Principio di precauzione e responsabilità civile, con particolare riferimento al danno da prodotto difettoso, da prodotto insicuro e da esercizio di attività pericolose
Sommario: 1. Principio di precauzione e principio di prevenzione: differenze – 2. Il principio di precauzione nel diritto amministrativo – 3. Il principio di precauzione nel diritto civile – 4. L’accertamento del nesso di causalità: la teoria della chance e il danno da prodotto – 5. Il profilo della colpa: l’inosservanza di regole precautelari – 5.1. Ipotesi di colpa specifica aggravata: la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose ex 2050 c.c. – 5.2. La responsabilità da prodotto difettoso di cui agli artt. 114 ss. del Codice del consumo – 5.3. Rapporti tra l’art. 2050 c.c. e gli artt. 114 ss. del Codice del consumo
Con il seguente articolo si intende esaminare il principio di precauzione e come il medesimo, che nasce naturalmente nel contesto dell’azione amministrativa, possa interferire anche con altri settori ordinamentali, primo tra tutti quello civile. In particolare, l’analisi si concentrerà sui diversi riflessi che siffatto principio ha in materia di danni da prodotto difettoso, da prodotto insicuro e da esercizio di attività pericolose.
1. Principio di precauzione e principio di prevenzione: differenze
La necessità di individuare un punto di compatibilità tra lo sviluppo tecnico-scientifico ed il controllo dei rischi (reali o immaginari) associati al medesimo ha portato all’affermarsi non solo del principio di prevenzione, ma anche di quello di precauzione.
La prevenzione fa riferimento a dei rischi scientificamente certi, conosciuti e suffragati. In tal caso, la scienza è certa che una data attività dia luogo a dei pericoli, sebbene non sia sicura se poi i medesimi si concretizzeranno, cagionando degli eventi lesivi.
Al contrario, la precauzione attiene al mero sospetto, non irragionevole, che l’attività possa creare un rischio nelle more dell’evoluzione scientifica. In questa ipotesi, non avendo ancora la scienza fatto il suo corso, l’effettiva sussistenza del pericolo non è suffragato da evidenze scientifiche certe.
Come è evidente, dunque, il principio di precauzione si distingue da quello di prevenzione, perché segna il passaggio dal rischio al mero sospetto, comportando una anticipazione della tutela, al fine di evitare che l’attività posta in essere, laddove il sospetto si rivelasse fondato, possa cagionare dei danni irreversibili per l’ambiente o per l’uomo.
In altri termini, l’applicazione del principio di precauzione fa sì che, ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri debba tradursi in una prevenzione precoce ed anticipatoria rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche.
2. Il principio di precauzione nel diritto amministrativo
Il terreno di elezione del principio di precauzione è indubbiamente il diritto amministrativo.
Normalmente i procedimenti caratterizzati dal principio di precauzione presentano delle regole comuni tra di loro.
Anzitutto, essi sono connotati da ampi poteri della P.A., posto che la situazione di incertezza scientifica impedisce al Legislatore di individuare dei criteri decisionali precisi, predeterminati e rigidi. Pertanto, si rimette alla P.A. la valutazione sul livello di rischio da accettare e sul contenuto del provvedimento da adottare.
L’Amministrazione, dunque, deve individuare la soglia del rischio consentito, all’esito di un bilanciamento, in cui si valutano comparativamente costi-benefici.
Più nel dettaglio, si deve tenere conto: da un lato, del sospetto, ossia del rischio scientificamente incerto che l’attività o il prodotto possano cagionare pregiudizi irreversibili per l’ambiente e per l’uomo; dall’altro, degli eventuali benefici che potrebbero derivare dallo svolgimento dell’attività o dall’autorizzazione all’immissione in commercio di un determinato prodotto.
Tale valutazione comparativa tra costi e benefici costituisce una attività altamente discrezionale e, per certi versi, frutto di una decisione politica, la quale richiede, senz’altro, il pieno rispetto del principio di legittimazione democratica.
Proprio per questa ragione, tali procedimenti vengono affidati non già ad Autorità amministrative indipendenti, bensì ad Amministrazioni tradizionali legittimate democraticamente e politicamente responsabili.
