Prevenire la corruzione: tra appalti pubblici e imprese private

Prevenire la corruzione: tra appalti pubblici e imprese private

Le armi preventive introdotte dalla l.190/2012 fronteggiano anche la grave patologia italiana dell’infiltrazione mafiosa nel mercato degli appalti pubblici, ispirandosi ai modelli gestionali del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, recante “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300” e alla ratio della normativa antimafia, il cui incipit inizia con legge 13 agosto 2010, n. 136, recante “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”. La politica di prevenzione in esame, infatti, parte dal presupposto che è necessario agire alla radice del fenomeno corruttivo, il quale, se particolarmente sistemico e sommerso, indica una solida presenza di criminalità organizzata.

È noto, infatti, come quest’ultima tenda ad assumere il controllo delle gare, attraverso imprese contraenti affiliate ed infettate dal germe mafioso e che sia necessario un nuovo percorso preventivo, non eccessivamente burocratizzato ed oneroso per gli operatori economici. Per farlo occorre incentivare la cultura della partecipazione ad una legalità pubblica condivisa, non solo formale, ma anche sostanziale[1].

Dunque, si descriveranno alcuni strumenti utili per gli operatori economici privati, in grado di conciliare due importanti esigenze: da una parte contrastare con forza la criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici; dall’altra, impedire che l’ordinamento antimafia e anticorruzione diventino essi stessi un ostacolo ai principi concorrenziali[2].

Uno dei contemperamenti degli obiettivi anzidetti ha avuto luogo all’art.1, comma 52, della l.190/2012, come modificato dalla l. 114/2014 nell’ottica del perseguimento degli obiettivi di prevenzione designati dalle direttive europee di quarta generazione in materia di appalti pubblici[3].

Si stabilisce, in primis, che per le attività maggiormente esposte al rischio di infiltrazione mafiosa – elencazione al comma 53 – la comunicazione e l’informazione antimafia sono acquisite dalle stazioni appaltanti, attraverso la consultazione di un apposito “elenco” presso ogni prefettura, di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa. Si può quindi affermare che l’accoglimento della domanda di iscrizione dell’impresa all’interno della white list è equipollente all’informativa antimafia[4], anzi: l’assunto è stato ulteriormente avvalorato dalla sopravvenuta obbligatorietà alla consultazione della white list da parte delle amministrazioni pubbliche in caso di procedura di affidamento, così come indicato dall’art. 29, comma 1, del d.l. 90/2014 e dall’art. 7 del d.P.C.M. 18 aprile 2013[5].

In realtà, l’iscrizione alla white list equivale all’ottenimento dell’informativa antimafia solo quando “i destini si incrociano”[6], cioè nel momento in cui l’amministrazione pubblica consulta l’elenco nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica cui ha partecipato l’impresa iscritta.

In sostanza, ciò determina sicuramente uno snellimento della procedura per gli operatori economici privati, poiché non sono necessari ulteriori adempimenti onerosi, essendo sufficiente la mera iscrizione a presumere l’assenza di tentativi di infiltrazione di criminalità organizzata. La ratio è quella di acquisire, in anticipo e senza oneri per la spesa pubblica, una verifica sull’integrità delle imprese, in quanto eccessive lungaggini potrebbero portare – in caso di comprovati tentativi di infiltrazione mafiosa – alla risoluzione di contratti pubblici stipulati entrati già in fase di esecuzione.

Per assicurare, tuttavia, un solido sistema preventivo, la prefettura effettua verifiche periodiche circa la perdurante insussistenza dei suddetti rischi e, in caso di esito negativo, dispone la cancellazione dell’impresa dall’elenco[7].

Il funzionamento della disciplina e delle modalità relative all’istituzione e all’aggiornamento delle white lists è demandato, dall’art.1, comma 56 della l.190/2012, al d.P.C.M. 18 aprile 2013, recante “Modalità per l’istituzione e l’aggiornamento degli elenchi dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa, di cui all’articolo 1, comma 52, della legge 6 novembre 2012, n. 190”. Il coinvolgimento di altre forme di regolazione esterne alla legge si denota, altresì, nell’intenzione di non trascurare la duttilità del sistema imprenditoriale mafioso: il comma 54, infatti, prevede un costante aggiornamento delle attività maggiormente sottoposte a rischio, da adottarsi, laddove necessario, entro il 31 dicembre di ogni anno con decreto del Ministero dell’Interno.

