Processo penale e neuroscienze: diversi livelli d’interazione

Processo penale e neuroscienze: diversi livelli d’interazione

Le cospicue acquisizioni neuroscientifiche che negli ultimi anni stanno occupando la scena destando l’attenzione di tutti, secondo la maggior parte della dottrina non comportano, almeno in questa fase primordiale, né la necessità, né l’opportunità di modificare quelli che sono considerati i capisaldi del diritto penale. Questo, però, non significa che si debba escludere a priori qualsiasi possibilità di dialogo e di collaborazione tra neuroscienze, da una parte, e diritto e processo penale, dall’altra. Spostandoci da una prospettiva teorica ad una più pragmatica ed operativa, resta, infatti, ancora da verificare se le neuroscienze possano fornire un qualche contributo in fase di accertamento di alcuni elementi del reato o, comunque, di alcuni presupposti processuali.

Si parla, al riguardo, di “neuroscienze giuridiche”, etichetta priva di un significato ben definito ma che, tuttavia, rinvia alla psicologia giuridica, disciplina che avanza la pretesa di analizzare, distinguere, approfondire i diversi momenti e luoghi dell’interazione tra mondo del diritto e scienze.

Con la locuzione “neuroscienze giuridiche”, dunque, si intende un tentativo di sistematizzare i diversi filoni di ricerca accomunati dall’applicazione delle metodologie neuroscientifiche allo studio e alla pratica del diritto. Tale esperimento di riorganizzazione può essere strutturato secondo tre categorie fondamentali: neuroscienze criminologiche; neuroscienze normative; neuroscienze forensi.

Neuroscienze criminologiche

Le neuroscienze criminologiche si occupano dello studio del fenomeno criminale attraverso le nuove metodologie delle neuroscienze; si tratta, sostanzialmente, dello studio del fenomeno criminale considerato da un punto di vista puramente naturalistico. L’obiettivo di tali scienze è quello di disegnare una geografia neuro-comportamentale del soggetto criminale, al fine di identificare delle caratteristiche corporee dell’agire criminale.

Per quanto riguarda il Disturbo Antisociale, ad esempio, sono stati individuati degli indici neurologici del comportamento antisociale attraverso l’uso di tecniche di neuroimaging strutturale; tali ricerche hanno trovato in tali soggetti un aumento della sostanza bianca del corpo calloso, una diminuzione della sostanza grigia nella corteccia prefrontale e una diminuzione del volume dell’ippocampo posteriore.

Se da una parte, dunque, le moderne tecnologie sembrano aprire nuovi orizzonti di comprensione del fenomeno criminale, dall’altra le conseguenze riversate sul piano del diritto e della criminologia sono tutt’altro che inedite. E’ a questo punto, sulla base di una criminologia biologicamente fondata, che si ritorna al concetto, precedentemente analizzato, di crisi del libero arbitrio del soggetto criminale.

Neuroscienze normative

Si riferiscono allo studio, attraverso metodiche neuroscientifiche, del senso di giustizia in generale e dei meccanismi neuropsicologici attraverso i quali si struttura la costruzione spontanea di una norma giuridica e del rispetto verso quest’ultima; si vuol includere tutte le ricerche eterogenee accomunate dal ruolo “metagiuridico” che possono svolgere[1].

Tra i più noti interpreti delle neuroscienze normative, vi sono Greene e Haidt i quali distinguono i giudizi morali in “morali personali”, in cui prevale la componente emotiva e il soggetto agisce prevalentemente mosso dalla propria coscienza, e “morali impersonali” influenzati da processi cognitivi più neutri e razionali, che spesso si pongono in contrasto con quelli emozionali. Questi diversi tipi di giudizio morale sono stati analizzati attraverso un esperimento in cui veniva chiesto ai soggetti di risolvere alcune situazioni problematiche.

Un esempio di dilemma morale personale è quello del trolley: “un treno fuori controllo procede verso cinque persone che saranno uccise se il treno non sarà deviato in qualche modo. L’unico modo per salvare queste cinque persone è premere un interruttore che porterà il treno su un altro binario dove, però, ucciderà una persona al posto di cinque. Devieresti il treno per salvare cinque persone alle spese di una soltanto?”.

Un esempio, invece, di dilemma morale impersonale è quello del footbridge: “un treno minaccia di uccidere cinque persone investendole. Tu ti trovi vicino ad uno sconosciuto di grossa stazza su una passerella che attraversa i binari, a metà strada tra il treno in corsa e i cinque malcapitati. L’unico modo per salvarli è spingere giù di sotto dal ponte lo sconosciuto sui binari. Facendo in questo modo lui morirà, ma il suo corpo fermerà il treno e gli altri cinque sopravvivranno. Condanneresti a morte la sua vita per salvare quella degli altri cinque?”.

Generalmente gli intervistati rispondono affermativamente e senza ritardo alla prima domanda, mentre la maggior parte di essi risponde negativamente alla seconda, o quanto meno con un tempo di esitazione decisamente più lungo, nonostante la similitudine tra i due dilemmi. A variare sono le maggiori implicazioni emotive personali del secondo quesito, dove l’intervistato non può limitarsi a deviare una minaccia, ma deve optare per un’azione aggressiva da effettuare direttamente ai danni di un innocente.