Queste, invero, inserendosi nel circuito Governo-Parlamento, per il tramite della responsabilità ministeriale per gli atti del dicastero, rispondono politicamente delle scelte compiute.
È, tuttavia, evidente che, nella specie, v’è un deficit di legalità sostanziale, in quanto, come prima accennato, il Legislatore, stante la situazione di incertezza scientifica, non può individuare dei criteri decisionali precisi, predeterminati e rigidi sul grado del rischio consentito da accettare, rimettendo i medesimi alla P.A.
Conseguentemente, si è reso necessario compensare tale deficit di legalità sostanziale tramite la legalità procedimentale, ossia con un rafforzamento di talune garanzie procedimentali.
Detto altrimenti, il Legislatore, pur non vincolando l’Amministrazione sul “cosa decidere”, ha imposto alla stessa una serie di prescrizioni sul “come decidere”, cioè sul metodo da utilizzare per l’individuazione della soglia del rischio consentito.
Nel dettaglio, è stato previsto che un’Autorità amministrativa, tecnicamente qualificata, ma politicamente indipendente (quale, ad esempio, l’Autorità per la sicurezza dei farmaci), debba compiere la fase istruttoria, identificando la consistenza del sospetto del rischio.
Successivamente, un’Autorità legittimata democraticamente e politicamente responsabile interverrà nella fase decisoria, individuando la soglia del rischio consentito, a seguito della comparazione tra costi e benefici.
Un altro aspetto dei procedimenti caratterizzati dal principio di precauzione è la naturale temporaneità dei provvedimenti, che normalmente sono adottati rebus sic stantibus, giacché legati all’evoluzione del sapere scientifico.
Quest’ultima può giustificare una modifica delle misure, sia in senso più restrittivo, nel caso in cui il sospetto si consolidi e si vada verso la certezza del pericolo, sia in senso meno restrittivo, ove l’incertezza si affievolisca.
Il destinatario, pertanto, è consapevole che il provvedimento adottato, anche se è favorevole, risulta essere temporaneo e potrebbe essere modificato.
Ne deriva che costui non può affermare la sussistenza di un legittimo affidamento e far valere le tradizionali garanzie a tutela del medesimo, che connotano l’autotutela decisoria nell’ambito dell’Amministrazione tradizionale.
Va, altresì, evidenziato che nei procedimenti in esame, venendo in rilievo un sospetto di un rischio che, per sua stessa natura, è giuridicamente incerto, i provvedimenti si fondano su una presunzione di pericolo non ancora scientificamente suffragata.
Conseguentemente, si assiste ad una sorta di inversione dell’onere della prova.
Non si può, infatti, pretendere che sia l’Amministrazione a dimostrare la sussistenza del rischio sospetto, atteso che proprio l’incertezza scientifica rende impossibile siffatta prova. Piuttosto, è onere del privato, che subisce la restrizione, di dimostrare che quel rischio incerto è scientificamente infondato.
Un’ulteriore peculiarità dei procedimenti caratterizzati dal principio di precauzione riguarda il sindacato giurisdizionale, che ha ad oggetto solamente il rispetto delle regole procedurali imposte dal Legislatore, che indicano i criteri da rispettare per decidere, in ossequio ai principi di adeguatezza, proporzionalità e ragionevolezza (i quali operano in quanto principi generali dell’azione amministrativa ex art. 1 L. n. 241/1990).
Tale sindacato, invece, non si estende al contenuto del provvedimento, posto che è la P.A., nella sua più ampia discrezionalità, in base a criteri non predeterminati dal legislatore e, pertanto, non sindacabili, ad individuare il contenuto del provvedimento, ossia qual è il rischio consentito, e quali sono le misure che devono essere adottate al fine di scongiurarlo.
3. Il principio di precauzione nel diritto civile
Ciò premesso, si tratta di stabilire se il principio di precauzione, che nasce naturalmente nel contesto dell’azione amministrativa, possa anche operare in materia di responsabilità civile.
Secondo l’impostazione maggioritaria, siffatto principio può incidere sia sull’accertamento del nesso di causalità che sulla colpa.
4. L’accertamento del nesso di causalità: la teoria della chance e il danno da prodotto
Prima facie, potrebbe in effetti sembrare che la precauzione, ossia l’incertezza scientifica, impedisca l’accertamento del nesso di causalità.
