Principi di precisione e determinatezza: ostacoli alla tutela penale della violenza di genere

Principi di precisione e determinatezza: ostacoli alla tutela penale della violenza di genere

Sommario: 1. Premessa – 2. Il caso in esame – 3. Il termine “violenza” nella Convenzione di Istanbul – 4. Violenza: la natura normativa del termine – 4.1. La prima discrasia tra diritto e psicologia: il principio di precisione – 5. Il significato poliedrico della violenza – 5.1. Quando il contenitore fa il contenuto: il c.d. “Cyrcle of violence” – 6. La seconda discrasia tra diritto e psicologia: il principio di determinatezza – 7. Conclusioni

 

1. Premessa

Ogni giorno, nelle aule di tribunale o sulle pagine di cronaca nera, sono decine e decine i casi presentati come “violenza di genere”. L’ulteriore consapevolezza che tale fenomeno subisce una “cifra nera” importante ci induce a pensare che, nonostante l’emancipazione e i diritti conquistati e ottenuti dalle donne nella società moderna, la violenza di genere sia una delle principali piaghe del ventunesimo secolo.

Anzi, la strana coesistenza temporale delle due tendenze (aumento della violenza ed emancipazione femminile) porta a chiederci se non sia proprio l’affrancamento della donna dalla figura maschile ad aver comportato nell’uomo una maggiore vulnerabilità, imputabile a una progressiva perdita dell’eccentricità del suo ruolo in ambito sociale e familiare, che, a volte, sfocia in episodi di frustrazione e aggressività.

Accanto a campagne di sensibilizzazione, pubblicizzate da scuole e mass media, anche il diritto si è attivato al fine di fornire una risposta a tale problematica. Nello specifico ambito penalistico, il Legislatore si è mosso secondo due direttive: da un lato, attraverso l’introduzione di nuove fattispecie criminose contro moderne forme di violenza (ad es. il delitto di “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”[1], conosciuto anche come revenge porn), dall’altro mediante modifiche al codice procedurale, volte a garantire un più celere e tempestivo intervento da parte di forze dell’ordine e magistratura nei casi di reati violenti. Su tutti vanno ricordati il c.d. Codice Rosso[2] e le sue seguenti integrazioni e correzioni[3].

Nonostante l’adozione di tali strumenti, peraltro tutti di recente introduzione (cfr. note a piè pagina, n. 2 e 3), la piaga della violenza sulle donne permane capillare ed egualmente diffusa su tutto il territorio nazionale.

Da quanto affermato emergerebbe, dunque, che la risposta sanzionatoria non sembri arginare il problema. Infatti, come si approfondirà nei successivi paragrafi, sul piano penalistico non è semplice sussumere il fenomeno della violenza di genere in fattispecie che devono sottostare al principio di legalità, e ai suoi corollari, e che talora risalgono culturalmente alla sensibilità giuridica del secolo scorso.

Partendo da tale riflessione, il presente elaborato si propone di affrontare alcune problematiche, tipiche del diritto, sulle quali, talvolta. scienze giuridiche e scienze psicologiche non sono per nulla allineate. In particolare, l’obiettivo è quello di dimostrare come il primo e più importante scoglio giurisprudenziale, che impedisce una piena tutela del fenomeno, sia intrinsecamente legato al lessico e all’esigenza di rendere sempre concreto, ai fini probatori, il termine “violenza”.

2. Il caso in esame

Quale spunto del presente elaborato e della tesi che, con esso, si vuole dimostrare, ho voluto prendere in esame una sentenza adottata dalla giurisprudenza di merito la quale, a parere di chi scrive, rappresenta un osservatorio privilegiato per aprire a considerazioni empiriche e, dunque, a problematiche probatorie.

Il provvedimento in commento (ora passato in giudicato) è stato emesso dal Tribunale penale di Lecco[4] che, in composizione collegiale, era chiamato a pronunciarsi su un presunto caso di maltrattamenti contro familiari e conviventi, nella forma aggravata, oltreché su altri reati. In particolare, all’imputato veniva contestato, oltre alla violenza fisica, di aver proferito ingiuria e minacce nei confronti della moglie, verso la quale aveva maturato un atteggiamento denigratorio e d’insofferenza in un contesto generale definito “maltrattante”.