Vale, però, ricordare come la normativa abbia dovuto coordinarsi con altre disposizioni vigenti, non senza difficoltà[8]. Non solo, la stessa legge conteneva perplessità sollevate dal Presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, il quale, con l’Atto di segnalazione 21 gennaio 2015, n.1, rimarcò il problema dell’asimmetria tra obblighi in capo alle stazioni appaltanti e alle imprese: se, da una parte, le prime avevano il dovere di consultare gli elenchi presso le Prefetture, le seconde non erano destinatarie, chiaramente ed esplicitamente, di un dovere di iscrizione nelle white lists.

Ora, invece, con il d.P.C.M. del 24 novembre 2016, si chiarisce il quadro normativo, stabilendo che, per quanto riguarda i settori a rischio corruzione, la stipula, l’approvazione o l’autorizzazione di contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture, è obbligatoria l’iscrizione dell’impresa nell’elenco, ai fini della comunicazione e dell’informazione antimafia liberatoria.

L’iscrizione dell’impresa nella white list della prefettura è altresì indispensabile per l’incremento del punteggio base per l’ottenimento del rating di legalità, disciplinato all’art. 5 ter legge 27/2012, recante “Misure urgenti in materia di concorrenza, liberalizzazioni e infrastrutture”. Ciò dimostra la forte interconnessione degli istituti che si stanno sommariamente descrivendo: white lists, rating di legalità, rating d’impresa e accordi pattizi tra imprese e Pubblica amministrazione dimostrano il crescente tentativo del legislatore di incoraggiare i comportamenti virtuosi delle imprese, nella finalità – forse utopistica – di costruire un sistema preventivo dove etica e affari appaiono legati inscindibilmente[9].
Il rating di legalità può considerarsi uno strumento “premiale”, il cui conseguimento implica una serie di vantaggi, per quanto riguarda l’aspetto reputazionale sul mercato, concessioni di finanziamenti pubblici e crediti bancari[10].

La competenza in materia spetta all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), la quale assegna un punteggio per il grado di correttezza nella gestione del business d’impresa[11]. Al fine di incrementare la propria posizione, gli operatori economici privati possono iscriversi in uno degli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa (white list), in quanto ciò comporta l’assegnazione di un voto espresso in “+” rispetto al punteggio base, calcolato in “★”, determinante non solo per l’ottenimento dei vantaggi sopracitati, ma anche in sede di gare d’appalto.

La finalità dell’istituto, dunque, non si esaurisce in una semplice valutazione, ma promuove una generale attitudine alla legalità, in quanto strettamente connesso ai regimi preventivi in materia di criminalità organizzata (tramite white list) e nel settore del mercato degli appalti pubblici. Trasporre l’istituto nell’ambito della contrattualistica pubblica risponde, altresì, all’obiettivo comunitario, delineato all’interno delle direttive del 2014, di adottare “best practicies” per costituire nuovi criteri reputazionali che incoraggino una gestione degli affari eticamente corretta[12].

Un esempio di applicazione del rating di legalità è dato dall’art. 93, comma 7 del d.lgs. 50/2016 che stabilisce che nei contratti di servizi e forniture, l’importo della garanzia e del suo eventuale rinnovo è ridotto del 30 per cento, non cumulabile con altre riduzioni, per gli operatori economici in possesso del rating di legalità. Inoltre, le stazioni appaltanti, possono utilizzarlo come criterio premiale nella valutazione delle offerte, qualora sia previsto dalla documentazione di gara e sia utilizzato il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa[13]. Tuttavia, il rating di legalità non può costituire causa di esclusione dalla gara, in quanto “strumento volto alla promozione della legalità e dei comportamenti etici in ambito aziendale, operante su base volontaria, il cui accesso è riservato alle imprese aventi sede operativa nel territorio nazionale, iscritte al registro delle imprese da almeno due anni, che abbiano raggiunto un fatturato minimo di due milioni di euro nell’esercizio chiuso l’anno precedente alla richiesta di rating”[14]. Pertanto, considerare il rating di legalità come indispensabile per l’accesso alle gare d’appalto è illegittimo per Anac, in quanto fortemente limitativo della libera concorrenza – per le micro e piccole imprese – e contrastante con il principio di tassatività delle cause di esclusione.

I requisiti anzidetti sono stabiliti dall’AGCM, tramite apposito Regolamento[15], coinvolgendo, altresì, l’Autorità nazionale anticorruzione nella fase di attribuzione del rating: la collaborazione tra le due Autorità è stata confermata da un protocollo d’intesa (11 dicembre 2014) sulla prevenzione della corruzione negli appalti pubblici[16].

In realtà, gli elementi per poter richiedere l’iscrizione al rating di legalità appaiono di dubbia compatibilità con il diritto dell’Unione europea, poiché solo le imprese con sede in Italia possono godere dei vantaggi in sede di gare d’appalto. Pertanto, un’interpretazione conforme al principio di concorrenza richiederebbe l’applicazione del rating solo in caso marginali (ad es. procedure sotto soglia comunitaria)[17].