Le basi neuronali dei due diversi atteggiamenti sono state indagate utilizzando la tecnica dell’fMRI. La prima domanda attivava negli intervistati aree del cervello associate al pensiero astratto e razionale, mentre con la seconda si riscontrava un aumento dell’attività delle zone associate alle emozioni e alla cognizione sociale. A livello cerebrale, praticamente, si evidenziava il conflitto fra una direttiva morale utilitaristica (sacrificare una vita per salvarne cinque) ed un imperativo assoluto dai forti richiami emotivi (non uccidere). L’esperimento, in conclusione, dimostra l’importanza dei fattori emotivi anche nelle scelte morali e, dunque, l’esistenza di una relazione diretta tra carenza o assenza di empatia determinata da lesioni o anomalie neuronali e commissione di un fatto criminoso. Le implicazioni che ne derivano possono ricondurci, tra l’altro, al dibattito circa l’art.90 c.p., precedentemente affrontato.

Neuroscienze forensi

Le neuroscienze forensi si occupano dei dati scientifici rilevanti ai fini della valutazione giudiziaria; in altri termini, si occupano dell’idoneità delle teorie e delle metodologie della neuroscienza a costituire valida prova scientifica all’interno del processo.

Pertanto, se i criteri e le metodologie sono considerati consolidati, il giudice si limita a verificarne la corretta applicazione. In caso negativo il primo e fondamentale problema che il giudice deve affrontare riguarda la validità e affidabilità della prova scientifica o metodo scientifico da applicare nel processo; si tratta di una delle premesse del ragionamento probatorio che si riflette poi sul procedimento argomentativo della sentenza. Se le premesse sono errate sarà errato anche il ragionamento che conduce alle conclusioni[2].

Da ciò deriva che il giudice di merito dovrà esercitare, nel contraddittorio delle parti, un controllo critico particolarmente penetrante sia nella fase dell’ammissibilità della prova scientifica che nella valutazione del risultato della prova[3].

La cultura italiana, in questo modo, sembra voler riprendere i principi che regolano la materia nei sistemi giuridici anglosassoni. L’esame del procedimento probatorio vigente nel nostro ordinamento e in particolare della sua prima fase, infatti, non può prescindere dallo studio del modello nordamericano, che in tema di prova scientifica e relativi problemi processuali rappresenta il punto di riferimento. Il primo dato da evidenziare è che in tale ordinamento il giudice togato (trial judge) rappresenta il pilastro del rito di common law[4], rappresenta, cioè, colui che si occupa di dare una valutazione definitiva dell’ammissibilità delle prova, consegnata poi nelle mani della giuria per una decisione non motivata, e per questo non rispettosa delle garanzie individuali. Di fronte ad una prova tecnico-scientifica ritenuta valida ed affidabile, il giudice togato deve, quindi, compiere una scelta definitiva dalla quale dipende la presentazione o meno della suddetta prova alla giuria, cui spetta il compito di ponderare tutto il materiale probatorio precedentemente ammesso. Il contributo del sapere tecnico-scientifico, inoltre, fa ingresso nella contesa processuale quasi esclusivamente grazie all’apporto di testimoni-esperti (expert witness) indicati dalle parti, in qualche modo equiparabili ai nostri consulenti tecnici, essendo residuale l’eventualità che il giudice nomini a tal fine uno specialista della materia. Ed è in tale sfondo che va inquadrata l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa in tema di prova tecnico-scientifica.

L’ordinamento statunitense, infatti,  nel corso della storia ha utilizzato vari criteri di ammissione della prova scientifica; per lungo tempo, il criterio adottato per soppesare l’ammissibilità di un expert witness è stato quello del “commercial marketplace test”, che mirava a rilevare il prestigio di cui  tale esperto godeva all’interno del mercato di una certa professione o mestiere[5].

Ma tale, criterio, basandosi su un concetto, quello di mercato, di derivazione strettamente economica e variabile, e soggetto all’incidenza di diversi fattori, si è dimostrato inidoneo a valutare la scientificità delle competenze da taluno accreditate, tanto da suggerire nei primi decenni del secolo scorso il suo abbandono. L’attenzione viene quindi focalizzata sull’intellectual marketplace, cioè sulla natura specialistica della questione da risolvere e sulla qualificazione dell’esperto[6], ma gli episodi successivi fanno sorgere l’esigenza di un criterio più idoneo a quel sistema.

La definitiva sistemazione raggiunta dalla materia in esame è sintetizzabile attraverso alcuni importanti e fondamentali passaggi.

Nel caso Frye vs. United States del 1923 veniva fissato il criterio di base, definito general acceptance test” o “Frye test”, secondo il quale la verifica dell’ammissibilità di una prova scientifica era ancorata alla generale accettazione di quest’ultima da parte della comunità scientifica di riferimento. L’esperimento scientifico doveva, infatti, essere “sufficiently established to have gained general acceptance in the particular field in which it belongs…[7]“. Tale regola era di fatto applicata solo di fronte a prove tecniche-scientifiche “nuove”, nel senso di strumenti cognitivi estranei all’usuale panorama probatorio in auge nelle prassi delle Corti. Tale criterio trovò vasto consenso giudiziale e generò un’adesione incondizionata per decenni in quanto assicurava una rassicurante uniformità di giudizi.