Al termine dell’istruttoria, i magistrati lecchesi hanno assolto, perché il fatto non sussiste, l’imputato per il delitto di maltrattamenti, ritenendolo responsabile unicamente di lesioni. Senza voler anticipare il filo del ragionamento, e dunque le conclusioni del presente scritto, i giudici hanno valorizzato alcuni elementi della relazione intercorrente tra i coniugi, quali la reciprocità delle invettive, la contestualizzazione degli episodi di violenza verbale e fisica in momenti di particolare tensione emotiva e, ancora, la posizione di entrambi rispetto all’idea di percorrere la via di una separazione civile, per cercare di tracciare il labile confine tra condotta maltrattante (integrante la fattispecie ex art. 572 c.p.) e condotta contestualmente violenta e minatoria, la quale tuttavia non manifesta l’ontologia tipica del reato di maltrattamenti, pur mantenendo ovviamente un proprio disvalore sia sotto il profilo penale sia sotto il profilo psicologico-relazionale.

Dunque, come si vedrà nell’elaborato, non sempre giurisprudenza e psicologia sono concordi nel definire una tale situazione allo stesso modo “violenta” e “maltrattante”, in quanto la prima opera sul piano oggettivo, con regole e procedure ben precise, mentre la seconda su quello soggettivo, in ragione soprattutto della sensibilità di ognuno.

Proprio questa incolmabile discrasia è, secondo la scrivente, da considerarsi il maggior ostacolo all’ottenimento di una piena e totale tutela giuridica del fenomeno, in quanto il diritto, per le ragioni che si diranno, non può essere considerato l’unica arma di contrasto alla violenza e, forse, nemmeno la più idonea (basti pensare che la magistratura interviene solo ex post, e non anche ex ante, rispetto al comportamento violento).

3. Il termine “violenza” nella Convenzione di Istanbul

Nonostante, curiosamente, i principali delitti “spia” di una situazione di sopruso e sopraffazione nei confronti delle donne (ad es., artt. 572, 612-bis, 612-ter c.p.) non facciano alcun rimando, nel testo della norma, al termine “violenza”, gli stessi puniscono e, di conseguenza, presuppongono proprio comportamenti nei quali si manifesta una condotta violenta. In altre parole, al fine dell’accertamento di tali reati, e dunque della condanna del colpevole e del conseguente riconoscimento dello status giuridico di vittima, è necessario che sia stata praticata una forma di violenza ai danni della persona offesa e, quindi, nello specifico caso, della donna.

Orbene, la definizione di “violenza”, dovendo essere considerata un c.d. termine normativo, è stata fissata nella Convenzione di Istanbul[5], adottata dal Consiglio d’Europa e, perciò, sottoscritta anche dall’Italia. In particolare, la Carta, all’art. 3, lett. a), spiega in questi termini l’espressione, calzante ai fini dell’elaborato, di “Violenza nei confronti delle donne”: “…violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

Inoltre, la Convezione richiamata precisa come tale violenza faccia rimando al “genere”[6], inteso come comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appannaggio esclusivo della donna. In altri termini, come viene approfondito nel Rapporto elaborato dal Gruppo CRC, il genere richiama differenze elaborate dalla società attorno all’identità maschile e femminile, non riferendosi, quindi, a un carattere innato e naturale[7].

Dunque, quando si fa riferimento alla c.d. violenza di genere si rimanda a tutti i comportamenti, rientranti nella suddetta definizione, commessi nei confronti di una donna solo e proprio perché tale.

4. Violenza: la natura normativa del termine

Sebbene il concetto di violenza sia stato definito, come illustrato nel precedente paragrafo, dalla Convenzione di Istanbul, tale termine non esprime un significato assoluto, innato, in quanto non può essere riconosciuto in re ipsa a una cosa o a una situazione. Diversamente da un elemento naturalistico, presente dunque in rerum natura senza che abbisogni di alcuna spiegazione, la “violenza” identifica un elemento normativo, determinabile perciò mediante convenzione.