Dovrebbe essere, infatti, il danneggiato, che invoca il risarcimento, a dimostrare che è “più probabile che non” che la condotta abbia cagionato l’evento, e ciò non sarebbe possibile in presenza di una situazione di incertezza scientifica.
Secondo la logica dell’“all or nothing” (o tutto o niente), il danneggiato, solo se dimostra il “più probabile che non”, potrà ottenere l’intero risarcimento, e ciò appare incompatibile con la logica della precauzione, intesa come possibilità di riconoscere la responsabilità civile nonostante l’assenza di evidenze scientifiche.
Sembrerebbe, dunque, esserci un contrasto tra il tradizionale accertamento del rapporto di causalità fondato sul criterio del “più probabile che non” ed il principio di precauzione.
In realtà, questa affermazione può essere stemperata sulla base di due considerazioni.
In primo luogo, occorre prendere in considerazione la tutela risarcitoria della chance.
A tal riguardo, la Corte di Cassazione, nei suoi più recenti approdi, ha affermato che la chance non rappresenta un diverso modo di accertare la causalità, ma un vero e proprio bene della vita autonomo diverso dal bene finale (così respingendo la tesi eziologica), che non presenta più alcun collegamento con quest’ultimo.
Il suo accertamento, peraltro, non è in re ipsa (diversamente da quanto sostenuto dalla teoria ontologica), dovendosi dimostrare che la stessa sia seria, apprezzabile e dotata di una soglia minima di consistenza.
Così intesa, la chance diventa uno strumento che consente di accordare al danneggiato un risarcimento, ancorché limitato sul piano del quantum, nelle ipotesi in cui c’è una situazione di ineliminabile incertezza scientifica ed eventistica “su cosa sarebbe accaduto se”.
La stessa, in tal modo, fornisce una stampella alla zoppìa causale, costituendo un metodo con cui apportare un correttivo e temperare la rigidità del criterio del “più probabile che non” e della regola dell’“all or nothing” sottesa al medesimo e consentire al principio di precauzione di penetrare all’interno del diritto civile.
In secondo luogo, si è evidenziato che il nesso di causalità tra un antecedente ed un conseguente può essere provato anche facendo ricorso, nel caso di conoscenze scientifiche non ancora mature, ad elementi indiziari empirici gravi, precisi, concordanti ed univoci, seppur non ancora scientificamente suffragati, che siano tali da potere fondare una presunzione, ancorché semplice e superabile con una prova contraria.
Ciò è stato affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sez. II, sentenza 21 giugno 2017, n. C-621/15), con riferimento alla responsabilità per danno da vaccino, che è stato qualificato come un danno da prodotto difettoso.
Si è, più precisamente, evidenziato che pretendere solo la prova scientifica certa, ed escludere ogni alternativa ai fini dell’accertamento della sussistenza del nesso di causalità, significherebbe svilire il principio di effettività della tutela, perché si dovrebbe escludere il risarcimento ogniqualvolta permane ancora l’incertezza scientifica.
L’effetto, infatti, sarebbe quello di rendere eccessivamente difficile o addirittura impossibile far valere la responsabilità del produttore (quando la ricerca medica non permette di stabilire né di escludere l’esistenza di un nesso di causalità).
Ed allora, occorre riconoscere che le situazioni di incertezza scientifica possono essere superate da prove empiriche fondate su elementi indiziari gravi, precisi, concordanti ed univoci, tali da consentire di concludere, con un grado sufficientemente elevato di probabilità, che la sussistenza di un difetto del prodotto appare la spiegazione più plausibile dell’insorgenza del danno.
Nel caso di specie, la Corte di Giustizia ha rilevato che è vero che non c’è ancora una prova scientifica certa sul nesso causale-correlazione tra la somministrazione di un certo vaccino e il verificarsi di una determinata malattia, tuttavia, è altresì innegabile che vi sono una serie di indizi sufficientemente gravi, precisi e concordanti, la cui compresenza potrebbe indurre un giudice nazionale a ritenere accertata la causalità.
