Preliminare di vendita ad effetti anticipati e collegamento negoziale

Preliminare di vendita ad effetti anticipati e collegamento negoziale

Cass. SS.UU. 7930/2008 : Nel preliminare ad effetti anticipati va ravvisata la convergenza in un’unica convenzione degli elementi costitutivi di più contratti tipici tale da configurare un collegamento negoziale con cui le parti stipulano contratti accessori al preliminare, ad esso collegati, nei quali vanno ravvisati, quanto alla concessione della res, un comodato, e, quanto al pagamento di somme, un mutuo gratuito.

Da ciò consegue che la materiale disponibilità del promissario acquirente della res, in quanto comodato, ha natura non di possesso ma di detenzione qualificata”.

Cass. 16629/2013:“nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, e unitamente, o non, il pagamento anticipato del prezzo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, bensì un rapporto tra contratti collegati, in cui il ruolo di contratto principale è svolto dal preliminare vero e proprio”.

Nell’ambito delle compravendite immobiliari costituisce prassi abbastanza frequente il ricorso alla stipulazione dei cosiddetti contratti preliminari ‘ad effetti anticipati’ ovvero ‘ad esecuzione anticipata’.

Prima di addentrarci nella disamina di questa peculiare figura è, tuttavia, opportuno inquadrarla dal punto di vista giuridico.

Per negozi preparatori si intendono quelle fattispecie negoziali (opzione; prelazione; proposta irrevocabile; contratto normativo e contratto preliminare) che precedono la conclusione di un contratto.

Tra le ipotesi suindicate, senza dubbio, il contratto preliminare rappresenta l’esempio più importante, ciò non di meno comporta delle problematiche sia a livello dogmatico che disciplinare.

Innanzitutto è assente, all’interno del nostro ordinamento giuridico, un’apposita definizione dell’istituto in commento, così come una disciplina unitaria sul punto.

Scarni sono, infatti, i richiami normativi rinvenibili nel codice civile.

A tal proposito, meritano menzione: l’art. 1351 cc. (circa l’identità di forma tra il preliminare e il definitivo); l’art. 2645 bis cc. (in materia di trascrizione); l’art. 2775 bis cc. (in relazione ai crediti del promissario acquirente per mancata esecuzione del preliminare); l’art. 2825 bis cc. (con riguardo all’ipoteca sul bene oggetto del preliminare); l’art. 2932 cc. (sull’esecuzione specifica dell’obbligo di conclusione di un contratto) e, infine, nell’ambito della legislazione speciale, l’art. 6 del Dlgs. n.122 del 2005 (con riferimento alla tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire).

A fronte del silenzio del Legislatore, dottrina e giurisprudenza hanno quindi tentato di fornire una definizione della fattispecie negoziale in esame.

Trattasi, nello specifico, dell’impegno con cui le parti si obbligano a stipulare un successivo contratto, il cosiddetto definitivo, i cui elementi essenziali sono predefiniti all’interno dello stesso preliminare (contratto preliminare bilaterale).

Sulla base della suesposta premessa, ne discende che il contratto di cui si discorre è un contratto ad effetti obbligatori: esso implica l’insorgenza di un apposito obbligo, stipulare il definitivo, che a sua volta può indifferentemente essere ad effetti reali o obbligatori.

Nella prassi, frequenti sono anche i preliminari unilaterali, ipotesi in cui ad obbligarsi alla stipula del successivo contratto è soltanto una delle parti, rimanendo l’altro contraente libero di acconsentire o no.

Prima facie, detti contratti sembrano rievocare l’istituto dell’opzione, di cui all’art. 1331 cc., ma – a ben vedere- presentano un tratto distintivo.

Il contratto preliminare, invero, richiede pur sempre una manifestazione di volontà delle parti, a differenza dell’altro negozio preparatorio, in cui la successiva stipulazione sopraggiunge, automaticamente, con l’esercizio del diritto d’opzione.

Tanto chiarito, è opportuno precisare che, della sequenza ‘preliminare-definitivo’, è in particolare il secondo -il definitivo- a destare talune perplessità, proprio in virtù della sua “doppia anima”: adempitiva e contrattuale.

Attualmente, respinta la tradizionale corrente di pensiero che enfatizzava il solo preliminare, concependo il definitivo un mero fatto dovuto, e respinta la cd. teoria del “pagamento traslativo”, vertente sul ‘titulus’ (negozio ‘a monte’ da cui scaturisce l’obbligo di trasferire) e ‘modus adquirendi’ (negozio ‘a valle’ avente ad oggetto il materiale trasferimento della res), si è fatto strada l’orientamento secondo cui l’istituto de quo merita di essere considerato nella sua visione unitaria.

