Principio di legalità e divieto di analogia in malam partem, con particolare riferimento al perimetro punitivo di cui agli artt. 353 e 353-bis c.p.

Principio di legalità e divieto di analogia in malam partem, con particolare riferimento al perimetro punitivo di cui agli artt. 353 e 353-bis c.p.

Il principio di legalità in  materia penale è attualmente caratterizzato da un’integrazione e compenetrazione fra legalità di matrice europea e interna. Peraltro, la legalità europea si estende all’uniformità della giurisprudenza e dell’interpretazione normativa, non soltanto al dato normativo in sé, profilo su cui si concentra maggiormente la legalità interna.

La nuova legalità penale, derivante dalla suddetta compenetrazione, non è più solo l’espressione di una volontà sovrana, ma anche il risultato di una prassi articolata di azioni, che coinvolge una pluralità di soggetti, nazionali ed esterni all’ordinamento nazionale. Assumono rilievo precipuo anche e soprattutto in questo contesto i cittadini, che contribuiscono ad elaborare il panorama pluralistico a partire dal quale legislatori e giudici effettuano le proprie scelte.

La Corte di Strasburgo, nell’interpretare l’art. 7 della Cedu (in cui è riprodotto il principio secondo cui nessuna pena è irrogabile senza una legge puntuale che la preveda), ha da tempo affermato l’orientamento secondo cui le disposizioni penali sui reati e sulle pene devono rispettare determinati requisiti di accessibilità (conoscibilità) e di prevedibilità, in modo che i destinatari delle stesse possano conoscere preventivamente quale condotta è vietata e quale pena può seguire alla violazione.

In riferimento all’art. 7 CEDU, un contrasto interpretativo è quello che si riferisce ai mutamenti giurisprudenziali favorevoli e, più precisamente, alla possibilità o meno di equiparare, sotto il profilo della sua operatività, una legge favorevole ad un mutamento giurisprudenziale anch’esso favorevole. Secondo la Corte costituzionale dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 7, par. 1, CEDU non può ricavarsi che da un mutamento di giurisprudenza in senso favorevole al reo si evinca una regola che imponga la rimozione delle sentenze di condanna passate in giudicato contrastanti col nuovo indirizzo. Ciò perché detta giurisprudenza, pur affermando che la norma convenzionale (art. 7 CEDU) sancisce ellitticamente il principio di retroattività della lex mitior, non ha mai riferito tale principio ai mutamenti di giurisprudenza ed ha escluso che esso possa operare oltre il limite del giudicato.

Il mancato riconoscimento all’overruling giurisprudenziale favorevole della capacità di travolgere il principio di intangibilità del giudicato trova giustificazione nella efficacia solo “persuasiva” delle decisioni delle Sezioni Unite, nonché nella necessità di evitare una violazione del principio di separazione dei poteri, in forza del quale l’abrogazione e la creazione delle norme penali può discendere solo da un atto di volontà del legislatore.

E’ indubbio, tuttavia, che, nonostante il delineato orientamento della Corte costituzionale, il tema concernente la possibilità di una estensione del principio di retroattività della lex mitior anche alle pronunce giurisprudenziali rimane aperto non fosse altro che per la particolare rilevanza derivante dalla sua incidenza sullo stesso sistema delle fonti. Non può negarsi come un mutamento della giurisprudenza che ritenga priva di connotazioni criminali una condotta considerata, in base al precedente indirizzo interpretativo, munita di rilevanza penale, lasci insoddisfatti circa la “giustizia” di condanne emesse anteriormente al nuovo orientamento.

Questi interrogativi si sono posti in modo particolarmente attuale a seguito della sentenza europea sul caso Contrada (Corte Edu, 14 aprile 2015), secondo cui ha violato l’art. 7 Cedu una pronunzia di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa (artt. 110 e 416-bis c.p.) riferita a fatti commessi prima che tale figura di reato fosse ammessa dalle Sez. un. della Cassazione (con la sentenza 5 ottobre 1994, Demitry). Prima di questa pronunzia della Cassazione – secondo la Corte europea – detto reato non era sufficientemente chiaro e prevedibile per l’imputato.