Negli anni sessanta del secolo scorso, tuttavia, il Frye test incominciò a scricchiolare sull’onda di critiche che ne evidenziavano l’inadeguatezza epistemologica in quanto basato su una concezione statica del sapere scientifico, sulla sua infallibilità, che sottraeva al giudice ogni compito di controllo attivo e diretto appiattendone la valutazione sulle opinioni dominanti degli specialisti del settore.

Con la sentenza Coppolino vs. State del 1968, dunque, tale scenario entrò in crisi in quanto fu denunciato il ritardo eccessivo che il Frye test comportava nel recepimento giudiziale di nuove conoscenze tecnico-scientifiche, ostacolando l’accertamento di gravi reati.

Ulteriore significativo passaggio fu costituito dalle Federal Rules of Evidence (1975), nelle quali non vi era traccia del criterio “general acceptance” tanto da far pensare che fosse superato l’asserto del Frye test: in esse era “rilevante” la prova idonea a dimostrare un determinato fatto significativo per la decisione finale (rule 401)[8]; si delineava la regola dell’“inclusione”, secondo cui ogni prova rilevante era di per sè ammissibile, salvo che non fosse esclusa da specifiche previsioni normative (rule 402)[9]; si riconosceva , con espresso riferimento alla prova tecnico-scientifica, il diritto di ricorrere alla testimony by expert, a condizione che si accertasse la sua competenza e qualificazione in materia (credit), qualora fosse necessario l’apporto di conoscenze tecnico-scientifiche (rule 702)[10]; quanto al materiale cognitivo utilizzabile dall’esperto per la sua opinion si prevedeva che i dati e i fatti potessero essere comunicati prima o durante l’udienza o ancora essere acquisiti da lui personalmente e che, nel caso in cui si fosse trattato di dati e fatti su cui gli specialisti del settore facevano ragionevole affidamento, non era necessario che venissero acquisiti al processo autonomamente ma potevano essere impiegati direttamente dall’esperto (rule 703)[11]

Con il caso Daubert vs. Merrell Dow Pharmaceuticals Inc. del 1993 venne emessa una pronuncia che segnò un passo decisivo nella storia della giurisprudenza americana in tema di prova scientifica, tanto che le Corti seguono, ancora oggi, i suoi dettami alla stregua di un “manuale d’istruzioni”, col quale trattare la scientific evidence[12]. La novità della decisione è consistita nell’aver evidenziato la necessità, da parte del giudice, di uno scrutinio attento sulla prova scientifica: egli deve preoccuparsi direttamente del processo di formazione della scientific knowledge ed esercitare il proprio diretto controllo sull’affidabilità dello strumento scientifico, senza adagiarsi sulle opinions degli esperti, acquisendo quella che viene definita gatekeeping function[13]. Sono poi stati fissati i requisiti di ammissibilità:

– la verificabilità della teoria: una teoria viene considerata scientifica se può essere controllata mediante esperimenti;

– la falsificabilità: secondo l’insegnamento popperiano, una teoria viene considerata scientifica solo se è falsificabile;

– controllo della comunità scientifica: un metodo o teoria viene considerato scientifico se è stato fatto oggetto di pubblicazioni scientifiche e dunque sottoposto al controllo critico della comunità scientifica;

– la percentuale di errore noto o potenziale e il rispetto degli standards relativi alla tecnica impiegata;

– la generale accettazione (principio della vecchia pronuncia Frye, ormai solo ausiliario): praticamente, il giudice, senza essere vincolato, deve tenere conto della generale accettazione da parte della comunità scientifica. Tuttavia, il giudice può decidere anche in base ad una teoria che di fatto non vanta la c.d. accettazione generale da parte della comunità scientifica qualora questa rispetti i precedenti criteri di vaglio epistemologico.

Il periodo successivo a “Daubert” è costituito da due sentenze che, insieme alla precedente formano un’importante trilogia meglio nota come “trilogia Daubert-Joiner-Kumho” in cui si precisano la portata e i limiti della discrezionalità conferita al giudice nella fissazione dei criteri di controllo e l’ambito di operatività del Daubert test.

Grazie a Daubert Hearing, dunque, è stato ammesso alle corti l’uso di strumenti di prova “atipici” tra cui, ai fini dell’oggetto della presente ricerca, assume un particolare rilievo il test Brain Finger-printing (rilevatore di tracce cerebrali). Si tratta di un test basato sull’utilizzo di un EEG tramite l’apposizione di un casco di elettrodi per registrare potenziali correlati ad eventi stimolati esternamente. Il sistema è diretto a determinare obiettivamente la presenza di determinate informazioni nel cervello di una persona misurando i flussi delle onde cerebrali in risposta ad immagini riprodotte sullo schermo di un computer ed inviate all’esaminato. Quando il cervello riconosce un’informazione rilevante, come i dettagli di un crimine conservati nella mente del colpevole, il cervello risponde con un determinato segnale; si forma cioè sul tracciato un’onda anomala denominata P300.