Nella serie ‘preliminare-definitivo’ si rinviene, per la verità, un fenomeno di collegamento negoziale, ossia un nesso di interdipendenza, frutto dell’autonomia negoziale, tra fattispecie autonome e distinte, ma tra loro funzionalmente connesse, in quanto tese alla realizzazione di un unico fine.

Pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti, legati dal collegamento funzionale, sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi.

In altri termini, si persegue uno scopo ulteriore ed eccedente rispetto a quello a cui sono adibiti i singoli negozi e tale scopo ulteriore è, dalla dottrina e giurisprudenza, ravvisato nel controllo e nella gestione delle cc.dd. “sopravvenienze”.

Con tale espressione, si fa riferimento a quegli accadimenti esterni che, specie nei contratti a lungo termine, intervengono sugli stessi, alterandone il contenuto.

Fatte queste premesse, il contratto preliminare esplica, pertanto, una funzione ‘assicurativa’: le parti devono attivarsi diligentemente, al fine di superare le sopravvenienze, in modo tale che il definitivo intervenga su un assetto di interessi non modificato.

Il successivo definitivo, invece, svolge una funzione ‘adeguatrice’: qualora i contraenti non dovessero riuscire a sovrastarle, il secondo contratto deve necessariamente adattarsi.

Si ricava, così, il venir meno del dogma dell’identità contenutistica tra preliminare e definitivo.

Ebbene, alla luce di queste considerazioni, è giocoforza ritenere che dal preliminare non consegue più e solo l’obbligo di stipulare il successivo contratto (il definitivo), bensì un più vasto fascio di obbligazioni.

Questa impostazione trova il suo fondamento nelle Sezioni Unite del 25 febbraio 1985 n. 1720, secondo cui il “preliminare è un contratto in cui vi è non solo una promessa di consensi ma anche di prestazioni”.

Con il preliminare non si assume, pertanto, solo l’obbligo di prestare il consenso, ma anche l’obbligo di approntare e rendere possibile l’esecuzione delle prestazioni finali all’esito del definitivo.

Tanto chiarito, focalizziamo adesso la nostra attenzione sul contratto preliminare ad effetti anticipati (anche detto “complesso” o “misto”), oggetto del seguente articolo,  che -come premesso-  ha trovato ampia applicazione in ambito di vendite di immobili (da costruire; in fase di ristrutturazione; o in corso di costruzione).

Per maggiore chiarezza e completezza espositiva, prima di esaminare la fattispecie negoziale appena richiamata, giova precisare che, nella prassi, è possibile imbattersi in diversi modelli di contratto preliminare.

A tal proposito, si è al cospetto di un preliminare ‘aperto’ ogniqualvolta le parti sono certe che, medio tempore, interverranno delle circostanze, oggettive o soggettive, atte a modificarne il contenuto.

Ebbene, in tal caso, il definitivo può assolvere alla funzione adeguatrice poc’anzi citata.

Di contro, quando i contraenti convengono che non perverrà alcuna sopravvenienza, il contratto preliminare presenta un contenuto ben più articolato e puntuale e, in tale ipotesi, il contratto può definirsi ‘chiuso’.

In questa ultima circostanza pare tornare in auge il tradizionale filone della dottrina che elogiava il preliminare, declinando – al contrario- il definitivo.

Ebbene, il contratto preliminare ad effetti anticipati rappresenta una sottospecie del preliminare ‘chiuso’.

Le parti, infatti, certe che non sopraggiungeranno accadimenti esterni, anticipano al momento del preliminare alcuni (e non tutti gli) effetti del successivo contratto; tra questi, ad esempio, il possesso del bene e il pagamento parziale o integrale dello stesso.

La fattispecie de qua è stata, per lungo tempo, al centro di un acceso dibattito, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza.

In primis, si sono interrogate sulla natura giuridica della stessa.

Alcuni commentatori discorrono, al riguardo, di  negozio atipico -ad effetti reali- ai sensi dell’art. 1322, co. II, cc.

Trattasi, infatti, secondo i fautori di questa corrente di pensiero, di una figura non riconducibile alla categoria dell’ordinario contratto preliminare, attesa la diversa funzione che ne è alla base.

Come anticipato, il preliminare prevede l’insorgenza dell’obbligo di stipulare il definitivo; la figura ora in commento, invece, comporta l’anticipazione di alcuni suoi effetti.