A seguito della pronunzia europea la condanna di Contrada è stata ritenuta ineseguibile, ma è sorto il problema se la stessa pronunzia avesse effetti per altri condannati per lo stesso tipo di reato in relazione a fatti anche essi anteriori alla citata sentenza Demitry (i c.d. “fratelli minori” di Contrada). Pure per questi ultimi, infatti, sussisteva la medesima imprevedibilità della condanna, ritenuta dalla Corte Edu per Contrada.

Le Sez. un. della Cassazione 24 ottobre 2019-3 marzo 2020, n. 8544, Genco, hanno affermato che i princìpi enunciati dalla Corte Edu per Contrada non si estendono a coloro che, pur trovandosi nella medesima sua posizione, non hanno proposto ricorso in sede europea. Il concetto di prevedibilità delle conseguenze penali della condotta non è estraneo all’ordinamento nazionale, ma è veicolato attraverso la nozione di errore di diritto incolpevole, come elaborata dalla giurisprudenza costituzionale nella sentenza n.364 del 1988 che ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 5 c.p., nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.

Pertanto, l’imprevedibilità è stata dalle Sez. un. ricondotta nell’ambito della colpevolezza, la quale, però, non è stata limitata alla conoscenza del testo di legge, ma è stata estesa alla legge interpretata, in conformità al già visto orientamento delle Corti europee. Le Sez. un. Genco, pur affermando in astratto la rilevanza dell’art. 5 c.p., non ne hanno fatto applicazione nel caso di specie per due concorrenti ragioni. Innanzitutto, perché si era formato il giudicato, onde era precluso il riesame della accertata colpevolezza, non consentito neanche dal sopravvenire della sentenza della Corte Edu nei confronti del solo Contrada. Secondariamente, perché l’ignoranza inevitabile della legge penale (e quindi l’imprevedibilità della sua applicazione all’imputato) si ha soltanto nel caso di mutamento di “una pacifica posizione giurisprudenziale”, e non anche “a fronte di difformi orientamenti interpretativi accolti nelle pronunce giudiziali”.

Le Sez. un. attribuiscono rilevanza, in ordine all’applicazione dell’art. 5 c.p., alla distinzione tra il contrasto giurisprudenziale, che non rende imprevedibile l’error iuris, ed il radicale mutamento di un orientamento giurisprudenziale pacifico (overruling), che, non essendo prevedibile, esclude la colpevolezza di chi si sia determinato ed abbia agito sulla base della interpretazione precedente.

Va condivisa la rilevanza, nel nostro ordinamento, della distinzione tra contrasto giurisprudenziale e mutamento radicale di interpretazione. Il contrasto giurisprudenziale reale o potenziale è la situazione fisiologica ipotizzata dall’art. 618 c.p.p. e costituisce il presupposto per l’esercizio della funzione di nomofilachia della Cassazione, onde non può, di per sé solo, determinare l’imprevedibilità della decisione di risoluzione del contrasto, qualunque ne siano il contenuto e gli effetti (favorevoli o sfavorevoli per l’imputato).

Si ricorre all’analogia qualora il caso oggetto di risoluzione non sia incluso in alcuna delle ipotesi astratte formulate dal legislatore. Si attribuisce, pertanto, al caso non disciplinato dalla legge la regolamentazione prevista per un caso simile regolato (analogia legis), o, in termini generali si ricorre ai princìpi generali dell’ordinamento (analogia iuris), secondo l’indicazione dell’art. 12 Preleggi.

Lo strumento di riempimento delle lacune legislative offerto dal ricorso all’”applicazione analogica” in malam partem è inibito in relazione alle norme penali incriminatrici.

L’ analogia è mezzo destinato al colmare le lacune dell’ordinamento ed essa entra in gioco laddove non vi è disposizione puntuale suscettibile di essere applicata e, quindi, previamente interpretata quando la disciplina di una determinata figura giuridica presenti delle lacune, incolmabili con gli altri ordinari strumenti posti a disposizione dell’interprete, con la conseguenza che, per dirimere una determinata controversia, anche in sede non strettamente giudiziaria, si deve ricorrere alla disciplina positiva di altra figura giuridica che presenti affinità di ratio. Il silenzio del legislatore può indicare una scelta di disciplina, ossia che il legislatore stesso ha inteso relegare nell’ambito dell’”indifferente giuridico” una determinata questione, oppure la presenza di una lacuna dell’ordinamento.