Il primo ed anche più famoso caso sottoposto a tale test è Harrington vs Iowa: l’imputato Harrington era stato condannato all’ergastolo senza liberazione condizionale per omicidio, di cui si era sempre professato innocente, sostenendo di essere stato ad un concerto con amici in un locale lontano dal luogo del delitto. Nel 1997, 19 anni dopo, Harrington propose ricorso presso la Corte Distrettuale dello Iowa, allegando diverse nuove prove, tra cui il risultato del test. Nel test egli non aveva emesso alcun segnale davanti alle immagini dell’omicidio, emettendolo, invece, davanti ai dettagli relativi all’alibi da lui fornito all’epoca (concerto con gli amici).

Il testimone ammise di aver mentito nel primo processo e, in una successiva udienza nel marzo 2001, il giudice distrettuale sentenziò che il test rispondeva ai requisiti di idoneità ed ammissibilità come prova di evidenza scientifica secondo i canoni della Rule Daubert. Nonostante questo il giudice affermò che le nuove prove ed il test probabilmente non avrebbero portato la giuria ad una conclusione diversa, quindi il ricorso fu rigettato.

Nell’agosto del 2001 la Corte Suprema dello IOWA accolse il ricorso di Harrington ed ordinò un nuovo processo. Ma, nemmeno in questo caso fu riconosciuta la rilevanza del risultato ai fini del merito del giudizio. Ad oggi il valore del test viene valutato con estrema prudenza, innanzitutto perchè Lawrence Farwell, l’inventore, non ha ancora concesso l’uso dello stesso a terzi (viene meno, pertanto, la verificabilità e diffusione nella comunità scientifica) e poi perchè ai fini della riuscita è richiesta da parte degli inquirenti o da parte di chi utilizza il test, la conoscenza di particolari che possano essere noti al solo colpevole. Infine, un altro ostacolo è costituito dal fatto che i risultati non sono riproducibili sullo schermo allo stesso modo di una fMRI, ma devono essere decodificati e poi enunciati dal tecnico che media tra l’esaminato, il giudice e le parti.

Nonostante i suoi innumerevoli limiti, il test EEG resta quello dall’applicazione più pratica e che, al contempo, opera anche nel rispetto delle garanzie di libertà dell’inquisito, a differenza di altri test ben più invasivi.

Ammissione della prova scientifica e catalogo legale in Italia

L’attuale codice di procedura penale, introdotto con il Decreto del presidente della Repubblica 22 settembre 1988 n. 447, non prevede espressamente il tema della prova scientifica nonostante il ricorso a tali strumenti sembra essere prevalso già dal finire degli anni ottanta del secolo scorso.

L’art.189 c.p.p., delineando le prove non disciplinate dalla legge, infrange il principio di tassatività delle prove, mutando decisamente rotta rispetto al Progetto preliminare del 1978[14] in cui, appunto, si escludeva la possibilità di fare ricorso a prove atipiche o, comunque, innominate, al fine di potenziare le garanzie di difesa dell’imputato. Il legislatore della riforma, dunque, al fine di superare la rigidità del sistema previgente, tenendo conto del principio di tassatività, imbocca una strada intermedia attraverso cui l’organo giudicante può assumere anche prove non disciplinate dalla legge.

E’ necessario, però, che l’organo giudicante controlli a priori che tali prove siano, al tempo stesso:

– affidabili sul piano della genuinità dell’accertamento: il primo parametro normativo a cui il giudice deve attenersi per verificare l’ammissibilità della prova atipica consiste, dunque, nell’indagine sulla capacità dello strumento probatorio di offrire un contributo utile alla ricostruzione della vicenda giudiziaria, contributo che non sarebbe altrimenti raggiungibile attraverso i mezzi di prova tipici o che comunque comporterebbe l’uso di un procedimento accertativo meno affidabile[15].

Più nello specifico e considerata l’impossibilità per il giudice di rendere a priori un giudizio di assoluta certezza circa l’idoneità o inidoneità probatoria di un mezzo di prova atipico, in ragione della ancora limitata conoscenza degli atti del giudizio, si è ipotizzato che tale valutazione possa contenersi in un giudizio di “non manifesta inidoneità” del mezzo di prova atipico a verificare i fatti per cui si procede[16].

– non lesive della libertà morale delle persone:  il secondo parametro normativo a cui il giudice deve attenersi ai fini dell’ammissione di una prova atipica, invece, riguarda la tutela della libertà morale della persona. La portata generale di questa condizione è ben riassunta nell’art.188 c.p.p. il quale dispone: “ Non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti”. Quindi uno strumento di prova atipico, anche se idoneo all’accertamento dei fatti, non sarà ammissibile, anche in presenza del consenso della parte interessata, se risulti pregiudizievole per la libertà morale e di autodeterminazione del soggetto.

