Prelievo forzoso di ovociti: nuovi problemi, vecchi principi

Prelievo forzoso di ovociti: nuovi problemi, vecchi principi

La vicenda da cui trae origine la pronuncia oggetto del presente studio attiene a un’ordinanza applicativa degli arresti domiciliari nei confronti di un medico, in concorso con altri soggetti, per aver prelevato dall’utero della persona offesa e contro la sua volontà non meno di sei ovociti al fine di procurarsi un ingiusto profitto derivante dall’impianto di embrioni in altre pazienti.

All’imputazione così descritta al primo capo si aggiungevano, altresì, ulteriori due capi nei quali si contestavano, rispettivamente, la rapina aggravata del telefono cellulare di proprietà della persona offesa e le lesioni personali aggravate dirette alla medesima.

Quanto al primo capo della suddetta imputazione – questione che qui interessa – giova rilevare che il Tribunale del riesame confermava la misura cautelare degli arresti domiciliari applicata dal g.i.p. a tal fine, però, derubricando il reato di rapina di cui al primo capo in quello di violenza privata.

Sul punto, il Tribunale escludeva la configurabilità del reato di rapina sul presupposto per cui le parti del corpo umano possono essere ritenute “cose mobili” soltanto dopo che le stesse si siano separate dal resto del corpo. Al riguardo, il Tribunale rilevava l’impossibilità di operare un’interpretazione estensiva dell’orientamento giurisprudenziale sulla “mobilizzazione da immobili a mobili” all’ipotesi in oggetto di prelievo di ovociti.

Avverso tale ordinanza proponevano ricorso per Cassazione sia il P.M. sia l’imputato.

L’opzione ermeneutica proposta dal Tribunale, in sede di riesame, veniva avallata dalla Corte di Cassazione, la quale, con sentenza n. 39541 del 17.8.2016, ha affermato che “il prelievo forzoso di ovociti dall’utero di una donna configura il delitto di violenza privata, e non quello di rapina, in quanto gli ovociti, benché destinati ad essere espulsi o trasformati mediante la fecondazione, non possono essere considerati “cose” fino a quando fanno parte del corpo umano”.

Nella parte motiva della sentenza, la Corte di Cassazione si è ampiamente soffermata sul ricorso presentato dal P.M..

Al riguardo, con il primo motivo, il P.M. lamentava violazione di legge in relazione all’art. 628 c.p., in quanto il Tribunale aveva erroneamente qualificato il fatto, avendo ritenuto che le parti del corpo umano possano essere considerate “cose mobili” solo dopo che le stesse si siano separate dal corpo stesso e che non si possa estendere la disciplina della “mobilizzazione da immobili a mobili”.

Ad opinione del P.M., infatti, gli ovociti non sarebbero organi o parti integranti del corpo umano, bensì cellule detenute anche solo temporalmente nel corpo della donna, pertanto suscettibili di apprensione e impossessamento da parte di terzi. Di tal che il prelievo forzoso di oviciti dovrebbe essere ricondotto nell’alveo del delitto di rapina.

La Corte di Cassazione, però, precisa come, per costante giurisprudenza, per cosa mobile deve intendersi “qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé o perché può essere trasportata da un luogo a un altro”.

A ciò si aggiunga che “la qualità di cosa mobile possa essere attribuita anche alla cosa che sia stata mobilizzata ad opera  dello stesso autore del fatto mediante avulsione o enucleazione”.

Sulla base di tali considerazioni la Corte giunge ad affermare che il concetto di cosa mobile non possa estendersi alle parti del corpo umano finché la persona è in vita. Le parti del corpo umano, quindi, diventano “cose” solo a seguito di separazione dal corpo della persona, ma non sono tali fino a quando fanno parte del corpo vivente.

Pertanto, la Corte sostiene, con riferimento alla natura degli ovociti, che questi, sebbene sia discutibile la loro assimilazione agli organi del corpo umano, fanno certamente parte del circuito biologico del corpo umano.

Seguendo tale impostazione logica, la Corte rigetta la lettura avanzata dal P.M. e afferma espressamente che gli ovociti “non possono essere considerati “cose” solo temporalmente detenute dalla donna all’interno del proprio corpo”.

Dunque, il prelievo forzoso di oviciti non rientra nell’orizzonte dei delitti contro il patrimonio, ma costituisce un delitto contro la persona.