Più precisamente, richiamando le categorie elaborate dalla dottrina, il termine di cui si sta disquisendo va considerato un elemento normativo extragiuridico[8], definibile dunque con riferimento a parametri valutativi propri di scienze o di ambiti diversi dal diritto, quali, ad esempio, regole sociali, etiche e di costume. Tale classificazione è stata accolta anche dalla giurisprudenza la quale, in una sentenza attinente il delitto di cui all’art. 527 c.p., ha chiarito che un c.d. elemento normativo extragiuridico può essere delineato altresì con riferimento al comune senso del pudore, dunque a convinzioni e realtà fluide e variabili[9].

Precipitato logico di quanto sino ad ora affermato è il fatto che la parola “violenza” assume un significato, e quindi un contenuto, estremamente mutevole, parametrato non solo all’epoca e alla cultura di riferimento, ma anche alla sensibilità sociale in continua evoluzione. Di conseguenza, a livello giuridico e soprattutto giurisprudenziale, può comportare problematiche in termini di legalità, in specie con riferimento alla sua declinazione di precisione.

4.1. La prima discrasia tra diritto e psicologia: il principio di precisione

Come già anticipato nei precedenti paragrafi, il diritto penale soggiace, tra gli altri, al principio di legalità, previsto e tutelato dall’art. 25 co. II Cost. e dagli artt. 1 e 2 c.p. Specificamente, per quel che qui interessa, la materia è governata dal principio di tassatività per cui, da un lato, il Legislatore ha l’obbligo di procedere a una puntuale determinazione di ciò che è permesso e ciò che è vietato e, dall’altro, il giudice ha il divieto di applicare la norma a casi da essa non espressamente preveduti (c.d. divieto di analogia).

In particolare, a parere di chi scrive, ai fini della tesi sostenuta nell’elaborato, la legalità è rilevante nella sua particolare connotazione di precisione[10]. Secondo tale corollario, l’autorità giudiziaria, nel valutare il singolo caso, non può addivenire a un’interpretazione normativa che lasci spazio a vere e proprie scelte politiche-criminali. Il singolo magistrato non potrà basarsi sulla propria sensibilità, ma dovrà attenersi a regole giuridiche o extragiuridiche che delineano il campo del lecito e dell’illecito, secondo un certo grado di prevedibilità.

Tale tesi è anche sostenuta e chiarita dalla giurisprudenza, nazionale ed europea. In particolare, le Sezioni Unite[11], pronunciandosi sul reato di rapina impropria e richiamando il convincimento espresso dalla Corte EDU, hanno affermato: “Il dato decisivo da cui dedurre il rispetto del principio di legalità, sempre secondo la Corte EDU[12], è, dunque, la prevedibilità del risultato interpretativo cui perviene l’elaborazione giurisprudenziale, tenendo conto del contenuto della struttura normativa, prevedibilità che si articola nei due sotto-principi di precisione e di stretta interpretazione”.

Orbene, i suddetti principi devono essere rispettati anche con riferimento ai cc.dd. elementi normativi extragiuridici nei quali, come già visto, rientra il concetto di violenza. Dunque, al fine dell’illiceità della condotta, sul piano penale, il soggetto agente deve essere in grado di prevedere che una determinata azione sarà giudicata “violenta” e, dunque, passibile di condanna.

A tal fine, per stabilire se un comportamento sia da considerarsi violento oppure no, è necessario rifarsi alla coscienza morale e sociale, nonché alle scienze psicologiche in continua e costante evoluzione. Quindi, proprio per la fluidità di queste materie, cui si rimanda, anche sotto il profilo giuridico il concetto di violenza è in continua mutazione ed espansione. Tuttavia, proprio qui s’insinua un’ineliminabile discrasia tra psicologia e diritto: infatti, se la prima pone al centro la percezione del singolo (non è detto che ognuno recepisce lo stesso comportamento “violento”), il secondo abbisogna di maggior certezza, di prevedibilità appunto, non potendo basarsi sulla mera impressione individuale.

Proprio per il fatto che, per la giurisprudenza, a nulla rileva, di per sé, la moralità e la sensibilità di un determinato soggetto, per stabilire se una condotta sia giuridicamente violenta, occorre prendere a parametro il sentire comune, ossia ciò che è considerato tale dalla società. Solo in questo modo, l’agente può prevedere la rilevanza penale delle sue azioni.