Un ulteriore strumento fondato sulle caratteristiche reputazionali delle imprese è il rating d’impresa, istituito all’art. 83, comma 10, del Codice dei contratti pubblici. Esso fornisce le dovute garanzie alle stazioni appaltanti in merito all’affidabilità del futuro contraente, prevenendo ipotesi di corruzione o di mala gestio nell’esecuzione dell’appalto: più in generale, esso contribuisce alla creazione di un mercato efficiente, nel quale operino soggetti in possesso di idonee caratteristiche economico finanziarie e professionali[18]. L’operatore economico privato, dunque, prima ancora di accedere alla gara, ha necessità di soddisfare dei prerequisiti e, perlomeno originariamente, tutte le imprese – italiane e non – avrebbero dovuto ottenere il rating di impresa in via obbligatoria.  Tuttavia, l’Autorità nazionale anticorruzione si espresse sin da subito particolarmente critica nei confronti di tale strumento: ad esempio, l’obbligatorietà e la difficile coordinazione con il rating di legalità avrebbero compromesso la nascita di un sistema di premialità aggiuntive[19] . Le segnalazioni dell’Anac sono state poi, in gran parte, accolte nel decreto correttivo 56/2017, ma, ad oggi, non vi è ancora una chiara regolamentazione, in quanto i requisiti reputazionali e i criteri di valutazione degli stessi, nonché le modalità di rilascio della certificazione devono attendere l’emanazione delle linee guida Anac. In ogni caso, il rating di impresa dovrà fondarsi su elementi di fatto, sussumibili oggettivamente dai comportamenti passati dell’operatore economico privato: in tal modo, si eviterà l’eccessiva discrezionalità delle amministrazioni pubbliche nella valutazione in fase di gara e, conseguenzialmente, il paradosso di favorire il rischio corruttivo[20].

In realtà, è proprio la l.190/2012 ad introdurre nuove cause di esclusione dalle gare d’appalto, al fine di adempiere agli obiettivi di prevenzione della corruzione. L’art. 1, comma 17, dispone che: “le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara”. La volontà del legislatore di estendere l’ambito di operatività delle misure di prevenzione alla corruzione nel settore dei pubblici appalti ha condotto alla produzione di strumenti di carattere pattizio, quali, appunto, i protocolli di legalità o patti di integrità.

La norma in esame è, infatti, il frutto di un diverso approccio alla lotta alla corruzione, derivante, a sua volta, di un mutamento del diritto amministrativo più in generale, ma non solo: tale intervento testimonia la tradizionale focalizzazione della legislazione sul pericolo delle infiltrazioni mafiose nel settore degli appalti pubblici[21].

L’utilizzo dei protocolli di legalità, dunque, conferma come la Pubblica amministrazione abbia mutato il proprio modello, passando dal tipo autoritativo, ad uno più aperto alla ricerca del consenso degli operatori economici privati, anche attraverso strumenti di diritto civile[22].  La Legge Severino rispettando il mutamento progressivo dell’ordinamento, recupera e rafforza uno strumento già in auge negli anni ’90 nel settore delle “grandi opere”, ideato da Trasparency International Italia, al fine di compensare e sopperire le tarde reazioni di meccanismi legislativi di prevenzione e contrasto[23]. In definitiva, se, da una parte, delimita il mercato dei contratti pubblici[24], poiché la stazione appaltante può esigere la sottoscrizione del patto o del protocollo a pena di esclusione dalla gara, dall’altra si rafforzano gli strumenti di compliance secondo la logica precisa di affidamento a uno strumento propriamente contrattuale del governo delle politiche di prevenzione di alcuni fenomeni (corruzione) e di attenzione verso altre istanze (sostenibilità)[25].

Alla stregua degli interventi normativi brevemente descritti in tema di affidabilità imprenditoriale, si denota come l’interesse pubblico a determinare un ambiente favorevole per una gestione aperta, responsabile, trasparente degli appalti della pubblica amministrazione è, pertanto, favorito dalla diffusione della cultura del rispetto delle regole nel fare impresa e dalla cooperazione tra settore privato e Pubblica amministrazione.