A ciò, peraltro, si aggiunga, afferma la Corte, che il fatto non potrebbe essere diversamente qualificato, essendo stata contestata solo l’azione di separazione degli ovociti dal corpo della donna e non anche il successivo impossessamento degli stessi da parte del medico.

Orbene, è possibile racchiudere gli argomenti trattati dalla Corte di Cassazione in due questioni principali, ossia: i diritti del soggetto sulle parti staccate del proprio corpo e l’esatta qualificazione giuridica del reato.

In linea generale, è un principio oggi pacificamente ammesso quello per cui, in seguito al distacco dal corpo del soggetto, la parte anatomica cessa di appartenere alla sfera dei diritti della personalità e diventa una cosa, una res. Su di essa, però, sorge immediatamente il diritto di proprietà a favore del soggetto, dal cui corpo è avvenuto il distacco, e ciò proprio per effetto diretto del distacco medesimo che costituisce un modo di acquisizione originario della proprietà.

Altra parte della dottrina tende, invece, a respingere la teoria secondo la quale le parti del corpo, per effetto del distacco, diventerebbero “res nullius”, occupabili privilegiatamente dallo stesso soggetto[1].  La ragione dell’acquisto immediato si ravvisa, secondo una precedente teoria, in un diritto unitario su sé medesimo (jus in se ipsum) o, secondo più recente dottrina, nel fatto che preesiste una sfera giuridica strettamente personale, cioè un potere del soggetto sui propri attributi e qualità personali, che è la premessa logica per spiegare il successivo acquisto del diritto patrimoniale di proprietà sulle porzioni staccate del corpo[2].

Ad ogni modo, quale che sia la giustificazione tecnico-giuridica, ciò che va ai presenti fini rilevato è che in linea generale occorre ammettere un diritto di proprietà sulle parti staccate del proprio corpo.

Tale diritto di proprietà deve riconoscersi nei confronti di qualsiasi parte del proprio corpo e a prescindere dalle ragioni per cui e dai modi in cui è avvenuto il distacco della parte anatomica.

Pertanto, che la separazione sia avvenuta per intervento chirurgico terapeutico o per incidente o per un fatto lesivo altrui o per atto di donazione a scopo di trapianto o di sperimentazione o per fecondazione artificiale sarà rilevante giuridicamente soltanto ai fini della liceità o meno del distacco e di eventuali responsabilità di chi l’ha effettuato.

Così, tali osservazioni contribuiscono, a parere di chi scrive, a poter riconoscere agli ovociti la natura di “cose mobili”, anche se facenti parte del corpo vivente.

Ciò in quanto, le “cose” costituiscono solo una parte delle entità suscettibili di essere qualificate come beni e si distinguono dalle altre per il connotato della corporalità[3].

Perciò, può dirsi che i “beni” sono tutte le entità fisiche o ideali idonee a costituire in generale oggetto di diritti, mentre le “cose” sono beni corporali.

Di tal che, le “cose” diventano tali nel momento in cui fanno proprio il requisito della corporalità, ossia nel momento in cui si separano dal resto e acquistano la natura di oggetto reale distinguibile rispetto al soggetto.

È quanto accade proprio con riferimento al prelievo forzoso di ovociti, i quali, a seguito della separazione coattiva operata dal medico, diventano oggetto-entità a sé stanti e non più parti anatomiche inerenti al soggetto-persona.

Cosicché, non sembrerebbe lontana l’ipotesi ermeneutica tesa a riconoscere agli ovociti la natura di “cosa mobile” a seguito di separazione dal corpo vivente.

Un’ulteriore questione che si pone è quella relativa alla esatta qualificazione giuridica del reato oggetto della pronuncia.

Ebbene, alla stregua delle considerazioni suesposte, non appare d’ostacolo per la qualificazione del reato in termini di rapina la considerazione operata dalla Corte di Cassazione relativamente all’esclusivo riferimento in rubrica alla condotta di separazione e non anche all’impossessamento.