In tal senso sono stati valorizzati: la prossimità temporale tra la somministrazione di un vaccino e l’insorgenza di una malattia; la mancanza di precedenti medici personali e familiari correlati a detta malattia; l’esistenza di un numero significativo di casi repertoriati di comparsa di tale malattia a seguito di simili somministrazioni.
Alla luce delle suddette premesse, può concludersi che può esserci spazio per una responsabilità civile in condizioni di incertezza scientifica, in ossequio al principio di precauzione, sia attraverso la teoria della chance, sia in tutte quelle situazioni in cui si riesce a provare “il più probabile che non” mediante elementi empirici che, seppur non scientificamente suffragati, sono dotati di una forza indiziaria grave, precisa, concordante, univoca e, dunque, sufficiente per fondare una presunzione.
5. Il profilo della colpa: l’inosservanza di regole precautelari
Sul piano della colpa, occorre comprendere se la stessa possa discendere solamente dall’inosservanza di regole cautelari, nell’ottica della prevenzione, volte a prevenire o evitare dei rischi scientificamente certi, ovvero anche dall’inosservanza di regole precautelari, nell’ottica della precauzione, al fine di fronteggiare dei sospetti, privi di una certa evidenza scientifica.
In altri termini, si tratta di chiarire se possa considerarsi colpevole la condotta del soggetto che non ha adottato delle misure precauzionali.
Ebbene, ad avviso dell’indirizzo ermeneutico prevalente, il principio di precauzione non può essere fonte diretta di regole cautelari prassiologiche espressione di colpa generica.
Ciò poiché, a ragionar diversamente, si finirebbe per paralizzare ogni attività, dal momento che ciascun soggetto dovrebbe sempre fare i conti con il sospetto di un qualsiasi possibile rischio, seppur non scientificamente suffragato, a prescindere dalla presenza di apposite norme scritte.
Pertanto, le uniche ipotesi in cui il principio di precauzione può operare sono: o i casi di responsabilità oggettiva, in cui non rileva la colpa, ma è sufficiente il mero nesso di causalità, ovvero quelli in cui il Legislatore ha contemplato delle ipotesi di colpa specifica aggravata, prevedendo delle regole precautelari scritte, con cui richiede, a chi svolge una data attività pericolosa, ma autorizzata in quanto utile o indispensabile, uno sforzo di diligenza straordinario, dovendo farsi carico di tutte le misure necessarie, anche di quelle che vogliono scongiurare dei rischi scientificamente incerti.
Evidenziano Taluni che una ipotesi di colpa talmente aggravata da aprirsi alla logica della precauzione sia quella disciplinata dall’art. 2050 c.c.
5.1. Ipotesi di colpa specifica aggravata: la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose ex 2050 c.c.
L’art. 2050 c.c. prevede la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, ossia potenzialmente idonee a cagionare dei danni, e tuttavia, di regola, consentite, in virtù della loro utilità sociale.
L’accertamento della natura pericolosa di un’attività deve essere compiuto caso per caso, alla luce anche degli indici presuntivi, elaborati dalla giurisprudenza, quali: l’inclusione dell’attività tra quelle espressamente qualificate come pericolose dal TULPS (criterio testuale); la gravità dei danni che dalla stessa possono discendere, a causa delle proprie intrinseche caratteristiche o dei mezzi impiegati per svolgerla (criterio qualitativo); la frequenza statistica con cui una certa attività può provocare degli effetti dannosi (criterio quantitativo).
Si ritiene che l’art. 2050 c.c. costituisca una ipotesi di responsabilità rafforzata, in quanto prevede una inversione dell’onere della prova, atteso che la sua responsabilità non deve essere provata dal danneggiato, ma si presume, salvo che sia il danneggiante stesso a fornire la prova contraria.
Peraltro, tale prova contraria è particolarmente forte e complessa, e sembrerebbe coincidere con il solo caso fortuito, poiché il danneggiante deve dimostrare di avere adottato “tutte le misure idonee ad evitare il danno”.
Il termine “tutte” sembrerebbe richiedere uno sforzo super diligente, nel senso che il danneggiante deve fornire la prova di avere adottato ogni misura idonea a prevenire e fronteggiare non solo dei rischi certi (principio di prevenzione), ma anche dei rischi ancora incerti (principio di precauzione).
