Prescrizione “breve” e prescrizione “lunga”: tra mito e realtà

Prescrizione “breve” e prescrizione “lunga”: tra mito e realtà

Sommario: 1. Premessa – 2. La prescrizione – 3. Il dies a quo e le cause di sospensione ed interruzione della prescrizione – 4. L’equivoco mito della prescrizione “breve” e della prescrizione “lunga” – 5. Conclusioni

 

1. Premessa

In vista dell’ennesima riforma della prescrizione, con la prossima abrogazione dell’art. 161 bis c.p. (sulla cessazione del corso della prescrizione con la condanna di primo grado) e la prevista introduzione di un art. 159 bis c.p. sulla sospensione della prescrizione per 24 e 12 mesi dopo – rispettivamente –  la condanna in primo e in secondo grado, ci si vuole soffermare su un aspetto, quello dell’interruzione della prescrizione e del conseguente calcolo del termine prescrizionale, sul quale spesso si fa confusione.

2. La prescrizione

Come noto, la prescrizione è una causa di estinzione del reato che, ad eccezione del caso in cui dagli atti risulti evidente la possibilità di un’assoluzione nel merito (v. art. 129, comma 2, c.p.p.), impone al Giudice di pronunciare sentenza di non doversi procedere, se accertata in dibattimento, o di non luogo a procedere, se accertata in udienza preliminare o nella nuova udienza di comparizione predibattimentale.

Si verifica per tutti i reati, ad eccezione di quelli puniti con l’ergastolo, allorquando sia decorso un certo periodo di tempo dalla loro commissione senza che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna.

In particolare, ai sensi dell’art. 157, comma 1, c.p. il tempo necessario a prescrivere è, di norma, pari «al massimo della pena edittale stabilita dalla legge» per il reato e comunque pari ad «un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione».  Il termine è raddoppiato per i reati più gravi previsti al comma sesto della disposizione (maltrattamenti, violenza sessuale, ecc.).

Diverse sono le ragioni che posso essere poste a fondamento dell’istituto, dall’affievolirsi dell’interesse delle Stato a perseguire i reati con il passare del tempo, alla difficoltà di acquisire prove attendibili su fatti remoti (annebbiandosi, per esempio, con gli anni la memoria dei testimoni), all’esigenza di garantire la ragionevole durata del processo.

3. Il dies a quo e le cause di sospensione ed interruzione della prescrizione

Ai sensi dell’art. 158 c.p., il termine della prescrizione decorre dal giorno della consumazione del reato o, nel caso di delitto tentato, dal giorno dell’ultimo atto diretto in modo non equivoco a commettere il delitto.

Per i reati permanenti e continuati e per quelli “condizionati”, la prescrizione decorre invece dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione ovvero al verificarsi della condizione obiettiva di punibilità.

Ovviamente, è onere dell’accusa individuare con esattezza la data di commissione del reato, da assumere come dies a quo per il decorso della prescrizione, “con la conseguenza che, in mancanza di prova certa sulla data di consumazione, il termine di decorrenza va computato secondo il maggior vantaggio per l’imputato e il reato va ritenuto consumato alla data più risalente” tra quelle ipotizzate (così Cass., sez. VI, 13 maggio 2021, n. 25927) .

Ad ogni modo, il corso della prescrizione può essere sospeso o interrotto.

Rimane sospeso ex art. 159 c.p. «in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare» (là dove effettivamente disposta, v. Cass., SS.UU., 28 novembre 2001, n.1021) «è imposta da una particolare disposizione di legge» (ad es., artt. 129 bis, comma 4, e 464 bis e ss. c.p.p.), oltre che nei casi: di autorizzazione a procedere; di deferimento della questione ad altro giudizio; di impedimento delle parti o dei difensori (per un massimo di 60 giorni) o richiesta dell’imputato o del suo difensore; di sentenza di non doversi procedere per mancata conoscenza della pendenza del processo da parte dell’imputato; e di rogatoria internazionale (per un massimo di 6 mesi).

La sospensione – che non necessita di un provvedimento formale (v. Cass., sez. VII pen., 25 novembre 2014, n. 9466), verificandosi automaticamente nelle SOLE situazioni predeterminate dalla legge (v. Cass., sez. II pen., 22 ottobre 2019, n. 47160)- viene spesso definita come una “parentesi” nel corso della prescrizione, nel senso che ai fini del calcolo del termine prescrizionale vengono computati i periodi precedenti e successivi alla causa sospensiva.

Diversamente, nel caso di interruzione, «la prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell’interruzione» (art. 160 c.p.), restando privo di effetti il tempo precedentemente trascorso.

Sono in particolare cause interruttive della prescrizione «l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero, o al giudice (si pensi all’interrogatorio di garanzia ndr), l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio, il decreto di citazione a giudizio e il decreto di condanna».

4. L’equivoco mito della prescrizione “breve” e della prescrizione “lunga”

L’art. 160, comma 3, c.p., dopo aver stabilito che la prescrizione interrotta comincia a decorrere ex novo, prevede che «se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre i limiti di cui all’art 161, secondo comma».