Tale scelta è ben sintetizzata in un passaggio della relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988: “L’art. 189 regola l’assunzione delle prove non previste espressamente dalla legge, così lasciando intendere che il sistema non recepisce il principio di tassatività senza peraltro ignorarne la portata garantistica. Il Progetto del 1978 aveva invece escluso l’utilizzabilità di prove atipiche od innominate nell’intento di rafforzare le garanzie difensive dell’imputato in relazione a mezzi di accertamento dei fatti di reato la cui acquisizione potrebbe condurre ad errori o abusi (ad es. tavole d’ascolto idonee ad intercettare conversazioni tra presenti). Riesaminatosi il problema in tutti i suoi profili di politica e tecnica processuale, si è scelta una strada intermedia che consente al giudice di assumere prove non disciplinate dalla legge ma lo obbliga a vagliare, a priori, che queste siano, al tempo stesso, affidabili sul piano della genuinità dell’accertamento e non lesive della libertà morale della persona. Verificata l’ammissibilità del mezzo di prova atipico , il giudice dovrà poi regolarne in concreto le modalità di assunzione così da rendere conoscibile in anticipo alle parti l’iter probatorio. E’ sembrato che una norma così articolata possa evitare eccessive restrizioni ai fini dell’accertamento della verità, tenuto conto del continuo sviluppo tecnologico che estende le frontiere dell’investigazione, senza mettere in pericolo le garanzie difensive”[17].

L’art.189 c.p.p., dunque, rappresenta la soluzione più idonea volta, da un lato, ad evitare le eccessive restrizioni in giudizio e, dall’altro, ad impedire al giudicante di acquisire qualunque elemento ritenuto utile all’accertamento della verità materiale, senza alcuna limitazione.

Si discute, tuttavia, se l’ammissione debba svolgersi secondo le regole ordinarie fissate dall’art.190 c.p.p. o secondo quelle contemplate dall’art.189 c.p.p. per le prove non disciplinate dalla legge. In realtà, quanto al controllo sull’idoneità all’accertamento dei fatti e sulla mancanza di pregiudizio per la libertà morale, non vi è differenza tra l’una e l’altra soluzione: la scientificità del metodo è implicita nel concetto stesso di perizia (o di consulenza tecnica) e la libertà di autodeterminazione è comunque protetta dall’art.188 c.p.p.[18]

La differenza sta nella regola di ammissione: per le prove atipiche, l’art.189 c.p.p. impegna al contraddittorio anticipato, dovendo il giudice sentire le parti sulla modalità della loro assunzione. Può essere questa una buona ragione per considerare “atipiche” le prove neuroscientifiche; ma, dal punto di vista esegetico, la soluzione incontra qualche ostacolo nella formulazione dell’art. 189 c.p.p. dove si parla di “prova non disciplinata dalla legge”, mentre quelle in esame entrano nel processo attraverso la perizia o la consulenza tecnica che sono legislativamente regolate. Il problema, in sostanza, è che lart. 189 c.p.p. riferisce l’atipicità all’assenza di una previsione legislativa, mentre nel caso delle neuroscienze l’atipicità sta nella novità del metodo, ancora in fase sperimentale.

Cosa intendiamo, quindi, quando parliamo di “prova non disciplinata dalla legge”?

L’art. 189 c.p.p. dispone che: “Quando è richiesta una prova non disciplinata dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione sentite le parti sulle modalità di assunzione della prova.”

Come possiamo constatare, nè dalla norma, nè dalla relazione al progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale[19] può ricavarsi, come si vede, alcuna definizione di “prova atipica”.

Considerata l’impossibilità di ricondurre l’atipicità sotto una chiara ed univoca definizione[20], sono state individuate tre tipologie di prove atipiche: prova atipica innominata, che attribuisce l’atipicità al risultato perseguito, diverso quindi da quelli perseguiti tramite mezzi tipizzati; prova atipica irrituale identificabile in un mezzo di prova assunto in deroga al procedimento acquisitivo dettato dal legislatore[21]; prova atipica anomala nel caso in cui una prova tipica venga formata deviando in tutto o in parte dalle regole previste dal modello normativo di riferimento[22].

In realtà, negli ultimi due casi, più che di prova atipica, dovrebbe parlarsi di una prova assunta contra legem, quindi non utilizzabile ai sensi dell’art.191 c.p.p. e, del resto, è lo stesso art.189 c.p.p. a non comprendere la prova anomala e quella irrituale nella categoria delle prove atipiche. Quando si parla di “atipicità”, dunque, occorre fare riferimento solo ed esclusivamente a quei mezzi di prova non previsti esplicitamente nel codice di rito e non anche a quei mezzi di prova assunti attraverso un procedimento diverso da quello previsto dal legislatore.

Ovviamente, la “prova atipica” non fa esclusivo riferimento alla prova scientifica; non sempre, infatti, gli strumenti tecnico-scientifici necessitano di una costruzione ad hoc, potendo, infatti, essere collocati anche nelle figure probatorie tipiche delineate dal legislatore.

Per essere precisi, la prova scientifica può essere distinta in:

– comune, o tradizionale:  definita così perché “la sua affidabilità risulta ormai indiscussa alla luce di una consolidata esperienza nell’uso giudiziario, della coerenza dei loro risultati e del consenso generalizzato da parte della comunità scientifica[23]“;

– nuova: l’elemento di novità può essere riferito all’utilizzo della prova mediante adozione di criteri innovativi, ancora non facenti parte del patrimonio comune degli esperti o al ricorso a metodiche di elevata specializzazione, già collaudate ma non ancora calate nel contesto giudiziario.

