Principio di precauzione e colpa: al di là di ogni ragionevole dubbio?
Il principio di precauzione rappresenta uno degli argomenti più spinosi del diritto penale moderno, a causa della sua difficile armonizzazione con gli schemi classici del nostro ordinamento; ragion per cui rientra tra le tematiche che, oggi, richiamano maggiormente l’attenzione della dottrina (nazionale ed europea), della giurisprudenza e del Legislatore stesso. La sua matrice è sovranazionale, ma nell’ordinamento interno trova collocazione nella più ampia tematica della responsabilità penale colposa, di cui giova rammentare fondamento ed elementi costitutivi.
Nell’ambito della concezione tripartita del reato la colpa rappresenta il requisito minimo di imputazione soggettiva del fatto di reato all’agente, è il quid indefettibile perché possa dirsi rispettata la regola cogente posta dall’art. 27 c.1 Cost.: essa giustifica la rimproverabilità dell’agente per non aver previsto (ed evitato) ciò che si poteva prevedere (ed evitare).
Se l’art. 42 c. 2 c.p. ammette la punibilità per colpa nei soli casi espressamente previsti dalla legge, l’art. 43 ne fornisce una definizione puntuale, che si snoda su una duplice formula: una sintetica, per cui il delitto colposo è quello che va “contro l’intenzione”; l’altra (analitica) afferma che il delitto è colposo se “l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Dal disposto normativo è agevole inferire gli elementi costitutivi della responsabilità colposa: abbiamo un evento che, anche se previsto, non deve essere voluto, neppure nella forma più tenue del dolo eventuale; tale evento sarà collegato eziologicamente alla violazione di una regola cautelare (scritta o non scritta) avente la funzione di impedire la classe di eventi cui appartiene quello concreto. Infine, nonostante sul punto la norma non si esprima, giurisprudenza e dottrina sono concordi nel ritenere necessario che l’evento sia altresì prevedibile, quindi evitabile attraverso l’osservanza della condotta prescritta dalla regola violata.
Si parla, al riguardo, di esigibilità della condotta alternativa lecita, nel senso che qualsiasi altro agente collocato nella medesima situazione l’avrebbe posta in essere. Ma, si badi, l’agente da collocare nella relazione di confronto non sarà il quisque de populo né l’uomo medio bensì l’homo eiusdem professionis et condicionis: vale a dire l’uomo medio ma calato nello specifico settore di attività in cui opera l’agente concreto. Tale figura è spiccatamente oggettiva, in quanto incarna il referente astratto per valutare la rimproverabilità della condotta in concreto; essa può nondimeno arricchirsi di componenti soggettive che hanno specifico riguardo all’agente reale.
In particolare la giurisprudenza si è mostrata incline a dare rilievo alle ridotte capacità intellettive e cognitive dell’agente concreto, modulando su di esse il diverso grado di esigibilità del comportamento alternativo lecito; il limite è che si tratti non di mere difficoltà ma di carenze cognitive oggettive e comunque non imputabili (ché altrimenti potrebbe aprirsi lo scenario dell’actio libera in causa).
Se, invece, le doti e capacità dell’agente reale siano superiori rispetto alla generalità dei consociati ( quindi anche rispetto all’homo eiusdem professionis et condicionis) si discute se possa richiedersi uno sforzo di diligenza accentuato (rispetto a quello richiesto ai consociati dalla norma cautelare) e parametrato a dette spiccate capacità: l’esempio classico è quello del medico specialista luminare rispetto al medico generico di pronto soccorso. La dottrina si mostra sul punto divisa: ormai minoritario appare, invero, l’orientamento che esclude la rilevanza, ai fini dell’esigibilità, degli stati soggettivi dell’agente. Tale tesi si fonda sull’asserito pericolo di un’eccessiva relativizzazione del metro della colpa che, invece, si basa su ciò che è oggettivamente esigibile (salvo, appunto, gli aspetti patologici di cui sopra). Dottrina maggioritaria, suffragata dalla giurisprudenza di legittimità, riconosce invece la rilevanza delle maggiori abilità dell’agente superiore rispetto alle cautele richiedibili, innalzandone il livello ed esigendo uno sforzo di diligenza maggiorato.
Aspetto centrale nella ricostruzione della responsabilità per colpa sta nella violazione della cd. regola cautelare: trattasi di norme di condotta con funzione di orientamento dei comportamenti umani, in settori peculiari in cui risulta preminente l’esigenza di tutela dei diritti della persona. Tali regole affondano la propria legittimazione sul binomio prevenzione/pericolo: posto il pericolo di lesione del bene giuridico protetto dalla norma penale, la regola cautelare impone un codice di comportamento idoneo a minimizzare il pericolo o ad evitarlo. Da qui la distinzione tra regole proprie, che eliminano in radice il pericolo e coincidono, grossomodo, con l’astensione dall’attività e regole improprie, che ne riducono la possibilità di verificazione.
Quanto alla fonte le regole cautelari possono essere scritte o non scritte: rispettivamente l’agente sarà rimproverabile per colpa specifica o per generica negligenza (non aver osservato le doverosità richieste), imprudenza (aver agito con trascuratezza o leggerezza), imperizia (non aver osservato le leges artis dello specifico settore di attività).