L’inserimento di una determinata condotta nel novero di quelle penalmente rilevanti, perché la sua violazione sia consapevole espressione di un atteggiamento antidoveroso dell’individuo agente, deve preesistere rispetto alla violazione stessa.

A tale riguardo si richiama l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, il quale, costituendo un insuperabile ostacolo all’utilizzo dello strumento dell’analogia in materia penale (ostacolo, peraltro, ribadito, sia a livello codicistico dall’art. 1 c.p. sia a livello di Carta costituzionale, ove si rifletta che il divieto in questione è, di fatto, espressione del principio di legalità, di cui all’art. 25, cpv. della Costituzione) prevede che “le leggi penali (..) non si applicano oltre i casi ed i tempi in esse considerati“.

Quanto alla preclusione dell’analogia in materia penale, viene unanimemente attribuito anche un fondamento costituzionale al divieto in esame. Alcune interpreti identificano tale fondamento nel combinato disposto dell’art. 25, comma 3 Cost. e dell’art. 13, comma 2 Cost.: infatti, queste disposizioni costituzionali si basano sulla locuzione “casi” e adottano un’espressione identica a quella utilizzata nell’art. 14 delle preleggi. Altre voci dottrinali ricavano il fondamento di tale divieto nelle disposizioni costituzionali dedicate agli organi giurisdizionali: si sostiene che da tali disposizioni si desume univocamente il rifiuto di attribuire a siffatti organi la competenza ad operare interventi innovativi in materia penale. La maggior parte dei commentatori – con l’avallo della Corte costituzionale – individua l’origine del divieto di analogia nell’art. 25, comma 2 Cost.. Diversamente dall’analogia, l’interpretazione estensiva, la quale non amplia, ma chiarisce interamente il contenuto della norma, è pratica ermeneutica consentita, ove non si tratti di leggi eccezionali o derogatorie, anche nella materia penale.

Il divieto di analogia si collega logicamente con il principio di tassatività, il quale costituisce naturale completamento, da una parte, della “riserva assoluta” di legge in materia penale, che viene nella sostanza svuotata ove ai giudici sia consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge. Dall’altra, il divieto stesso rappresenta si collega al principio di determinatezza, che rimanda al vincolo, rivolto al legislatore, di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell’intelligibilità dei termini impiegati, garanzia svuotata, ove al giudice penale sia consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto da quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura.

Il procedimento analogico si pone diversamente nel diritto civile e, appunto, in quello penale. Nel primo il ricorso al procedimento analogico impedisce che il giudice si trovi di fronte al rischio di un non liquet. Negare al caso concreto una regolamentazione blocca la possibilità di dar vita a schemi negoziali anche solo in parte diversi da quelli praticati, in un contesto in cui la regola giuridica non limita, bensì incentiva la libera manifestazione della volontà dei singoli nel provvedere in vario modo al soddisfacimento dei propri bisogni e delle proprie aspettative. Detto altrimenti, l’analogia è funzionale alle esigenze economico-sociali in cui si manifesta l’esercizio dell’autonomia privata.

Nel campo penale, il ricorso all’analogia consente al giudice di correggere quelle discriminazioni irragionevoli che si creano quando la fattispecie, ritagliata dal legislatore intorno a una determinata modalità di aggressione al bene protetto, tralascia di punirne altre simili. Tuttavia, il diritto penale esplica la sua funzione pregnante nell’individuazione della fisionomia essenziale del tipo criminoso, in un contesto in cui la lacuna normativa e l’affinità di ratio sono elementi estranei e poco armonizzabili.

Il divieto di analogia in malam partem in materia penale è rivolto al legislatore ordinario nella misura in cui è preclusa a questo non solo l’abrogazione delle disposizioni che vietano al giudice di applicare per analogia le disposizioni incriminatrici, ma anche l’approvazione di disposizioni incriminatrici che, dopo aver delineato una o più condotte eterogenee fra di esse, contemplino espressioni del tipo “e altri analoghi”.