Una prova scientifica, dunque, può essere anche una prova tipica, così come non tutte le prove atipiche devono necessariamente essere scientifiche.

A questo punto, viene spontaneo chiedersi se la disciplina di cui all’art.189 c.p.p. possa essere estesa anche ai “mezzi di ricerca della prova”. Sappiamo, infatti, che con il codice del 1988 è stata inserita nel libro III, titolo I la disciplina generale in tema di prove, distinguendo tra mezzi di prova (titolo II) e mezzi di ricerca della prova (titolo III)[24].

Secondo una parte della dottrina la disciplina di cui all’art.189 c.p.p. non può estendersi anche ai mezzi di ricerca della prova a causa del momento procedimentale entro cui questi si sviluppano (indagini preliminari), infatti sarebbe impossibile collegare questa tipologia di prove con la necessità di sentire anticipatamente le parti sulle modalità di assunzione.

Secondo la giurisprudenza[25] e secondo un’altra parte della dottrina, invece, la disciplina di cui all’art.189 c.p.p. può estendersi anche ai mezzi di ricerca della prova, in quanto la collocazione nel titolo I del Libro III del codice di procedura penale, dedicato alle disposizioni generali sulla prova rende la norma estensibile pure alla fase delle indagini preliminari; basterebbe, per risolvere la problematica, svolgere un contraddittorio posticipato sulla utilizzabilità degli elementi acquisiti. L’art.189, infatti, essendo una regola generale, dovrebbe valere anche nella fase delle indagini preliminari in ragione dell’estensione ex art. 61 c.p.p. all’indagato delle garanzie previste per l’imputato.

Assunzione della prova scientifica

“..verificata l’ammissibilità del mezzo di prova atipico, il giudice dovrà poi regolarne in concreto le modalità di assunzione così da rendere conoscibile in anticipo alle parti l’iter probatorio[26]“.

A differenza delle prove tipiche, infatti, la cui modalità di assunzione è già tassativamente prevista nel codice di rito, nel caso di prove non disciplinate dalla legge, il contraddittorio viene garantito non solo nel momento di formazione della prova, ma anche prima, nel momento di individuazione del procedimento acquisitivo, per evitare che il giudice vada a strumentalizzare il potere previsto dall’art.189 c.p.p.

Per la trattazione nel concreto della seconda fase probatoria è necessaria una disamina del concetto di scienza.

Per lungo tempo, è prevalsa, circa il concetto di scienza, una concezione c.d. positivista che considerava la scienza come illimitata, completa ed infallibile. A partire dagli anni quaranta del secolo scorso, però, alcune correnti dottrinarie hanno cominciato a staccarsi da tale concezione positivista, considerando la scienza come limitata, in quanto analizzando un fenomeno è possibile solo cogliere alcuni dei suoi aspetti; incompleta , data la sua tendenza a diventare obsoleta non appena altri aspetti di quel fenomeno venivano scoperti, tanto da rendere necessario un suo aggiornamento e fallibile in quanto ogni legge scientifica ha un tasso di errore che deve essere ricercato[27].

Che impatto ha prodotto tale cambiamento sulla struttura della prova e sul contraddittorio?

Nel codice di procedura penale del 1930 veniva riconosciuto all’esperto un ruolo prevalente, decisivo e talvolta risolutorio; quest’ultimo veniva esaminato in segreto, senza il coinvolgimento delle parti[28]. Tale sistema, però, entrò in crisi nel momento in cui venne appurato che l’esperto era pur sempre una persona umana, incline a commettere errori, diveniva, dunque, necessario un controllo sul suo operato affidato a consulenti, nominati direttamente dalle parti private.

Ciò è confermato anche dalla pronuncia della Corte di Cassazione sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786 (sentenza Cozzini), attraverso la quale, la Suprema Corte non solo accoglie i c.d. criteri di Daubert previsti dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1993, ma va ad ampliare anche alcuni importanti aspetti. Nella motivazione della sentenza, infatti, vengono ribaditi i criteri della verificabilità del metodo, della falsificabilità, della sottoposizione al controllo della comunità scientifica, della conoscenza del tasso di errore e della generale accettazione e, inoltre, la Cassazione aggiunge la necessità che il giudice valuti “l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove e la possibilità di formulare criteri di scelta tra contrastanti tesi scientifiche”[29].

Tutto ciò, va a determinare la nascita, a favore delle parti processuali, di un nuovo diritto: quello di confutare l’ipotesi formulata dalla controparte o dal perito. Quindi, da un lato, il potere di contrastare l’ipotesi suddetta si traduce nella facoltà di dimostrare l’applicabilità al fatto storico di regole diverse, genitrici di una diversa spiegazione dell’evento; ad esempio, l’esistenza al momento del fatto di altre cause provocanti l’accadimento. Dall’altro, occorre poter screditare la legge scientifica facendo valere la sua inidoneità nel caso concreto per non aver correttamente dimostrato la correlazione tra causa e conseguenze.