[1] G.M. FLICK, Dalla repressione alla prevenzione o viceversa? dalle parole ai fatti per non convivere con la corruzione, op.cit., pag. 2754B.
[2] M. MAZZAMUTO, Profili di documentazione amministrativa antimafia, in www.giustamm.it, fasc.3, 2016.
[3] N. PARISI, M. L. CHIMENTI, Il ruolo dell’a.n.a.c. nella prevenzione della corruzione in materia di appalti pubblici, in “Diritto del commercio internazionale”, fasc. 2, pag. 419.
[4] Secondo l’art. 84, comma 3, d.lgs. 159/2011, l’informativa antimafia attesta, oltre a quanto già previsto per la comunicazione antimafia (sussistenza o meno delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del D. Lgs. 159/2011) anche la sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate.
[5] M. MAZZAMUTO, Profili di documentazione amministrativa antimafia, op.cit.
[6] Ibidem.
[7] M. NOCELLI, I più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul complesso sistema antimafia, in “Foro amministrativo”, fasc.12, 1° marzo 2017, pag. 2524.
[8] Ad esempio, la legge 12 luglio 2011, n.106, istituisce, anch’essa, un elenco presso le prefetture, per velocizzare le procedure di affidamento dei contratti pubblici, senza però tener conto di quanto già previsto dalla Legge Severino, rischiando un inutile duplicazione burocratica.
[9] G. ARMAO, Brevi considerazioni su informativa antimafia e rating di legalità ed aziendale nella prevenzione delle infiltrazioni criminali nei contratti pubblici, in www.giustamm.it, fasc. 3, 2017.
[10] N. PARISI, M. L. CHIMENTI, Il ruolo dell’a.n.ac. nella prevenzione della corruzione in materia di appalti pubblici, op.cit., pag. 419.
[11] Il rating di legalità ha riscosso sempre maggior successo tra le imprese, in quanto nei primi sei mesi del 2018, circa duemila società hanno richiesto il rilascio del rating all’AGCM: un dato, che se proiettato sull’intero anno, dimostra un incremento del 40% rispetto al 2017.
[12] G. MARCHIANO’, La regolamentazione nella domanda pubblica alla luce della legge delega di recepimento delle nuove direttive: il ruolo dell’amministrazione, in “Rivista italiana di diritto pubblico comunitario”, fasc.1, 2016, pag. 1.
[13] Art. 95 comma 13, d.lgs. 50/2016.
[14]  Autorità nazionale anticorruzione, Istanza di parere di precontenzioso, delibera n. 101 del 7 febbraio 2018, p.2.
[15] Autorità garante della concorrenza e del mercato, Regolamento attuativo in materia di rating di legalità, delibera n. 27165 del 15 maggio 2018.
[16] N. PARISI, M. L. CHIMENTI, Il ruolo dell’a.n.ac. nella prevenzione della corruzione in materia di appalti pubblici, op.cit., pag. 419 ss.
[17] R. DAMONTE, M. BERSI, La partecipazione degli operatori economici stranieri agli appalti pubblici ed alle concessioni in Italia ai sensi del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, in “Diritto del commercio internazionale”, fasc.1, 2017, pag. 101 ss.
[18] L. GALLI, M. RAMAJOLI, Il ruolo della reputazione nel mercato dei contratti pubblici: il rating d’impresa, in “Rivista della regolazione dei mercati”, fasc. 1, 2017, p. 65-66.
[19] A. GIANNELLI, Commento all’art. 83, in G.M. ESPOSITO (a cura di), Codice dei contratti pubblici. Commentario di dottrina e giurisprudenza, Utet, Torino, 2017, p. 1088.
[20]  Ibidem., p. 1098.
[21] G.M. FLICK, Mafia e imprese vent’anni dopo Capaci, via D’Amelio, Mani pulite. Dai progressi nella lotta al crimine organizzato, ai passi indietro nel contrasto alla criminalità economica e alla corruzione, in “Rivista delle società”, fasc.2-3, 2013, pag. 505.
[22] S. AMOROSINO (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1995, p. 263.
[23] F. SAITTA, Informative antimafia e protocolli di legalità, tra vecchio e nuovo, in “Rivista trimestrale degli appalti”, fasc.2,2014, p. 425.
[24] Tuttavia, sulla limitazione introdotta dall’art. 1, comma 17, l.190/2012 si era pronunciata favorevolmente la Corte di Giustizia dell’Unione europea, che, con sentenza 22/10/2015, nella causa C‑425/14, ha affermato che “non si può ritenere che l’obbligo di dichiarare l’accettazione degli impegni contenuti in un protocollo di legalità sin dall’inizio della partecipazione a una gara per l’aggiudicazione di un appalto ecceda quanto necessario al fine del raggiungimento degli obiettivi perseguiti”.
[25] M. ATELLI, “Il governo contrattuale”, intervento al Toplegal Forum, 2015. Testo consultabile su: http://corporatecounselawards.toplegal.it/wp-content/uploads/2015/04/Forum-2015.pdf, p.12.

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