Il divieto di analogia in malam partem è rivolto al giudice in funzione di garanzia per i consociati contro possibili arbitrii proprio del potere giudiziario, in modo da evitare che, dai confini tassativamente imposti dalla legge ad ogni fattispecie criminosa, il giudice sostituisca il legislatore e crei di fatto disposizioni incriminatrici più ampie di quelle previste dal legislatore stesso.

In sostanza, l’operatività dell’analogia presuppone che, se il legislatore avesse disciplinato il caso in questione, avrebbe trovato espressioni analoghe ma non identiche a quelle della norma della quale viene fatta applicazione, non identiche proprio in quanto capaci di esprimere anche un significato tale da rendere applicabile la norma stessa in via interpretativa, visto l’obiettivo che il legislatore stesso si è posto prevedendo la norma che viene applicata analogicamente.

Il divieto di analogia non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo.

Con sentenza del maggio 2023, la Sesta Sezione penale della Corte di Cassazione si è occupata del reato di turbata libertà degli incanti, di cui all’art 353 c.p., nonché dei nessi tra il medesimo e l’art. 353 bis, proprio sotto il prisma del divieto di analogia in malam partem. Le fattispecie poste a tutela delle gare pubbliche sono state nel tempo oggetto di una crescente applicazione, che ha manifestato, da una parte, maggiori margini operativi, ma, dall’altra, numerose questioni conseguenti all’allargamento dell’ambito operativo della fattispecie.

La fattispecie di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.) si colloca tra i delitti dei privati contro la Pubblica amministrazione e punisce condotte che, inserite nell’àmbito dei pubblici incanti o delle licitazioni private, ne falsano l’esito. L’orientamento prevalente inquadra l’art. 353 c.p. tra i reati di pericolo concreto, richiedendo l’idoneità degli atti a influenzare la gara Per ciò che attiene all’oggetto giuridico del reato, secondo la giurisprudenza, questo consiste nell’interesse della pubblica amministrazione al libero e regolare svolgimento della gara. In questa prospettiva, il bene protetto comprende (oltre alla libertà di partecipazione alle gare) anche la libertà dei partecipanti di influenzarne l’esito

L’art. 353-bis c.p. – è stato introdotto dal Legislatore al dichiarato scopo di prevedere espressamente la rilevanza penale delle condotte di turbamento (specificamente indicate) anche alla fase precedente la gara, preso atto che parte della giurisprudenza si andava apparentemente assestando nel senso di negare la rilevanza delle stesse, pur in termini di mero tentativo, in assenza del presupposto della gara.

L’art. 353 bis c.p., prevede così che, salvo che il fatto costituisca fatto più grave, abbia autonoma rilevanza penale la condotta di chiunque, alternativamente con violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti (i medesimi comportamenti considerati dalla fattispecie ex art. 353 c.p.), turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando ovvero di altro atto equipollente, al fine di condizionarne le modalità di scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione.

Attraverso l’art. 353 bis c.p., si è inteso evitare ogni vuoto di tutela, incriminando anche quei tentativi di condizionamento a monte degli appalti pubblici che risultino, ex post, inidonei ad alterare l’esito delle relative procedure. L’illecita interferenza nel procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando, finalizzata a condizionare le modalità di scelta del contraente (ad esempio, mediante la personalizzazione dei requisiti prescritti), determina, già di per sè sola, l’applicazione delle sanzioni penali.

