Principio di offensività ed ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Principio di offensività ed ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto

Principio di offensività. Il principio di offensività, consacrato nel brocardo nullum crimen sine iniuria, subordina la sanzione penale all’offesa di un bene, intesa tanto nel senso di lesione quanto come mera messa in pericolo di esso.

Esso è alla base di una visione oggettivistica del diritto penale, la quale presta attenzione al danno subito e il reo è disponibile ad accettare la funzione rieducativa della pena soltanto qualora abbia realmente posto in essere un comportamento offensivo.

Diversamente, per la concezione soggettivistica, si tende a punire anche ciò che si sarebbe voluto perseguire.

L’ordinamento italiano accoglie la visione oggettivistica, nonostante qualche retaggio nel senso soggettivistico, come trapela dagli artt. 115 co. II e 302 c.p.

Nonostante non vi sia un espresso fondamento costituzionale del principio in esame, sono state individuate diverse disposizioni in tal senso.

Anzitutto, l’art. 13 Cost., nel tutelare la libertà personale, implica che essa possa essere limitata attraverso l’applicazione di una sanzione penale, soltanto qualora il reo abbia compromesso un interesse altrettanto rilevante.

Altresì, si fa riferimento all’art. 25 Cost., il quale nell’utilizzare il termine “fatto”, comporta la necessità che questo sia materiale ed offensivo.

Infine, l’art. 27 co. III Cost,, in quanto la condanna per mere condotte inoffensive o per la semplice disobbedienza frusterebbe la funzione rieducativa della pena.

Sul piano ordinario, invece, si individuano quali riferimenti normativi gli artt. 49 co. II e 115 c.p.

L’art. 49, escludendo la punibilità qualora la condotta sia inidonea, al comma II, dimostra che non risulta sufficiente ricollegare il comportamento umano ad una fattispecie incriminatrice prevista dall’ordinamento, essendo invece necessario che l’azione debba effettivamente ledere o mettere in pericolo il bene tutelato.

Infine, l’art. 115 c.p. viene ritenuto fondamento implicito, laddove nell’escludere la punibilità per le ipotesi di accordi e istigazioni non seguiti da reato. Ribadisce la necessità che il proposito criminoso si traduca in una reale offesa del bene protetto.

Il principio trova, poi, espliciti riferimenti nella Carta di Nizza.

Infatti, l’art. 49 al comma III pretende la proporzionalità tra reato e pena, e l’art. 52 prevede che eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà sono possibili solo qualora necessarie e rispondenti a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o dall’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui.

Per quanto riguarda i beni da tutelare, si è discusso se si possa fare esclusivo riferimento a quelli elencati dalla Costituzione.

In particolare, è stata in tal senso elaborata la c.d. teoria costituzionalmente orientata del bene protetto, secondo la quale un bene come la libertà personale o la dignità possa essere limitato soltanto a causa di condotte che pregiudichino beni di almeno pari grado, che trovino riconoscimento nella Costituzione.

Tuttavia, la principale critica elaborata a tale impostazione è stata che risulta impossibile fare riferimento soltanto alla Carta costituzionale, in quanto si rischierebbe di guardare al passato, escludendo ad esempio interessi che abbiano assunto rilevanza successivamente all’approvazione di essa. 

Il principio di offensività inoltre opera sia sul piano astratto che su quello concreto.

In primis, infatti, è rivolto al legislatore, il quale è tenuto a elaborare norme incriminatrici che puniscano condotte realmente offensive.

Il giudice, poi, è tenuto a verificare se la condotta tenuta dal soggetto agente abbia in concreto arrecato un’offesa; stabilire se essa meriti di essere sanzionata penalmente e, in tal caso, applicare la pena in misura proporzionata al grado di offensività.

Ipotesi di esclusione della punibilità. Vi sono casi in cui la sanzione penale va esclusa.

E’ proprio in tal senso che, con il d.lgs. 28/2015, è stato introdotto l’art. 131 bis c.p., espressione di finalità deflative, in quanto volto ad evitare l’irrogazione della sanzione penale nelle ipotesi in cui una condotta presenti una trascurabile carica offensiva.