La vaga formulazione dell’art.189 c.p.p. ha generato, nel corso del tempo, innumerevoli dubbi circa l’individuazione dei soggetti a cui spetta il compito di fissare le modalità assuntive della prova atipica.

Inizialmente, vi era una parte della dottrina che riconosceva tale onere solo alle parti residuando al giudice unicamente il vaglio di ammissibilità della prova medesima[30]. L’ipotesi sostenuta da tale orientamento, però, comportava il rischio che le parti selezionassero solo le modalità di assunzione della prova più favorevoli al proprio scopo processuale o che, comunque, non indicassero alcuna modalità o indicassero modalità acquisitive contra legem, impedendo di fatto l’ingresso nel processo di una prova atipica potenzialmente idonea ad accertare i fatti.

La soluzione prospettata con riferimento in particolare alla nuova prova scientifica sarebbe quindi quella di rimettere l’individuazione del modus procedendi al perito o al tecnico che si debba occupare della concreta acquisizione del nuovo mezzo istruttorio, il più delle volte di elevata specializzazione[31].

La dottrina prevalente, però, sembra concorde nel ritenere che debba essere il giudice a determinare le modalità di assunzione della prova atipica, previa audizione,  non vincolante, delle parti in contraddittorio.[32] L’esigenza di scindere, nel caso delle prove atipiche, i due momenti di ammissione ed assunzione della stessa, trova, dunquem ragione nella necessità di consentire alle parti la partecipazione alla scelta del modus procedendi, in quanto procedimento non garantito ex lege.

E’ bene precisare, al riguardo, che inizialmente la Suprema Corte di Cassazione aveva escluso che la mancata audizione delle parti potesse generare l’inutilizzabilità della prova atipica; tale sanzione, infatti sarebbe prevalsa solo in caso di acquisizione di una prova in violazione di un divieto stabilito dalla legge, insomma, in ipotesi di mera irregolarità[33].

Attualmente, invece, si è concordi nel ritenere che l’omessa audizione delle parti, determini una nullità di ordine generale a regime intermedio ex art. 178 comma 1 lett. b) o c) c.p.p. con conseguente inutilizzabilità del risultato probatorio. D’altronde  una diversa esegesi normativa porterebbe alla violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 6 CEDU poiché il diritto ad un giudizio imparziale si concretizza anche nel dovere del giudicante di rendere effettivo il “contraddittorio per la prova”[34].

In ogni caso, nonostante gli innumerevoli dubbi generati a causa della formulazione troppo generica dell’art.189 c.p.p., a differenza del modello accusatorio puro previsto in America[35], il codice di procedura penale italiano del 1988 attribuisce più libertà al giudice, potendo ammettere mezzi di prova anche d’ufficio,  secondo i generali canoni dettati dall’art. 507 c.p.p., e quindi nominare un perito quando occorre un supportato tecnico, scientifico o artistico. Tale potere tuttavia può essere esercitato d’ufficio solo nella fase dibattimentale, a meno che non ci sia una richiesta del pubblico ministero o una particolare urgenza[36], da essere esteso anche alle indagini preliminari[37].

Come abbiamo anticipato, il veicolo d’ingresso della nuova prova scientifica, dunque delle neuroscienze, nel processo è la perizia o la consulenza tecnica (utilizzeremo l’espressione “testimone esperto”che corrisponde alla traduzione del termine inglese “expert witness”, per evitare di dover distinguere continuamente tra perito e consulente tecnico di parte).

Il testimone esperto

Inizialmente, nel codice del 1930 era prevista la possibilità in capo al giudice di scegliere se ricorrere alla perizia o se farne a meno, tanto che il perito, più che esaminato, assumeva il ruolo di consigliere.

Con le successive riforme, la perizia cambia aspetto e, dunque, il giudice comincia a ricorrere ad essa solo in caso di “necessità”; il perito, pertanto, diviene organo utile al giudice ed alle parti.

E’ il legislatore del 1988 a rimuovere il concetto di necessità e ad introdurre quello di “occorrenza”; il giudice, dunque, è tenuto a verificare se per l’oggetto del giudizio occorra ricorrere ad elementi tecnico-scientifici. La perizia, pertanto, va ad arricchire le conoscenze del giudice attraverso la presenza di un esperto, nel momento in cui occorre, appunto, svolgere indagini che richiedono particolari competenze tecniche, scientifiche o artistiche (art.220 c.p.p.).

Il subentrare all’interno del processo di soggetti esperti, chiamati a fornire il loro parere tecnico a supporto del soggetto processuale che lo ha invocato, va a sottolineare l’importanza del c.d. esame incrociato.

L’esame incrociato (o cross examination) è disciplinato all’art. 498 c.p.p. e rappresenta uno degli istituti più delicati nel sistema processuale penale delineato dal codice del 1988 infatti indica la rottura con il precedente sistema di tipo inquisitorio nel quale era il Presidente del Collegio o il Pretore a procedere all’esame, mentre alle parti era consentito fare domande solo per mezzo del Giudice. Oggi, invece l’esame è condotto in prima persona dal pubblico ministero e dai difensori, mentre al presidente è riservato, oltre al potere di direzione e di vigilanza, il potere suppletivo in caso sia, ad esempio, necessario sollecitare una risposta, oppure comprendere meglio certi passaggi.