In definitiva, nella consapevolezza che i beni ed interessi giuridici che meritano tutela nel contesto (sia quello della pubblica amministrazione ad individuare il contraente più competente alle condizioni economiche migliori; sia quello della tutela della libertà di iniziativa economica) sono lesi non solo da condotte successive a un bando il cui contenuto sia stato determinato nel pieno rispetto di tali beni e interessi giuridici, ma anche dalle condotte precedenti che abbiano influito sul contenuto o che potrebbero avere influenza, il Legislatore ha inteso anticipare la tutela penale rispetto al momento di effettiva indizione formale della “gara” ed anche quando una procedura volta alla determinazione del bando (o di atto equivalente) sia stata svolta pur senza approdare a un positivo provvedimento formale. Si è creato un contesto di anticipazione della soglia della tutela a fasi dell’iter criminis anteriori alla consumazione dell’offesa finale, che caratterizza la frammentazione casistica del tentativo in autonome fattispecie di atti preparatori o prodromici, rispetto ad attività delinquenziali caratterizzate da forte complessità, in cui il pregiudizio finale si realizza a seguito di processi comportamentali estremamente articolati, cui possono concorrere plurimi soggetti e la cui efficacia causale è molto difficilmente riferibile a ciascun agente.

Ciò chiarito, la Corte nel 2023 ha condiviso i principi già espressi secondo cui i comportamenti che incidono sulla formazione del bando di gara che venga successivamente emesso, devono essere inquadrati nella fattispecie prevista dall’art. 353 c.p., a nulla rilevando che gli stessi sono stati posti in essere nel periodo precedente all’introduzione dell’art. 353 bis c.p., fattispecie che trova applicazione in relazione a tutti i comportamenti diretti alla manipolazione del bando di gara nei casi in cui questa non venga successivamente bandita.

Vi è un parallelismo tra le strutture dell’art. 353 c.p., e dell’art. 353 bis c.p.: la prima presuppone l’esistenza di una “gara” (quindi di un bando o atto equipollente che l’abbia formalmente indetta determinandone l’ambito specifico); la seconda presuppone l’esistenza di un “procedimento amministrativo” diretto a stabilire il contenuto del bando o dell’atto equipollente. Vi sono due presupposti (la “gara”, il “procedimento amministrativo”), in mancanza dei quali le condotte in ipotesi consumate, pur quando in sé corrispondenti alle tipologie indicate nelle due norme, non assumono rilevanza penale autonoma.

Perché le condotte indicate dall’art. 353 bis c.p. abbiano rilievo penale occorre che un “procedimento amministrativo” sia almeno iniziato: solo a quel punto, per quanto prima argomentato, anche le condotte precedenti possono assumere rilevanza penale.

Si può fare riferimento alle difficoltà di definizione della portata dell’evento-turbamento nella struttura della fattispecie di cui all’art. 353, trattandosi di un elemento costitutivo il cui nucleo semantico risulta obiettivamente in grado di attrarre una variegata e difficilmente definibile tipologia di avvenimenti. Ci si può riferire alla clausola di chiusura dell’elenco delle condotte incriminate e, in particolare, agli “altri mezzi fraudolenti“. Tale locuzione è in grado di ricomprendere una molteplicità di casi e, dunque, idoneo a svuotare la tipicità della norma e, in particolare, la indicazione tassativa dei contegni oggetto di rimprovero, atteso che alla puntuale individuazione di alcuni comportamenti selezionati (violenza, minaccia, doni, promesse, collusioni) viene contrapposta un’ipotesi residuale dai contorni obiettivamente lati.

Ove ci si riferisca all’espressione “gare nei pubblici incanti e nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni“, l’ampliamento della fattispecie discende dall’interpretazione data nel corso del tempo. La giurisprudenza di legittimità, in molteplici occasioni, ha ritenuto che il reato di turbata libertà degli incanti sia configurabile in ogni situazione in cui la pubblica amministrazione proceda all’individuazione del contraente mediante una gara, quale che sia il nomen iuris adottato ed anche in assenza di formalità. Si configura una “gara” tutte le volte in cui vi sia una competizione tra aspiranti, previa indicazione e pubblicizzazione dei criteri di selezione e di presentazione delle offerte. Nella nozione di “gara” – oggetto della fattispecie di turbata libertà degli incanti – rientra qualsivoglia procedura di gara, anche informale o atipica, ogni volta che la pubblica amministrazione individui il contraente su base comparativa, a condizione che l’avviso informale o il bando o l’atto equipollente indichino i criteri di selezione e di presentazione delle offerte, ponendo i potenziali partecipanti nella condizione di valutare le regole che presiedono al confronto.