L’accertamento della causalità nella colpa presenta, poi, delle peculiarità rilevanti, legate alla violazione delle cautele. Occorre, cioè, effettuare una duplice verifica: da un lato l’evento in concreto verificatosi deve rientrare nella classe di accadimenti che la regola violata mirava a prevenire (cd. concretizzazione del rischio); dall’altro è richiesto che l’evento fosse evitabile mediante il comportamento alternativo lecito imposto dalla cautela. A tal fine risulta utile invocare un giudizio controfattuale che si modella sull’accertamento della causalità omissiva: sostituendo mentalmente la cautela omessa con il comportamento doveroso, se l’evento concreto viene meno la causalità (sub specie di rilevanza eziologica del comportamento alternativo imposto) è dimostrata.
Giova precisare che siffatto accertamento è doveroso sia in ipotesi di colpa generica che specifica: il nostro ordinamento, improntato al principio di colpevolezza, rifugge da presunzioni di colpa nel settore della responsabilità penale, sicché non può essere accolta la tesi di quanti ritengono che nella colpa specifica il giudizio di evitabilità non sarebbe richiesto, in quanto posto in essere in astratto dal legislatore nella fissazione della regola cautelare. In un diritto penale del fatto non si può prescindere dalla considerazione delle circostanze fattuali, che possono influenzare il giudizio di evitabilità in concreto anche nei settori di colpa specifica.
Da questa preliminare disamina emerge un dato fondamentale: la responsabilità colposa si fonda sulla prevenzione, intesa come azione diretta ad evitare pericoli; questi ultimi devono essere prevedibili ed eziologicamente neutralizzabili per mezzo delle cautele imposte dalla legge.
Settore diverso è, invece, quello di operatività del principio di precauzione, in cui il termine di paragone non è più il pericolo (acclarato) di lesione bensì il “rischio di pericolo” di lesione. Nel giudizio di colpevolezza al binomio prevenzione/pericolo si affianca, dunque, quello precauzione/rischio.
In particolare, il principio di precauzione opera per le attività umane rispetto alle quali l’attuale stato delle conoscenze scientifiche e del progresso tecnologico non consente di escludere una potenziale influenza dannosa per gli interessi in gioco, ma nemmeno di affermarla. Si comprende, in tal modo, la centralità che riveste la nozione di “rischio”, in quanto individua una situazione di incertezza allo stato non superabile: mentre il “pericolo” designa la potenzialità dannosa di un dato fattore, il “rischio” individua la probabilità (o eventualità) di raggiungimento di quella potenzialità. Conseguentemente, se i beni giuridici in bilanciamento sono preminenti (si pensi alla salute, all’ambiente etc.) la sussistenza del rischio (rectius: pericolo di lesione, futuro ed eventuale) giustifica l’adozione di particolari cautele, che possono spingersi fino all’inibizione dell’attività medesima.
A conferma di ciò si richiama l’origine sovranazionale del principio, e l’ambito in cui è nato e si è sviluppato: la tutela dell’ambiente.
La dichiarazione di Rio, adottata a seguito della Conferenza sull’ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite, al principio n. 15 prevede che “al fine di proteggere l’ambiente, un approccio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli Stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per differire l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale”.
La più importante fonte in materia è, però, da rinvenire nell’art. 191 TFUE (ex art. 174 TCE) che riconosce nei principi di precauzione e dell’azione preventiva il fondamento della politica dell’Unione Europea in materia ambientale (vengono in considerazione, altresì, il principio di correzione dei danni e “chi inquina paga”). Nella predisposizione delle politiche in subiecta materia l’UE tiene conto, in particolare, “dei dati scientifici e tecnici disponibili” (art. 191 par. 3).
Analoga disposizione è stata trasfusa nel diritto nazionale, all’art. 3 ter (principio dell’azione ambientale) del d.lgs. 152/2006, cod. Ambiente.
In tali settori la Commissione Europea ha precisato che la precauzione può essere invocata in presenza di un rischio potenziale individuato tramite una valutazione scientifica oggettiva e, nondimeno, non sicura; non può in nessun caso giustificare decisioni arbitrarie. Al tale riguardo si richiedono tre condizioni per l’operatività del principio: l’identificazione degli effetti potenzialmente negativi, i dati scientifici disponibili e l’ampiezza dell’incertezza scientifica.
Dalla materia ambientale il principio di precauzione è stato esteso a qualsiasi ambito connotato da incertezze scientifiche, in cui vengono in considerazione i diritti fondamentali della persona; ne rappresentano importanti applicazione, ad esempio, il d. lgs. 81/08 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (in particolare art. 15) e il d.lgs. 206/2005 (cod. consumo) in punto di sicurezza e qualità dei prodotti. In quest’ultimo caso la normativa riposa sulla nozione di prodotto sicuro, individuato in quello che “in condizioni di uso normali o ragionevolmente prevedibili, compresa la durata e, se del caso, la messa in servizio, l’installazione e la manutenzione, non presenti alcun rischio oppure presenti unicamente rischi minimi, compatibili con l’impiego del prodotto e considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone…”. Da parte sua il produttore è tenuto ad immettere sul mercato solo prodotti sicuri, a fornire al consumatore le informazioni utili al fine di prevenire i rischi e ad adottare le misure opportune al fine di evitarli, tra cui il ritiro del prodotto dal mercato.