Per meglio dire, la funzione propria del contratto preliminare è quella di predisporre uno schema contrattuale prodromico ad un futuro assetto di interessi definitivo, mentre con il contratto preliminare ad effetti anticipati si perviene alla concreta produzione di alcuni effetti che solo il contratto di vendita dovrebbe essere abilitato a porre in essere.

Pertanto, si ricaverebbe che la seconda fattispecie, lungi dall’essere inquadrata nell’alveo dei contratti ad effetti obbligatori, produca –al contrario- effetti reali.

Così configurato il contratto, sarebbe poi rimesso all’interprete il compito di valutare, di volta in volta, la meritevolezza o meno degli interessi perseguiti dai contraenti.

Quanto detto, però, non ha trovato riscontro in giurisprudenza.

La Suprema Corte a Sezioni Unite, infatti, con una pronuncia del tutto innovativa,  sentenza 27/03/2008 n.7930, esclude la qualificazione in termini di contratto atipico e ne afferma la tipicità, ricorrendo all’istituto del collegamento negoziale.

I giudici di legittimità osservano che l’ipotesi di contratto preliminare ad effetti anticipati si risolverebbe in un collegamento negoziale tra un contratto di comodato (di cui all’art. 1803 cc.), con cui la parte viene immessa nella disponibilità materiale della cosa, ed il contratto di mutuo gratuito (di cui all’art. 1813 cc.), comportante l’anticipazione dell’intero prezzo del bene o di una sua quota.

La natura giuridica del preliminare ad effetti anticipati si presenta, inoltre, propedeutica all’individuazione della corretta qualificazione giuridica della figura del promissario acquirente immesso nel godimento anticipato della res.

La ricostruzione operata dalle Sezioni Unite privilegia la teoria detentiva del rapporto intercorrente tra la parte in commento e il bene anticipatamente consegnato, con evidenti ripercussioni soprattutto in termini di inidoneità di detto godimento all’acquisto per usucapione.

Così opinando, ne discende che, in caso di violento o occulto spoglio del possesso, il promissario acquirente non può che espletare l’azione di reintegrazione, di cui all’art. 1168 cc., eccetto nell’ipotesi in cui la detenzione della cosa sia stata prevista per ragioni di servizio o di ospitalità.

Di contro, non è autorizzato ad avvalersi dell’azione di manutenzione, rimedio, expressis verbis, riservato al solo possessore (art. 1170 cc.), ossia colui che dispone del potere sulla cosa, attraverso un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà (art. 832 cc.).

Orbene, sulla base di quanto appena riportato, si evince la funzione tipica del contratto preliminare, con conseguente produzione degli effetti reali ad opera del solo definitivo: in altri termini, gli effetti reali sono pur sempre esplicati, ex post, dal secondo contratto e l’anticipazione di taluni effetti del definitivo assetto di interessi programmato non muta la causa del preliminare, né tantomeno condiziona la sua natura giuridica.

Ecco il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite: “Il promissario acquirente di un bene immobile il quale, in virtù di un preliminare di compravendita, da un lato, anticipi in tutto o in parte il pagamento del prezzo e, dall’altro, ottenga l’immediata immissione nel godimento del bene per effetto dell’esecuzione anticipata della consegna della res da parte del promittente venditore, non può essere qualificato come possessore in grado di acquisirne la proprietà a titolo di usucapione, non avendo egli l’animus possidendi che, essendo uno stato di fatto, non può essere trasferito. Costui, infatti, consegue la disponibilità materiale del bene in virtù di un contratto di comodato collegato al preliminare e ha, pertanto, la semplice detenzione qualificata della res, esercitata alieno nomine. Per converso, l’anticipazione del prezzo si spiega con la stipulazione di un contratto di mutuo gratuito, anch’esso collegato al preliminare. Tale detenzione, per trasformarsi in possesso utile ai fini dell’usucapione ventennale, necessita di uno specifico atto di interversio possessionis. Quest’ultimo, peraltro, non è un semplice atto di volizione interna, ma deve chiaramente manifestarsi all’esterno attraverso il compimento di atti che consentano di desumere, anche al possessore, che il detentore ha iniziato a esercitare il potere di fatto sulla cosa nomine proprio.”

Orientamento oggi assolutamente consolidato e ribadito dagli Ermellini anche con sentenza n.16629/2013.

Infine, soffermiamo la nostra attenzione sulla tutela del promissario acquirente a seguito delle ipotesi in cui  la res consegnata risulti viziata o priva di qualità.