Ciò precisato, è del tutto evidente, quindi, come la dilatazione del significato di violenza in diritto non possa essere altro che susseguente rispetto a quella che avviene sul piano etico-sociale. Per tale motivo, fino a quando un dato comportamento non sia pacificamente accettato dalla maggioranza come “violento”, in giurisprudenza si aprirà un vulnus di tutela, a garanzia del costituzionale principio di precisione e quindi di legalità.

A riprova di tale meccanismo, e di tale distanza temporale, c’è il fatto che, spesso, vengono introdotti nuovi reati solo quando il fenomeno si è socialmente consolidato e, dunque, è considerato pacificamente allarmante e violento, secondo la comune sensibilità (si citi ancora una volta il reato di revenge porn).

Alla luce di ciò è, quindi, importante stabilire, a livello psicologico-linguistico, quali atteggiamenti possano ora rientrare nel concetto di violenza, al fine di addivenire a un’interpretazione letterale del temine quanto più possibile aderente alla realtà, tenendo comunque conto dell’imprescindibile principio di prevedibilità che la giurisprudenza, in qualunque caso, è chiamata ad applicare.

5. Il significato poliedrico della violenza

Come illustrato, data la sua natura di elemento normativo extragiuridico, il termine violenza deve essere definito, anche ai fini giuridici, richiamando i significati e le connotazioni attribuitigli dalle regole etico-morali e dalle scienze psicologiche. Dunque, primo e più importante strumento a disposizione del giudice rimane l’interpretazione letterale.

Tuttavia, proprio per la fluidità di tale nozione e l’evoluzione che, nel corso degli anni, ha visto una sempre più netta espansione del suo significato, non è possibile addivenire a un’interpretazione certa e definitiva. In altre parole, il confine giuridico tra un comportamento lecito o illecito si modifica a seconda della sensibilità sociale sviluppatasi attorno al concetto di “violenza”: è, quindi, la società a suggerire al diritto cosa è permesso e cosa è proibito, e non viceversa. A tal proposito, la dottrina antropologica parla di “imputabilità culturale[13].

Orbene, è dunque evidente, volendo prendere in considerazione la sola cultura autoctona, che rispetto agli anni Quaranta, periodo in cui è entrato in vigore il Codice Rocco, il termine violenza abbia visto una notevole dilatazione (per certi versi onnivora), ricomprendendo disparati comportamenti sopraffattori che possono trovare esclusiva tutela nel diritto penale poiché, essendo il nostro un sistema c.d. paternalistico, il Legislatore ha lasciato minimo margine all’autotutela[14]. Per semplificare, non volendo tuttavia incorrere in ovvie banalità, se al tempo della cultura fascista si considerava violento il solo corpo a corpo, ora le stesse norme vanno a tutelare anche condotte differenti rispetto alla violenza fisica, comunque soverchiatorie. In termini giuridici, si è quindi assistito a un’evoluzione ed espansione del bene giuridico garantito.

Prima di elencare, seppur sommariamente, le più importanti forme di violenza riconosciute dalle scienze psicologiche, cui il diritto si deve rifare, occorre porre in luce il comune denominatore di tutti gli atteggiamenti considerati prevaricatori e, conseguentemente, violenti. Al proposito, studi psicologici hanno evidenziato una forte connessione tra potere e violenza; ovviamente, si tratta di potere non istituzionalizzato e, quindi, non riconosciuto e garantito. Alcuni autori fanno appello alla c.d. strategia del potere con cui, riferendosi all’abuso domestico, s’intende “una tattica fredda…mirata ad assoggettare, nella quale quello che comunemente si identifica come violenza è soltanto uno degli strumenti di intimidazione, offesa e asservimento”[15].

Dunque, secondo la psicologia, ciò che classifica un comportamento “violento” è la modalità con cui esso è perpetrato. In altri termini, non può esistere una connotazione statica di violenza, in quanto essa non è ex se definita e definibile. Ciò ha comportato uno sfrondamento dei confini, sociali e morali, di tale concetto, non più ridotto alle molestie fisiche e sessuali. Al contrario, antropologia e scienze psicologiche, hanno ufficialmente riconosciuto, almeno nella nostra cultura, le forme di violenza economica, psicologica (anche nelle sue accezioni di ghosting[16] e love bombing[17]), verbale e sociale.