La responsabilità colposa basata sulla precauzione è retta da regole cautelari generiche: non sussistendo certezza è inconfigurabile la colpa specifica in quanto non opera la stretta connessione causale tra la violazione della regola e la verificazione del pericolo. Difatti il progresso scientifico non consente di affermare che data la condotta A si verificherà l’evento B, quest’ultimo evitabile mediante l’applicazione della regola C; si può soltanto dire che data la condotta A c’è il rischio che possa prodursi il pericolo di B, per cui si assiste ad un’implementazione delle regole di diligenza, prudenza e perizia che possono, negli ambiti in cui il rischio è maggiore, imporre l’astensione dall’attività.
Ovviamente la violazione della regola cautelare generica non giustifica ex se il rimprovero colposo, in assenza dell’evento dannoso o pericoloso: occorre pur sempre sussumere le fattispecie in cui vige il principio di precauzione nell’alveo dell’art. 43 c.p. che in parte qua richiede la verificazione dell’evento non voluto, in quanto eziologicamente connesso a quella violazione.
L’accertamento del nesso causale pone qui dei problemi di non poco momento, specie in punto di compatibilità tra principio di precauzione e regola BARD (condanna oltre ogni ragionevole dubbio). Invero nell’ambito della precauzione il doppio accertamento proprio della causalità della colpa non sarebbe predicabile, in quanto si tratta di settori che per definizione sono presidiati dall’incertezza: non può sostenersi che la condotta doverosa avrebbe impedito l’evento così come non può sostenersi il contrario. Può, allora, ammettersi un criterio di accertamento meno rigoroso rispetto al BARD? Le risposte a tale interrogativo sono state di segno diverso: a fronte di quanti sostengono la legittimità di un temperamento della regola BARD alla luce della rilevanza dei beni in gioco (superindividuali o, comunque, fondamentali) si pongono quanti ne escludono in radice la predicabilità. Si giungerebbe, ad opinare diversamente, ad una surrettizia sostituzione del criterio causale della probabilità logica o razionale con quello dell’aumento del rischio, già da tempo superato dalla giurisprudenza di legittimità (S.U. Franzese, 2002).
Esistono, poi, degli ambiti in cui il confine tra prevenzione e precauzione non è così netto, sicché occorre cercare letture ermeneutiche alternative; è quanto accade in tutti i casi in cui si verificano eventi dannosi o pericolosi affini ma non identici a quelli direttamente considerati dalla norma cautelare violata. Si pensi al settore della tutela della salute: il caso è quello in cui il progresso scientifico consenta di ritenere che una certa condotta (es. uso di materiale tossico) crei pericolo per la salute umana, sub specie di verificazione della malattia X, mentre risulta incerta allo stato la correlazione con la malattia Y che nondimeno si verifica. In questa fattispecie l’applicazione rigorosa del principio BARD conduce ad una soluzione inversa rispetto a quella cui si giungerebbe attraverso il modello della precauzione. Invero il BARD imporrebbe, in sede di giudizio, di considerare la malattia Y estranea allo spettro della norma cautelare violata, in quanto non espressamente contemplata e, dunque, foriera, di quel “ragionevole dubbio” inidoneo a sostenere una sentenza di condanna. Viceversa il dubbio non sarebbe “ragionevole” qualora si applicasse il principio di precauzione, che anticipa la rilevanza penale della condotta al rischio di pericolo imponendo l’adozione delle cautele necessarie a far fronte a rischi noti e non noti.
Una valutazione complessiva della fattispecie fa protendere lo scrivente per la seconda soluzione, atteso che occorre avere riguardo alla potenzialità lesiva della condotta rispetto al bene giuridico considerato unitariamente (nel nostro caso la salute), non alla specifica e settoriale modalità di compromissione dello stesso (la singola malattia). Anche in questo caso il nesso causale sarebbe, allora, provato.
Vero è che le incertezze interpretative cui dà luogo il principio di precauzione dovrebbero rappresentare un campanello di allarme per il giurista, onde evitarne l’eccessiva generalizzazione e un’illimitata applicazione. Occorre, cioè, limitarne l’operatività ai casi in cui il rischio realmente esiste, ed investe interessi sensibili, collettivi e diritti fondamentali. In tal senso è anche il monito della Commissione Europea, che richiede che la decisione non sia mai arbitraria ma basata su dati oggettivi , oltre che proporzionata e quindi socialmente accettabile. Evitare, dunque, che la precauzione diventi strumento di eccessiva ingerenza nella vita dei consociati, perdendo la propria vocazione di tutela contro pericoli (più o meno ignoti) ai beni di fondamentale importanza.
Salvis Juribus – Rivista di informazione giuridica
Direttore responsabile Avv. Giacomo Romano
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