Si è posta la questione se nella nozione di “gara” di cui si avvale la Pubblica Amministrazione per cedere un bene ovvero affidare all’esterno l’esecuzione di un’opera o la gestione di un servizio possano farsi rientrare anche i concorsi per il reclutamento di personale (come le valutazione comparative per l’attribuzione di cattedre universitarie). Il tema attiene anche al divieto di analogia in malam partem.

La Corte Costituzionale ha statuito come il divieto di analogia non consenta di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali. L’attività di interpretazione trova un limite nel significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore a cui il giudice non può assegnare un significato diverso da quello proprio, al fine di ricercare profili ulteriori in grado di colorare in senso estensivo il perimetro dell’illecito.

Il riferimento testuale ai pubblici incanti e alle licitazioni private rivela storicamente l’intento di assicurare tutela a quelle tipologie di competizioni c.d. formali che, nell’ottica dei compilatori, erano le uniche a essere state calibrate dalle norme sulla contabilità nazionale e incastonate nei rr.dd. del 1923 e del 1924. La lettera della legge, pur interpretata nel senso estensivo indicato dalla giurisprudenza, nondimeno restringe l’area di tutela e delimita il perimetro operativo della fattispecie di cui all’art. 353 c.p. alle sole procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio. Non vi è nessun riferimento ai concorsi per il reclutamento del personale.

La formula semantica utilizzata dal legislatore – “gare nei pubblici incanti e nelle licitazioni private” – è chiara e, nonostante l’interpretazione estensiva di cui si è già detto, non può essere ricondotta all’interno della fattispecie ciò che ad essa è aliunde, come le procedure concorsuali per l’assunzione di personale da parte dello Stato e delle sue articolazioni.

Il sistema dei reati contro la pubblica amministrazione ha sempre distinto tra la scelta delle persone e la valutazione delle cose. Né può essere valorizzato il reato di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, di cui all’art. 353-bis c.p. La disposizione normativa in questione è stata introdotta dal legislatore con l’art. 10, L. 13 agosto 2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia) con l’obiettivo di sterilizzare le condotte finalizzate a turbare le fasi preliminari di una gara, così da arginare i possibili vuoti di tutela che la disposizione di cui all’art. 353 c.p. aveva creato.

La ratio della norma è individuata nella’esigenza di anticipare la tutela penale, rispetto al momento di effettiva indizione formale della gara. La norma previene la preparazione e l’approvazione di bandi personalizzati e calibrati proprio sulle caratteristiche di determinati operatori e a preservare il principio di libertà di concorrenza e la salvaguardia degli interessi della pubblica amministrazione.

Tale norma ha una valenza neutra rispetto alla questione in esame, che attiene non alla possibilità di allargare il significato del sintagma “pubblici incanti o licitazioni private“, di cui all’art. 353 c.p., per farvi confluire anche gli altri procedimenti di scelta del contraente nelle procedure indette per la cessione di un bene ovvero per l’affidamento all’esterno della esecuzione di un’opera o della gestione di un servizio, quanto, piuttosto, alla possibilità di ricondurre all’art. 353 c.p. una materia, quella dei concorsi, che è esterna anche rispetto all’art. 353-bis c.p..

Secondo la Suprema Corte, i fatti esaminati, in cui rilevano concorsi per il reclutamento di personale, non possono essere ricondotti alla fattispecie di turbata libertà degli incanti, ma, al più, al reato di abuso di ufficio, ove ne siano sussistenti i presupposti e ciò anche alla luce delle modifiche apportate all’art. 323 c.p. dalla legge 16 luglio 2020, n. 176, con particolare riguardo alla necessità, ai fini della integrazione della fattispecie, che vi sia una violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge dalle quali non residuino margini di discrezionalità.

La conclusione è nel senso che il divieto di analogia in malam partem per le ipotesi di cui agli artt. 353 e 353 bis c.p. va applicato in modo da evitare interpretazioni antiletterali e correttive di tali fattispecie, per includere nell’ambito delle stesse fattispecie ulteriori e diverse rispetto quelle desumibili dalla lettera delle disposizioni.


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Salvatore Magra

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