5.1. Quando il contenitore fa il contenuto: il c.d. “Cycle of violence

La natura violenta di un comportamento non è definita ex se, ma deve essere sempre parametrata alla modalità con cui si manifesta. Dunque, la violenza è un modo d’essere di un rapporto di potere, non istituzionalizzato, volto a sopraffare l’altro.

Partendo da tale convincimento, per cui a plasmare il contenuto (cioè la violenza) è il contenitore (ossia le dinamiche di potere), la psicologa Lenore E. Walker, applicando questo paradigma all’abuso domestico, ha elaborato la c.d. teoria della Bettered Woman Syndrome (teoria della donna maltrattata)[18]. La studiosa ha, difatti, riconosciuto in tutti i rapporti maltrattanti le medesime dinamiche.

Basandosi su un lavoro di osservazione e studio di varie casistiche, la Walker ha sviluppato quello che è stato definito “Cyrcle of violence” o “Cyrcle of abuse”. Secondo tale teoria, in tutte le relazioni maltrattanti, a prescindere dalle condotte poste in essere dal maltrattante ai danni del maltrattato (o, più spesso, della maltrattata), si riconoscono almeno tre fasi, le quali si ripetono ciclicamente, dando vita a un vero e proprio rapporto di dipendenza.

Senza alcuna pretesa di esaustività, è opportuno accennare a ognuna di tali fasi[19]:

  1. Fase della formazione della tensione (Tension-building): l’aggressore pone in essere comportamenti ostili, volti al possesso e al controllo della vittima con tendenza a colpevolizzarla anche per motivi futili in modo da giustificare la propria, futura, azione violenta;

  2. Fase di esplosione o aggressione (the acute battering incident): caratterizzata dall’esplosione della violenza accumulata durante il precedente periodo. L’aggressore lede o mette a repentaglio l’incolumità fisica e/o psicologica della vittima;

  3. Fase di riconciliazione (loving contrition): è il momento della riappacificazione, in quanto il maltrattante tende ad essere rassicurante e disposto a cambiare, in modo da ottenere la fiducia della vittima che, sempre più isolata e fragile, vedrà nel compagno violento l’unica fonte di protezione, istaurando così un vero e proprio rapporto di dipendenza[20].

Orbene, secondo questa teoria psicologica è proprio il susseguirsi di tali fasi che rende un rapporto “violento”. A prescindere dalle condotte poste in essere, un legame si può, dunque, definire maltrattante se tra vittima e carnefice s’istaura quella relazione di dipendenza, fondata sul potere, illegittimo e non giustificato, esercitato dal secondo sulla prima. Dunque, non è tanto la singola azione, o le singole azioni, a rilevare, ma lo squilibrio relazionale-affettivo basato su dinamiche di sopraffazione e controllo dell’uno verso l’altra.

Alla luce di quanto affermato, almeno per ciò che riguarda il riconoscimento del delitto ex art. 572 c.p., al fine di accertare la sussistenza di maltrattamenti, l’autorità giudiziaria dovrebbe valutare se, nel caso concreto, siano presenti i connotati e le caratteristiche di una relazione maltrattante, ossia costruita sul binomio potere-dipendenza, qualunque sia la natura delle azioni poste in essere dal soggetto attivo nei confronti della persona offesa[21].

In tal modo, si garantirebbe maggiore tutela e maggior allineamento tra diritto e psicologia. Tuttavia, essendo tali scienze basate su presupposti e principi totalmente differenti, questa auspicata uniformazione non è di facile realizzazione, soprattutto perché, come si approfondirà nel successivo parametro, la giurisprudenza necessita di dati oggettivi ed empirici, non sempre rinvenibili nelle situazioni in cui le scienze psicologiche riconoscono casi di violenza.

6. La seconda discrasia tra diritto e psicologia: il principio di determinatezza

La distinta accezione, soggettiva e oggettiva, con cui s’interpreta il concetto di violenza in psicologia e diritto comporta, in giurisprudenza, un’irriducibile problematica in termini di determinatezza, quale altro corollario del principio di legalità ex art. 25 Cost.

Prima di entrare nel merito della questione, occorre riportare un breve excursus della dottrina e delle pronunce che hanno contribuito alla definizione e all’evoluzione di questo sottoprincipio.