Quindi, si può considerare in colpa anche chi non ha adottato una misura che, in ottica di prevenzione, non era necessaria – non essendo ancora il rischio scientificamente suffragato –, ma che, tuttavia, in ottica di precauzione, diventava doverosa, richiedendosi all’esercente uno sforzo ulteriore all’ordinaria diligenza, in ragione della semplice sussistenza di un sospetto e di un fumus di pericolo in attesa del riconoscimento scientifico.
Proprio per questa ragione, si è affermato che l’art. 2050 c.c. è la norma che consente al principio di precauzione di penetrare all’interno della responsabilità civile.
5.2. La responsabilità da prodotto difettoso di cui agli artt. 114 ss. del Codice del consumo
Strettamente connessa con l’art. 2050 c.c. è la responsabilità da prodotto difettoso, che trova la sua disciplina nel Codice del consumo, agli artt. 114 ss.
Tali norme hanno recepito una direttiva comunitaria (la n. 374/85), il cui obiettivo, secondo Taluni, sarebbe stato quello di prevedere una disciplina sul danno da prodotto difettoso per ragioni di armonizzazione, ossia al fine di evitare che eventuali normative nazionali difformi in questo ambito avrebbero potuto finire per costituire un ostacolo alla libera circolazione delle merci.
Quindi, il focus del legislatore comunitario di quel tempo era, in tale ottica, più la tutela del mercato, che quella della sicurezza dell’utente.
Quanto affermato troverebbe conferma nel fatto che la disciplina sul danno da prodotto difettoso, per un verso, ha introdotto una nuova ipotesi di responsabilità oggettiva del produttore, svincolata dalla prova dell’elemento soggettivo, e basata sulla sola sussistenza di un nesso causale tra il difetto del prodotto ed il danno, che deve essere dimostrato dall’utilizzatore-danneggiato.
Per un altro verso, tuttavia, non ha previsto una responsabilità incondizionata del produttore, ma ha contemplato delle limitazioni, così bilanciando l’esigenza di protezione del consumatore con la necessità di non aggravare eccessivamente la posizione del produttore.
Se, infatti, il consumatore ha diritto di godere di un livello di tutela che sia adeguato alla moderna società industriale dei rischi, anche il produttore, però, non deve essere oltremodo gravato da rischi eccessivi e disincentivanti.
Per tale ragione, il legislatore ha accordato a quest’ultimo una molteplicità di eccezioni e difese, e, in particolare, ha previsto che costui, per andare esente da responsabilità, debba fornire una delle prove liberatorie espressamente previste e tipizzate dall’art. 118 Codice del Consumo.
In realtà, occorre evidenziare che la stessa nozione di “difetto” del prodotto accolta dal legislatore comunitario, a ben vedere, tradisce l’idea che la ratio della disciplina in esame sia esclusivamente quella di non ostacolare la libera circolazione dei beni.
Si tratta, invero, di una nozione diversa rispetto a quella che viene normalmente utilizzata quando ci si occupa del vizio del bene nel contratto di compravendita, o comunque in generale di beni difettosi.
In tali casi, in cui effettivamente ci si preoccupa di tutelare la libera circolazione de beni, si afferma che il bene è difettoso allorché presenta dei vizi che rendono la cosa inidonea all’uso o ne diminuiscono in maniera apprezzabile il valore.
Al contrario, la nozione di prodotto difettoso accolta dal Codice del Consumo sembra protesa a presidio di esigenze di tutela della sicurezza del consumatore.
Ed infatti, è previsto che il prodotto è difettoso quando tradisce il “test delle legittime aspettative”, vale a dire allorché il consumatore-danneggiato dimostra che quel prodotto frustra le sue aspettative di sicurezza, in quanto non offre la sicurezza che ci si poteva legittimamente e ragionevolmente attendere dal medesimo.
La ratio dell’onere della prova fondato sul “test delle legittime aspettative” discende dal fatto che se l’utilizzatore-danneggiato fosse tenuto, specificamente ed in concreto, a dimostrare il vizio intrinseco del prodotto, sarebbe onerato di una probatio diabolica, visto che egli non ha prodotto il bene e che quest’ultimo è spesso totalmente distrutto-autodistrutto e, dunque, non può essere periziato.
