anima e corpo potrebbe essere soppiantato da un monismo biologico, conducendo ad una rivalutazione dell’agire sociale su basi prettamente biologiche rischiando di alimentare un inammissibile “giustificazionismo genetico” con conseguente deresponsabilizzazione del reo autore di crimini orribili ed efferati.
In ogni caso, è bene precisare che le nuove tecniche di brain imaging e le indagini di genetica comportamentale devono essere ripensate in senso ausiliario, aggiuntivo, rispetto ai tradizionali strumenti diagnostici (quali perizie, colloqui psichiatrici, test psicodiagnostici come ad es. quello di Rorschach) al fine di meglio comprendere le caratteristiche personali e psicopatologiche del soggetto indagato.
Se, infatti, esiste una relazione tra attività mentale e circuiti neuronali, essendo l’azione attivata dall’individuo – tanto che la mente non sarebbe un quid immateriale ma il risultato del funzionamento della materia, cioè dei neuroni e delle sinapsi sottostanti – la pena può perseguire la sua finalità rieducativa solo se risulta conforme al profilo umano.
Non resta, dunque, che attendere l’evolversi degli studi di genetica ed auspicare una formazione specialistica del giudicante per consentire a quest’ultimo, quale tecnico del diritto informato sui presupposti di validità del metodo o prova scientifici utilizzati nel processo, di selezionare ed utilizzare le tecniche scientifiche maggiormente attendibili chiudendo le porte alla c.d. junk science.
Riferimenti
[1] “Allo stato attuale delle conoscenze non esiste alcuna variante genetica che sia stata messa in relazione causale con il comportamento aggressivo o antisociale, cioè non esiste alcuna variante genetica che determini in maniera assoluta la presenza di un certo comportamento. Quello che gli studi scientifici indicano è che il possedere una o più delle varianti alleliche […] si associa ad un rischio statisticamente maggiore di manifestare comportamento aggressivo, impulsivo o antisociale, soprattutto in coloro che sono cresciuti in ambienti non protettivi durante l’infanzia rispetto a coloro che non hanno le suddette varianti alleliche. In altre parole, possedere una o più di queste varianti genetiche non è condizione necessaria né sufficiente perché l’individuo manifesti un comportamento antisociale, ma rappresenta un fattore di maggior rischio che ciò possa avvenire”: così si esprime, il neuroscienziato PIETRO PIETRINI – redattore della perizia disposta nel processo deciso dalla Corte d’Assise d’Appello di Trieste nel c.d. Caso Bayout (2009) che ha segnato l’esordio della genetica comportamentale nel panorama giurisprudenziale europeo – in un’intervista realizzata da MOZZONI M., reperibile al sito http://brainfactor.it.
[2] I cui esperimenti dimostrano che la decisione del corpo di agire accade prima della decisione volontaria; diveniamo quindi consapevoli dopo che il corpo si è attivato. Si affermava così che l’intenzionalità di compiere un movimento, espressione del libero arbitrio, fosse una conseguenza e non una causa delle nostre azioni (Libet et al. 1983).
[3] Cass. Pen., Sez. I, 18 maggio 2018, (dep. 18 marzo 2019), n. 11897, riguardante il caso di una donna che durante una sessione di jogging venne sequestrata, colpita alla testa e gettata in un dirupo. Secondo il perito, fra i tanti risultati emersi dall’esame neuropsicologico, in particolare la lesione prefrontale bilaterale dell’imputato, derivante da trauma cranico avvenuto a seguito di sinistro stradale, unita alla condizione genetica (possesso della variante disfunzionale di allele del gene MAOA) potrebbero aver favorito lo sviluppo di comportamenti socialmente aggressivi e aberranti, incidendo modo rilevantissimo sulle aree deputate al controllo degli impulsi. Aderendo a tali conclusioni peritali, la Corte d’Assise ha concluso riconoscendo all’imputato il vizio parziale di mente.
[4] Si fa riferimento allo studio di CASPI A., MC CLAY J., MOFFITT T.E., MILL J., MARTIN J., CRAIG I.W., TAYLOR A., POULTON A., Role of genotype in the cycle of violence in maltreated children, in Science, vol. 297, 2002, p. 851 ss. Cfr. altresì BRUNNER H.G., NELEN M., BREAKEFIELD X.O., ROPERS H.H., VAN OOST B.A., Abnormal Behavior Associated with a Point Mutation in the Structural Gene for Monoamine Oxidase A, in Science, vol.262, 1993, p. 578 ss., studio statistico che ha evidenziato il possesso della variante allelica in questione da parte di un numero significativo di individui maschi consanguinei appartenenti a diverse generazioni dello stesso ceppo familiare di nazionalità olandese; tali individui, oltre a presentare notevoli disturbi della personalità, si erano resi responsabili di gravi delitti di sangue (omicidi, violenze sessuali e altri reati contro la libertà e l’incolumità individuale). Da tale studio si evince che i soggetti con Low-MAOA, esposti a maltrattamenti in età infantile, hanno un rischio 3 volte maggiore dei soggetti High-MAOA, esposti anch’essi a maltrattamenti, e quasi 5 volte maggiore dei High-MAOA non maltrattati, di sviluppare comportamento antisociale.
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Beatrice Pittei
Laureata con lode in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi Roma Tre con tesi in Diritto Penale dal titolo "Neuroscienze e Responsabilità penale".
Ha svolto un periodo di studio all'estero presso l'Universidad de Salamanca approfondendo tematiche attinenti al Diritto di Famiglia ed alla Criminologia.
A maggio 2019 ha conseguito un master in Scienze forensi, Criminologia Investigativa e Criminal Profiling presso l'AISF, Accademia Internazionale di Scienze Forensi di Roma.
Dopo aver svolto 18 mesi di tirocinio ex art. 73 d.l. 69/2013 presso la Procura Generale della Suprema Corte di Cassazione è attualmente praticante avvocato iscritta al Foro di Roma.