La ratio di tale istituto, invero, può essere rinvenuta nella volontà di ricorrere alla sanzione penale soltanto nel caso in cui gli altri strumenti non siano idonei ad assicurare la prevenzione e la repressione di determinati atti.

Nello specifico, la norma circoscrive l’ambito applicativo ai reati per il quali è prevista la sola pena pecuniaria oppure quella detentiva non superiore a cinque anni.

La punibilità è esclusa qualora vi siano due indici, ossia la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento. 

Con riferimento al primo, lo stesso comma II esclude i casi in cui non si può ritenere sussistente la particolare tenuità; mentre, con riguardo alla non abitualità, il comma III specifica quando un comportamento possa ritenersi abituale.

La principale questione svolta circa l’art. 131 bis c.p. ha riguardato la sua natura giuridica, dibattito che può ritenersi concluso nel senso di considerarla una speciale causa di non punibilità in senso stretto.

Si osserva, difatti, che per ragioni di opportunità politicocriminale, viene esclusa la punibilità di condotte che, pur integrando gli estremi del fatto tipico, antigiuridico e colpevole, appaiono non meritevoli di pena, nel rispetto dei principi di proporzione, economia processuale e sussidiarietà della sanzione penale.

Uno dei profili problematici che ha posto la disposizione in esame è l’applicazione dell’istituto ai reati di competenza del giudice di pace, e di conseguenza, il rapporto con l’istituto contemplato dall’art. 34, d.lgs. 274/2000.

Quest’ultima norma, tra le definizioni alternative del procedimento davanti al giudice di pace, prevede  l’esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto. 

Infatti, il giudice può, durante le indagini preliminari, dichiarare con decreto d’archiviazione di non doversi procedere per la particolare tenuità del fatto, quando non risulta un interesse della persona offesa alla prosecuzione.

In tal senso, il fatto oggetto di causa è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato,  l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché la sua occasionalità e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto anche del pregiudizio che  l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini  o dell’imputato.

Con l’introduzione dell’art. 131 bis, si fronteggiavano due opposti orientamenti circa il rapporto del nuovo istituto e l’art. 34 d.lgs. 274/2000.

Occorre anzitutto precisare che, sebbene gli istituti siano caratterizzati dal medesimo fine di escludere la punibilità di fatti caratterizzati da minima offensività, è possibile rinvenirne le differenze.

Rapporto tra art. 131-bis c.p. e art. 34 d.lgs. 274/2000. L’orientamento maggioritario escludeva l’applicazione della causa di non punibilità  nei procedimenti davanti al giudice di pace, sulla considerazione secondo cui la disposizione codicistica dovesse essere derogata dall’art. 34, d.lgs. 274/2000, in quanto norma speciale ai sensi dell’art. 16 c.p.

Su altro fronte, l’impostazione favorevole, riteneva non giustificata l’esclusione della operatività dell’art. 131 bis c.p., ravvisando una notevole differenza tra i due istituti.

Posto il contrasto giurisprudenziale, sono intervenute le Sezioni Unite (29 dicembre 2017, n. 53683), negando l’estensione dell’art.131 bis c.p. ai reati di competenza del giudice di pace, sulla base delle diversità di natura, presupposti ed effetti delle due norme.

Infatti, l’istituto previsto per i procedimenti dinanzi al giudice di pace ha natura processuale, essendo previsto come condizione di esclusione della procedibilità; mentre, l’art. 131 bis ha natura sostanziale ed è previsto come causa di esclusione della punibilità.

Inoltre, mentre quest’ultimo risponde ad una finalità deflativa, la ratio dell’art. 34 del d.lgs. 274/2000 è conciliativa, come si può dedurre anche dal diverso ruolo attribuito alla persona offesa, la quale in tale fattispecie ha potere di scegliere se procedere o meno.

Di conseguenza, a parer della Suprema Corte, il rapporto tra le due disposizioni non va risolto ai sensi dell’art. 15 c.p., bensì in forza dell’art. 16 c.p., il quale garantisce la convivenza tra legge comune e legge speciale, qualora siano espressione di una propria finalità e struttura.


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