Tale “test delle legittime aspettative” si fonda su una nozione di insicurezza relativa, nel cui contesto assumono primaria rilevanza una serie di circostanze del caso concreto ulteriori rispetto alle caratteristiche intrinseche del prodotto.
In particolare, si deve tenere conto del modo in cui il prodotto è presentato e delle informazioni che lo corredano, dovendosi, al riguardo, verificare se esso, al momento della commercializzazione, è munito di avvertenze, istruzioni, fogli illustrativi, con cui si avvisa dei possibili rischi che possono derivare da un certo utilizzo di quel prodotto.
Occorre, inoltre, prendere in considerazione l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che in relazione ad esso si possono normalmente prevedere.
Questo è importante perché se il danno/difetto si manifesta nell’ambito di un uso oggettivamente abnorme e di una condotta sorprendentemente incauta da parte dell’utilizzatore, è chiaro che debba escludersi la responsabilità del produttore, difettando il requisito della insicurezza inaspettata richiesta dalla norma (art. 117 Cod. Cons.).
Pertanto, analizzando tutte le peculiarità del caso concreto può accadere che un prodotto sia più insicuro di un altro, ma non difettoso. In tal caso, esso è corredato da una serie di avvertenze, informazioni, istruzioni, fogli illustrativi, con cui si avvisa dei possibili rischi che possono derivare da un certo utilizzo del medesimo, o comunque il danno è derivato da un uso ragionevolmente non prevedibile da parte dell’utente.
Si pensi, ad esempio, ai farmaci corredati dal foglietto illustrativo, che indica tutte le possibili conseguenze negative nonché effetti collaterali (anche remoti), che possono discendere dalla loro assunzione.
In questa ipotesi, il produttore sta palesando tutti i pericoli che possono discendere dal prodotto, che, pertanto, non si ritiene insicuro e difettoso ai fini consumeristici e comunitari.
Può però anche succedere che un bene sia meno insicuro di un altro, ma difettoso. In tal caso, non vi sono avvertenze, informazioni, istruzioni, fogli illustrativi, con cui si avvisa il consumatore dei possibili rischi che possono derivare dal bene, che cagiona un danno inaspettato, in violazione del “test delle legittime aspettative”, nel corso dell’uso ragionevolmente prevedibile che l’utente fa del prodotto.
Chiarito che il prodotto difettoso è insicuro in senso relativo, va precisato che la disciplina in esame, in realtà, fuoriesce dalla logica prettamente consumeristica.
Ciò si ricava dall’art. 123 Cod. Cons., ai sensi del quale è risarcibile il danno alla persona fisica, la quale abbia subito delle lesioni personali o finanche la morte, così tutelandosi sia l’utilizzatore-consumatore che l’utilizzatore-professionista.
È altresì risarcibile il danno ad un oggetto diverso dal prodotto difettoso, purché sia normalmente destinato all’uso o al consumo privato e così principalmente usato dal danneggiato (si pensi ad esempio alla caffettiera che esplode e danneggia altri beni vicini alla stessa).
In questo caso, ad essere protetto è solo l’utilizzatore-consumatore, e non anche l’utilizzatore-professionista in quanto tale. Ed infatti, se costui compra un oggetto dal quale deriva un danno ad un suo bene personale potrà ottenere un risarcimento solo se quest’ultimo veniva utilizzato per ragioni private e non professionali.
Da ciò si evince che, in base alla disciplina in esame, non è possibile risarcire tutti i danni che derivano dal prodotto insicuro.
Peraltro, nonostante l’utilizzatore-danneggiato abbia provato il difetto, il danno, e la sussistenza di un nesso causale tra gli stessi, non è detto che costui possa ottenere un risarcimento.
Il produttore, invero, potrebbe liberarsi da responsabilità, fornendo una delle prove liberatorie espressamente previste dalla legge, che servono ad escludere il rapporto di causalità tra il difetto del prodotto ed il danno.
Si tratta di circostanze specifiche, tipizzate dall’art. 118 Codice del Consumo, la cui presenza testimonia l’oggettiva estraneità del prodotto o del difetto del medesimo alla sfera organizzativa del produttore.
L’ipotesi liberatoria più significativa che merita una particolare attenzione è quella contemplata alla lett. e), secondo cui è esclusa la responsabilità del produttore se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui costui ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare quest’ultimo come difettoso.