In breve, il riferimento alla determinatezza, quale autonomo aspetto della legalità, è stato introdotto per la prima volta dalla sentenza con cui la Corte Costituzionale dichiarò illegittima la fattispecie delittuosa di plagio. Secondo la Consulta, l’art. 603 c.p. “…prevede[va] un’ipotesi non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato non essendo né individuabili né accertabili le attività che potrebbero concretamente esplicarsi per ridurre una persona in totale stato di soggezione, né come sarebbe oggettivamente qualificabile questo stato…[22].

Partendo da tale provvedimento, la dottrina[23] ha meglio fissato il requisito di determinatezza, non tanto in riferimento alla struttura normativa, quanto al profilo dell’interpretazione e ai risultati conoscitivi. In altre parole, un fatto è da considerarsi, a livello giuridico, determinato allorché sia verificabile nella realtà empirica.

In definitiva, semplificando, la determinatezza opera sotto il profilo probatorio: per cui, ai fini della rilevanza penale, un comportamento deve poter essere oggettivamente riscontrato nella realtà fenomenica[24].

Ciò posto, è evidente come, talvolta, la relazione di potere-dipendenza, tipica del “Cyrcle of violence”, che si crea tra maltrattante e maltrattato/a non riesca a manifestarsi e tradursi in elementi empirici, necessari ai fini dell’accertamento della responsabilità penale e della conseguente condanna dell’aggressore. In tali casi, seppur a livello psicologico la vittima percepisce lo stato di sottomissione, sul piano giuridico non è possibile riconoscere gli estremi dell’art. 572 c.p., per mancanza di prove oggettivamente accertabili.

Proprio tale discrasia, fondata sugli stessi presupposti governanti le materie psicologiche e giuridiche, è possibile fonte di un vulnus di tutela giurisprudenziale: il giudice, infatti, non può basarsi sulle mere impressioni della persona offesa, poiché altrimenti violerebbe il principio di determinatezza, il quale comunque funge da presidio costituzionale della legalità e certezza del diritto. In altre parole, ai fini della condanna penale, è necessario apportare prove fattuali, e cioè empiricamente dimostrabili, circa la sussistenza della relazione di dipendenza vittima-carnefice, giustificante l’integrazione del delitto di maltrattamenti.

In definitiva, come già detto, è proprio questo punto ad “allontanare” la realtà psicologica da quella giuridica, in quanto non sempre il disagio psichico della vittima, pur sempre esistente, si traduce in una situazione di sofferenza e sottomissione oggettivamente accertabile e, dunque, tutelata dal diritto penale.

7. Conclusioni

Riassumendo, dunque, le tesi sostenute nel presente elaborato, si afferma, in definitiva, che in merito al concetto di violenza la maggiore e più importante discrasia fra psicologia e diritto è dovuta al principio di legalità, irriducibilmente governante quest’ultimo. In particolare, ad ostacolo a una tutela penale piena e onnicomprensiva del fenomeno vi è il c.d. principio di tassatività, nella sua accezione di precisione, secondo cui l’agente deve essere in grado di prevedere l’illiceità o meno della sua condotta. Prevedibilità che viene garantita solo se un atteggiamento è considerato violento dalla società, a prescindere dalla sensibilità dell’individuo, rilevante invece sul piano psicologico.

Secondo ostacolo è imputabile, come spiegato, al principio di determinatezza, per il quale, dal punto di vista giuridico, la violenza, insita in una relazione di potere-dipendenza (c.d. relazione maltrattante), rileva ed è perciò punibile solo se corroborata e provata da elementi riscontrabili nel mondo empirico, a nulla rilevando la mera sensibilità e soggettività del singolo. In altre parole, è possibile che, psicologicamente, la persona si senta vittima di soprusi che, però, non hanno riscontro sul piano fenomenico e, dunque, non siano oggetto di responsabilità penale.