Occorre preliminarmente precisare che oggetto materiale della condotta di rapina è la cosa mobile altrui. Ai fini della rapina “cosa” è ogni entità naturale del mondo esteriore, diversa dall’uomo e dal cadavere, avente la capacità strumentale di soddisfare un bisogno umano, materiale (cose aventi un valore soltanto economico) o spirituale (cose aventi un valore soltanto affettivo), e perciò di costituire oggetto di diritti patrimoniali. Sicché, sono “cose” sia gli oggetti corporali (cose inanimate o animali e le stesse parti del corpo umano una volta separate da esso: es. sangue e tessuti, prelevati a scopo di trasfusione o di trapianto), aventi un valore di scambio o anche soltanto affettivo o comunque rispondenti a un interesse del soggetto; sia le energie, le quali per lungo tempo non furono considerate cose, in quanto si ravvisava il segno caratteristico della cosa nella corporeità, ma che poi lo stesso codice penale, anticipando il codice civile, ha implicitamente incluso, agli effetti della legge penale, tra le cose mobili.

Il reato di rapina può, inoltre assumere i connotati della rapina propria o impropria.

In ossequio al primo capo della imputazione in oggetto, si ha rapina propria ex art. 628 comma 1 c.p. quando concorrono tutti gli elementi del furto (sottrazione e impossessamento) con l’aggiunta dell’estremo della violenza, fisica o psichica, alla persona, usata per vincere l’opposizione del detentore e impossessarsi della cosa mobile.

Orbene, tra sottrazione ed impossessamento non esiste necessaria correlazione neppure cronologica, nel senso che questo può verificarsi anche in un momento diverso e successivo alla prima.

Invero, perché il reato si perfezioni non basta che il soggetto passivo sia privato della disponibilità materiale della cosa (sottrazione), ma occorre altresì che l’agente abbia acquistato la piena ed autonoma disponibilità materiale della cosa sottratta (impossessamento).

A ciò consegue, altresì, secondo un’impostazione giurisprudenziale, un corretto ampliamento della portata applicativa del tentativo, dovendosi ravvisare un tentativo non solo nei casi in cui l’agente per cause indipendenti dalla sua volontà non sia riuscito a privare il soggetto passivo della disponibilità della cosa ,ma anche nei casi in cui, privata la vittima della disponibilità materiale della cosa tramite la relativa sottrazione e distacco della res dall’effettivo proprietario, non sia poi riuscito ad entrare nella piena ed autonoma disponibilità materiale della stessa, ossia ad impossessarsene.

Alla luce di tale ricostruzione logica, sarebbe stato, perciò, possibile ravvisare nel caso oggetto del presente studio una ipotesi di tentativo di rapina propria di oviciti.

Pertanto, il fatto che nel caso di specie sia stata contestata solo l’azione di separazione degli ovociti dal corpo della donna e non anche il successivo impossessamento degli stessi da parte del medico, non sarebbe stato d’ostacolo a una qualificazione del reato in termini di tentativo di rapina propria.

D’altro canto, però, la giurisprudenza in altra sede ha sostenuto che qualora il soggetto agente abbia con modalità violente ottenuto la consegna del bene per un uso momentaneo, ma non ne abbia conseguito il possesso in via autonoma, poiché il proprietario ha mantenuto il controllo sulla res senza esserne definitivamente spossessato, si configurerà il distinto delitto di violenza privata[4].

Alla stessa conclusione è giunta, come visto, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 39541 del 17.8.2016, seguendo però il diverso iter logico e interpretativo suesposto e diretto a riconoscere agli ovociti la natura di entità che non fanno parte del corpo vivente, insuscettibili di apprensione se non tramite separazione dal corpo medesimo e il cui prelievo forzoso costituisce violenza privata ai danni della persona offesa.


[1] Mantovani, Umanità e razionalità del diritto penale, CEDAM, 2008, 1272.

[2] De Cupis, I diritti della personalità, vol. I, Giuffrè, Milano 1953, 161, 162, 163 e AA.; Carnelutti, Il problema giuridico della trasfusione del sangue, in Foro Ital., 1938, IV, 95-96; Pesante, Corpo Umano, in Encicl. del dir., Giuffrè, Milano 1962, vol. X, 663; Ravà, I diritti sulla propria persona, in Riv. scienze giurid., 1901, 192; Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana, Cedam, Padova 1974, 334.

[3] Zeno-Zencovich, Cosa, in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione civile, IV, 1989, 438.

[4] Cass. pen., sez. II, 13.8.2013, n. 34905, in www.italgiure.it.


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