Tale lettera fa riferimento al c.d. rischio da sviluppo tecnologico-scientifico, che sussiste nel caso in cui, dopo che il prodotto è stato messo in circolazione, per il progredire delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, emerge un difetto del medesimo.
Difetto che, quindi, nel momento in cui il bene è stato immesso nel mercato, era già esistente ed oggettivamente ascrivibile al produttore, solo che la scienza e le conoscenze tecniche non consentivano allora di identificarlo.
Ebbene, in tal caso, il legislatore nazionale ha deciso di allocare il rischio da sviluppo in capo all’utilizzatore, esonerando l’impresa da responsabilità.
Proprio per tale ragione, secondo Taluni, quella in esame sarebbe una ipotesi di responsabilità che non recepisce il principio di precauzione, atteso che il produttore non sarebbe responsabile laddove la scienza non gli avesse fornito un sufficiente livello di conoscenza del pericolo.
Va, comunque, precisato che questa scelta del legislatore risponde ad una valutazione di politica legislativa, che trova la sua ratio nella necessità di armonizzare la nostra normativa con quelle straniere, al fine di non pregiudicare le imprese italiane.
Ed invero, la direttiva comunitaria n. 374/85 aveva rimesso agli Stati membri la libertà di scegliere se fare gravare il rischio da sviluppo in capo al consumatore o al produttore, e la maggior parte di essi aveva sollevato quest’ultimo da tale rischio.
Ciò in quanto si era ritenuto di dover tutelare maggiormente non tanto la sicurezza dei prodotti, ma la circolazione dei medesimi, e dunque la libertà di iniziativa economica degli operatori economici.
Ed allora, il legislatore italiano, per un verso, spinto dalla necessità di non creare uno svantaggio competitivo per le imprese nazionali e, per un altro verso, per non disincentivare le imprese straniere ad investire in Italia, si è dovuto uniformare a tali decisioni.
È necessario, ad ogni modo, tenere conto del fatto che la Corte di Giustizia UE ha interpretato in maniera restrittiva siffatta causa di esclusione della responsabilità, prevedendo che, affinché il produttore possa andarne esente, il difetto non doveva essere prevedibile alla luce delle più elevate conoscenze tecnico-scientifiche esistenti al momento della immissione in commercio del prodotto.
Ne consegue che il produttore non va esente da responsabilità nel caso di insicurezza sopravvenuta da lui conosciuta o per lui conoscibile.
Tuttavia, è ben possibile che il difetto, che non era prevedibile al momento della messa in circolazione del prodotto, alla luce del progresso tecnico-scientifico, lo diventi successivamente, in base ad una insicurezza sopravvenuta.
In tale ipotesi, il Codice del consumo prevede una disciplina, sempre di stampo comunitario, secondo cui il produttore deve adottare tutte le misure idonee a prevenire o limitare i danni, come l’immediato ritiro del prodotto dal mercato, e la tempestiva comunicazione ai consumatori che l’abbiano già acquistato.
Qualora il produttore non intervenga, si configurerà una responsabilità successiva ex art. 2043 c.c., discendente dal fatto che costui, dolosamente o colposamente, non ha adottato tutte le misure idonee a prevenire o limitare i danni.
Ne consegue che l’onere della prova è posto in capo al danneggiato, il quale dovrà altresì dimostrare che il produttore è stato negligente, perché, pur sapendo o potendo sapere che il prodotto non era sicuro, ha omesso di adottare quelle cautele volte ad evitare che lo stesso potesse cagionare un danno.
In tal modo, viene risolto il problema della compatibilità tra la disciplina sulla sicurezza dei prodotti in esame e l’esimente del rischio da sviluppo di cui all’art. 117 Cod. Cons., evidenziandosi appunto che si tratta di normative diverse.
5.3. Rapporti tra l’art. 2050 c.c. e gli artt. 114 ss. del Codice del consumo
È ben possibile che il danno derivante dal prodotto difettoso sia sussumibile non solo nel regime di responsabilità speciale previsto dal Codice del Consumo, ma anche nella disciplina di cui all’art. 2050 c.c. relativa allo svolgimento di attività pericolose.