Con maggiore impegno esplicativo, attraverso il conseguimento della disponibilità materiale del bene, il promissario acquirente può procedere a controlli e verifiche del bene stesso, accorgendosi  della presenza di eventuali vizi e/o difformità  oppure della totale diversità della res rispetto a quella indicata a contratto (vendita c.d. aliud pro alio).
E’ chiaro che nelle predette ipotesi risulti leso l’equilibrio economico contrattuale.

Sul punto, parecchio dibattuta è la questione concernente l’azionabilità, ad opera del compratore, delle cc.dd. ‘azioni edilizie’, ossia dell’azione di risoluzione del contratto e dell’azione di riduzione del prezzo (eccetto quando, per determinati vizi, gli usi escludano  il rimedio risolutivo), fatto salvo ad ogni modo il risarcimento del danno.

Azioni – queste appena richiamate-  previste dal nostro Legislatore in materia di compravendita: il venditore è, infatti, tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all’uso a cui è destinata o che ne diminuiscano, in maniera apprezzabile, il valore.

Tale garanzia, però, non è dovuta se -al momento del contratto- il promissario acquirente era a conoscenza dei vizi di cui sopra o, se gli stessi, erano facilmente riconoscibili.

Secondo un primo filone giurisprudenziale, due sono le ragioni ostative alla estensibilità dei rimedi sopracitati ai casi in commento: a) la garanzia per vizi è attivabile solo dopo la stipula del definitivo, in conformità alla dizione letterale dell’art. 1492 cc., che si riferisce alla “garanzia per i vizi della cosa venduta” e non anche, quindi, della cosa promessa in vendita; b) non è possibile ottenere una correzione del contenuto del contratto preliminare (ai fini della riduzione del prezzo) alla luce del principio di intangibilità del contenuto del medesimo, da parte del giudice adito per l’esecuzione in forma specifica.

Tale orientamento rigido e poco favorevole per il promissario acquirente viene, però, progressivamente superato dalla giurisprudenza e, in particolare, grazie all’odierna ed unitaria lettura della  sequenza preliminare-definitivo, prima illustrata.

Come anticipato, infatti, in virtù del collegamento negoziale intercorrente tra le due fattispecie, il preliminare assolve ad una pluralità di funzioni (si discorre, come già puntualizzato, di ‘fascio di prestazioni’), di talché ne consegue il venir meno del dogma dell’intangibilità dello stesso.

Ebbene -nell’ipotesi in commento-  si ammette la riduzione del prezzo, ma non per il tramite dell’art. 1490 cc., bensì attraverso un intervento del giudice, recte mediante un giudizio prognostico -ex ante- dello stesso.

Più nel dettaglio, il giudice  può disporre quanto sopra detto,  sostituendosi  all’autonomia negoziale delle parti, specie relativamente al controllo delle sopravvenienze,  avvalendosi dello strumento di cui all’art. 2932 cc.

La sentenza costitutiva esplicherebbe, per l’appunto, la medesima funzione adeguatrice  del definitivo.

In altri termini, il giudice ripristina il sinallagma contrattuale, rimarcando proprio le ‘nuove’ funzioni -assicurativa ed adeguatrice-  del preliminare e del definitivo.

La riduzione del prezzo, a fronte di un bene viziato o difforme, in conclusione, può  essere uno strumento per riequilibrare i termini dello scambio e  far sì che la volontà espressa dai contraenti nel preliminare sia fedelmente riprodotta, negli stessi termini qualitativi e quantitativi, al momento della stipula del definitivo.

Del resto, è vero che il rispetto dell’autonomia negoziale implica il divieto per il giudice adito di sostituire la propria volontà a quella espressa dai contraenti, ma è altrettanto vero, tuttavia, che  -quando è la stessa situazione di squilibrio fra le prestazioni, determinata dalla presenza di vizi nel bene, ad esigere un adeguamento delle prestazioni contrattuali-  non s’incontra alcun ostacolo all’ammissibilità di una pronuncia che ristabilisca l’equilibrio de quo.

Lo stesso può dirsi  per l’azione di riparazione, recte di eliminazione del vizio, sebbene -expressis verbis- prevista dalla sola legislazione speciale, all’art. 130 Dlgs. 206/2005, e non anche per le ordinarie compravendite.


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Angela Fucci

Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II"; diplomata presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali dell'Università Federico II di Napoli, abilitata all'esercizio della Professione di Avvocato

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