Il caso di specie da cui ha preso avvio la riflessione pone in evidenza esattamente questa situazione: per quanto la persona offesa si sentisse sopraffatta dal compagno, in giudizio non sono emersi elementi fattuali tali da accertare una situazione maltrattante che giustificasse la condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 572 c.p. Il Tribunale, ritenendo che il reato in questione “sottopone il soggetto passivo ad una condizione di inferiorità psicologica” (“Cyrcle of violence”), ha escluso, nel caso di specie, tale ricostruzione in quanto nella coppia non è stata riscontrata alcuna condizione di disequilibrio e dipendenza: il rapporto era caratterizzato da litigi e vessazioni reciproche, escludenti perciò una situazione maltrattante.

Ciò non toglie che, giuridicamente, questi atteggiamenti possano integrare differenti reati quali, ad esempio, minacce, lesioni, percosse e stalking.

Dunque, a parere di chi scrive, il diritto deve essere soltanto una delle tutele, e non la principale, del diffuso fenomeno della violenza. La società dovrebbe pertanto insistere su altri strumenti di garanzia tendenti a prevenire il più possibile le manifestazioni violente, puntando maggiormente sulla sensibilizzazione e sull’educazione. In questo quadro, quindi, sarebbe fondamentale fornire ai ragazzi, soprattutto in età adolescenziale, i giusti strumenti per riconoscere le relazioni potenzialmente maltrattanti e, allo stesso tempo, per controllare gli scatti di rabbia (o altre emozioni negative) che, alla lunga, potrebbero sfociare in una tendenza aggressiva. Tale compito, tuttavia, prima ancora che al Legislatore, deve essere demandato all’educazione parentale, alle scuole e più in generale ai gruppi di aggregazione, nonché ai centri antiviolenza.

In definitiva, anche in questo quadro, il diritto penale deve poter fungere da extrema ratio alla tutela del problema.

 

 

 

 

 

 


[1] Art. 612-ter c.p.
[2] Legge 19 luglio 2019, n. 69.
[3] Da ultimo, Legge 24 novembre 2023, n. 168.
[4] Trib. di Lecco, Sez. II Pen., sent. 15 settembre 2022, n. 705.
[5] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul, 11 maggio 2011.
[6] Art. 3, lett. c), Conv. di Istanbul.
[7] Cfr. 13° Rapporto di aggiornamento 2023, Gruppo di Lavoro per la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
[8] Così, F. MANTOVANI, Diritto penale.Parte generale, Wolters-Kluwer, Milanofiori Assago (MI), 2017, pp. 64 e ss.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, sent. 2 luglio 2004, n. 37395.
[10] M. C. BARBIERI, Codice penale commentato. Tomo I, E. DOLCINI – G. L. GATTA (fondato e diretto da), Wolters-Kluwer, Milanofiori Assago (MI), 2015, ed. IV, pp. 65 e ss..
[11] Cass. Pen., Sez. Un., sent. 19 aprile 2012, n. 34952.
[12] Cfr. Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 7.
[13] S. BORILE, Approccio antropologico allo studio della violenza, Amon Editore, Padova (PD), 2016, p. 25.
[14] Cfr., F. MANTOVANI, Diritto penale.Parte generale, cit., p. XXIII.
[15] Così, R. SCARPA, Lo stile dell’abuso. Violenza domestica e linguaggio, Treccani, Roma, 2021, p. 19.
[16] Comportamento di chi interrompe bruscamente una relazione sentimentale e scompare dalla vita del partner, rendendosi irreperibile.
[17] Bombardamento sentimentale: strategia che permette di ottenere consenso e di poter esercitare influenza, sino alla manipolazione e al plagio.
[18] L. E. WALKER, The Battered Woman, HarperCollins, New York, 1979.
[19] Cfr. E. MORANO, The Battered Woman Syndrome: Da vittime a carnefici, 2020, pp. 58 e ss.
[20] Successivamente, è stata aggiunta una quarta fase, c.d. Fase della luna di miele (Honeymoon), in cui il maltrattante si comporta in modo affettuoso, elargendo dichiarazioni d’amore, regali e promesse alla vittima.
[21] Cfr. R. SCARPA, Lo stile dell’abuso. Violenza domestica e linguaggio, cit., p. 153.
[22] Corte cost., sent. 8 giugno 1981, n. 96.
[23] M. C. BARBIERI, Codice penale commentato. Tomo I, cit., p. 71.
[24] Cfr. D. PULITANO’, Diritto penale, Giappichelli Editore, Torino, 2011, p. 151.

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