La giurisprudenza, invero, ha accolto una nozione ampia di attività pericolosa, e spesso ha desunto la pericolosità dalla insicurezza del prodotto.
Ad esempio, l’attività di produzione di farmaci si ritiene essere pericolosa, e ciò non in sé e per sé considerata come ciclo produttivo, ma per il prodotto che mette in circolazione che presenta dei profili di insicurezza per l’uso in quanto tale, anche isolato.
Al contrario, l’attività di produzione del tabacco, dopo una oscillazione nella giurisprudenza, non è considerata pericolosa; pericoloso più che l’uso è l’eventuale abuso, e quindi il consumo elevato che comunque dipende dal comportamento dell’utente.
La disciplina di cui all’art. 2050 c.c. è per il consumatore danneggiato molto più favorevole, posto che configura una forma di responsabilità oggettiva in capo al produttore-danneggiante, gravandolo dell’onere della prova contraria del caso fortuito, derivante dalla verificazione del danno nonostante l’avere adottato tutte le misure idonee, e non conosce l’esimente del rischio da sviluppo in favore del produttore, finendo col far penetrare nel mondo della responsabilità civile anche il principio di precauzione.
Al contrario, la disciplina prevista dal Codice del Consumo sul prodotto difettoso, attraverso l’esimente del danno da sviluppo, esclude l’operatività del principio di precauzione.
Ebbene, alla luce di quanto esposto, è chiaro che si può porre un problema di concorso delle due fattispecie, una delle quali (ossia quella di cui all’art. 2050 c.c.) configura una responsabilità oggettiva che, sotto il profilo dell’onere della prova, è ben più vantaggiosa per il consumatore-danneggiato e ben più severa per il produttore-danneggiante.
A tal riguardo, ci si è chiesti se il consumatore-danneggiato possa invocare la disciplina di cui all’art. 2050 c.c., che è per il medesimo molto più favorevole.
Un primo orientamento giurisprudenziale ha affermato che il consumatore-danneggiato potrebbe invocare la disciplina più favorevole di cui all’art. 2050 c.c.
A fondamento dell’assunto, si evidenzia che l’art. 127 Cod. Cons. afferma, con una clausola finale, che “le disposizioni del presente titolo non limitano né escludono i diritti attribuiti al danneggiato da altre leggi”.
Da ciò si ricava che esse non tolgono in alcun modo al consumatore la possibilità di godere di maggiori diritti e della più effettiva tutela aliunde fornita, ossia, nella specie, quella prevista dall’art. 2050 c.c.
Tale impostazione è stata, tuttavia, criticata dalla Corte di Giustizia UE, che, al contrario, ha escluso l’applicabilità dell’art. 2050 c.c.
Si è osservato, invero, che, in ossequio alle esigenze di armonizzazione in tutti gli Stati membri, il senso dell’inciso in esame è da rinvenirsi nel fatto che non è escluso il cumulo della responsabilità del produttore con un’altra di natura differente.
Così, ad esempio, la responsabilità da prodotto di cui al Codice del Consumo non esclude l’applicazione della disciplina sui vizi della vendita, trattandosi di una responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., che ha una natura giuridica e dei presupposti totalmente diversi.
Infatti, l’utente-danneggiato intende agire non contro chi gli ha venduto il bene, ma nei confronti di chi l’ha prodotto. Tuttavia, poiché spesso costui non ha un rapporto diretto con il produttore, si pone l’esigenza di prevedere nei confronti di quest’ultimo un regime di responsabilità aquiliana più severo rispetto a quello di cui all’art. 2043 c.c.
La responsabilità da prodotto di cui al Codice del Consumo esclude, invece, l’applicazione della disciplina di cui all’art. 2050 c.c., dal momento che hanno la stessa natura aquiliana e lo stesso fondamento oggettivo.
Conseguentemente, non può ammettersi che tale responsabilità, di derivazione comunitaria, che tutela maggiormente il produttore, venga surrettiziamente elusa, invocando una disciplina nazionale che, contempla una responsabilità oggettiva del produttore, che lo grava dell’onere della prova contraria del caso fortuito e che non conosce l’esimente del rischio da sviluppo in favore del produttore.
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Stefania Ambra
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