I termini non possono cioè essere prolungati oltre un quarto del tempo necessario a prescrivere il reato o oltre la metà per i reati di corruzione di cui agli artt. 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 bis, per quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis), e nel caso di recidiva aggravata (aumenti maggiori sono consentiti per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis e 3-quater c.p.p. e nel caso di recidiva reiterata, abitualità nel delitto o tendenza a delinquere).

Di qui la tendenza a parlare di prescrizione “breve” (quella che può verificarsi prima degli eventi interruttivi) e di prescrizione “lunga” (quella che può verificarsi dopo i predetti eventi).

Così, se per un delitto qualsiasi il termine prescrizionale è di norma 6 anni (prescrizione breve), al verificarsi di un evento interruttivo si tende generalmente a pensare che il termine diventi, sempre e in ogni caso, di 7 anni e mezzo (prescrizione lunga).

Non è così!

Se questo automatismo può essere corretto nella maggior parte dei casi, non lo è nelle ipotesi in cui venga a verificarsi un primo evento interruttivo a ridosso della commissione del reato e dell’iscrizione del relativo procedimento e un secondo evento interruttivo a distanza di tempo.

Pensiamo ad un delitto commesso nel gennaio 2018, seguito da un invito a rendere interrogatorio del Pubblico Ministero dell’aprile 2018 e da un successivo decreto di citazione diretta a giudizio del maggio 2024.

Se dovessimo ritenere che, dall’invito dell’aprile 2018, il termine prescrizionale da breve (6 anni) diventi lungo (7 anni e 6 mesi), il Giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale – sussistendo la “probabilità della condanna” –  dovrebbe mandare a giudizio l’imputato, prescrivendosi –secondo questa tesi – il reato nel luglio 2025.

In realtà, l’art. 160, comma 3, c.p. non stabilisce che, al verificarsi di un evento interruttivo, il tempo necessario a prescrivere (in genere 6 anni) è aumentato di un quarto (e quindi a 7 anni e mezzo) ma che «la prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell’interruzione», precisando che il reato si prescrive comunque, nonostante le interruzioni, se dalla sua commissione decorre un temine superiore al termine ordinario di prescrizione aumentato (di norma) di un quarto.

Ciò vuol dire che, nel caso di più eventi interruttivi, perché il reato sia perseguibile è necessario che tra gli eventi interruttivi decorra un tempo inferiore a quello di cd. prescrizione breve (in genere 6 anni).

Soltanto in tal caso invero, la maturazione della prescrizione è impedita, cominciando il suo termine a decorrere nuovamente dall’inizio dal secondo evento interruttivo.

Se tanto è vero, nell’esempio fatto, il Giudice, all’udienza di comparizione predibattimentale, dovrebbe emettere sentenza di non luogo a procedere, essendosi il reato prescritto nell’aprile 2024 (aprile 2018 + 6 anni), e cioè un mese prima del secondo evento interruttivo.

Ed infatti, come chiarito dalla Corte di Cassazione in più occasioni, “il termine di prescrizione non matura prima della decorrenza del termine massimo previsto dall’ art. 161, comma 2, c.p.” (in genere 7 anni e mezzo), “soltanto nel caso in cui tra un atto interruttivo ed il successivo non sia interamente decorso il termine ordinario (cd. breve ndr) previsto dall’ art. 157 c.p.” (Cass., sez. V., 4 ottobre 2019, n. 51475. In tal senso v. anche Cass., sez. II pen., 23 aprile 2014, n. 20654; Cass., sez. V pen., 6 giugno 2013, n. 28290; Cass., sez. V pen., 3 dicembre 199, n. 1018).

5. Conclusioni

Alla luce delle superiori considerazioni, se per comodità è possibile parlare di prescrizione “breve” e prescrizione “lunga”, nel caso di più eventi interruttivi distanziati nel tempo occorre guardarsi dal rischio di cadere in fallaci automatismi, sincerandosi che tra un atto interruttivo e l’altro non sia interamente decorso il termine prescrizionale ordinario previsto dall’ art. 157 c.p.


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Avv. Matteo Cremonesi

Laureato con lode, nell’Aprile 2017, presso l’Università degli Studi di Pavia con tesi in Diritto Fallimentare dal titolo: “Gli strumenti di risanamento della crisi d’impresa nella prospettiva della continuità aziendale diretta” (Relatore Avv. Prof. Fabio Marelli).Ha superato l’esame di abilitazione alla professione forense indetto con D.M. 14 settembre 2020 nella seduta del 23 novembre 2021. Ha sempre svolto la propria attività in ambito penalistico, collaborando, sin dall’inizio del suo percorso professionale nell’ottobre 2017, con lo Studio Legale Sirani di Milano. All’interno dello Studio, ha maturato una significativa esperienza in tema di reati contro la persona e contro il patrimonio, di reati informatici, societari e fallimentari, di infortuni sul lavoro e in tema di responsabilità degli intermediari finanziari.Presta sistematicamente consulenza in materia di misure di prevenzione (interdittive e patrimoniali) applicate ai sensi del D.Lgs. 159/11, sicurezza sul lavoro e di responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato. E’ uno dei referenti del servizio di cooperazione giudiziaria riguardante la “data retention” che lo Studio presta per conto di uno dei primari internet service provider attivi sul mercato mondiale. Si occupa altresì dei reati previsti dal codice della strada e degli illeciti previsti dal testo unico sulla droga.

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