L’esame incrociato è, inoltre, volto a determinare l’attuazione del principio del
contraddittorio per la formazione della prova, ex art. 111, comma 4, Cost., principio cardine dell’intera materia processuale, che riesce meglio di qualsiasi altro strumento a far emergere tutti gli elementi utili alla comprensione dei fatti ed alla scelta sulla ricostruzione preferibile.

L’esame incrociato, attraverso i suoi tre momenti costitutivi (esame, controesame e riesame), rappresenta la parte del processo in cui il testimone esperto viene messo a nudo, viene, praticamente, sottoposto ad uno “screening” al fine di evidenziare lacune e mancanza di scientificità. La parte, in tal modo, può contestare la competenza del perito o del consulente o può attaccare la teoria generale di riferimento.

Infine, ai sensi dell’art. 495 comma 4 ult. parte c.p.p., il giudice può, sentite le parti, revocare con ordinanza l’ammissione delle prove che risultano superflue o ammettere prove già escluse.

Il potere giudiziale di revoca, per superfluità, delle prove già ammesse è, nel corso del dibattimento, più ampio di quello esercitabile all’inizio del dibattimento stesso, momento in cui il giudice può non ammettere soltanto le prove vietate dalla legge o quelle manifestamente superflue o irrilevanti; con la conseguenza che la censura di mancata ammissione di una prova decisiva si risolve, una volta che il giudice abbia indicato in sentenza le ragioni della revoca della prova già ammessa, in una verifica della logicità e congruenza della relativa motivazione, raffrontata al materiale probatorio raccolto e valutato[38].

Il momento valutativo: il libero convincimento del giudice

La giustizia procedurale può essere di tre diverse tipologie:

– pura: quando l’unico criterio è dato dall’osservanza delle regole;

– perfetta: quando la scrupolosa osservanza garantisce un risultato giusto;

– imperfetta: quando l’esatta osservanza delle regole non assicura il raggiungimento dell’ideale di giustizia prospettato dal criterio esterno.

Secondo la dottrina maggioritaria, il processo può essere collocato in quest’ultima categoria, in quanto il rispetto delle regole non assicura un risultato giusto e molto spesso, a prescindere dagli elementi probatori, si può giungere alla condanna di una persona innocente o all’assoluzione di un colpevole.

Pertanto, se la giustizia penale viene considerata come una giustizia imperfetta, il momento valutativo delle prove deve essere arricchito di garanzie e attenzioni particolari[39].

L’art.192 comma 1 c.p.p. è, al riguardo, il nostro principale riferimento codicistico, in quanto disciplina il principio cardine del processo penale, antitetico a meccanismi di valutazione vincolata della prova.

Prima di procedere all’analisi del principio suddetto, occorre fare un passo indietro;  fino alla fine del XVIII secolo, infatti, a causa della sfiducia nutrita nei confronti dei giudici e, a causa dell’esigenza di razionalizzare la valutazione delle prove, si giunse all’applicazione del sistema della “prova legale”.

Tale sistema attribuiva alla prova scientifica una valenza vincolante che impediva al giudice di tener conto di quei fattori che avrebbero potuto invece suggerire un atteggiamento più cauto; il giudice praticamente era obbligato a considerare come necessariamente e indubbiamente accertati i dati emersi grazie al ricorso a determinati mezzi di prova. Nonostante tale carattere di positività, il sistema è tale da creare una verità “artificiale”, come risultato della mancata corrispondenza tra verità legale, risultante dal giudizio finale sugli esiti probatori, e l’effettivo convincimento del giudice[40].

Il sistema della prova legale, dunque, entrò in crisi con le legislazioni illuministiche e con la formazione degli ordinamenti giuridici moderni; questi ultimi portarono al cambiamento della natura istituzionale e dell’immagine sociale del giudice.

E’ proprio in questo caso che si afferma e diventa dominante, l’opposto e attuale principio detto del “libero convincimento”, il quale può essere sorretto o da un’intime conviction, (sistema caratterizzato da giudici popolari), oppure dall’obbligo di motivazione (finalizzato ad operare un controllo non solo interno ma anche esterno, sull’iter logico seguito per giungere ad una determinata decisione).

La soluzione più idonea è, sicuramente, volta ad appoggiare il sistema del libero convincimento con obbligo di motivazione. Il giudice, quindi, nel ricostruire un fatto, deve essere libero di credere o non credere ad una fonte di prova e non può essere condizionato, nel valutarne la rilevanza, da giudizi normativamente prefissati[41]. Il libero convincimento, tuttavia, non può significare prova a valutazione libera; infatti, la disciplina del procedimento probatorio, volta a regolamentare il libero convincimento del giudice che si esprime nella decisione, individua i criteri che debbono essere seguiti dal giudice nella valutazione del dato probatorio, obbligando, appunto, il giudice a dar conto del giudizio attraverso la motivazione[42].

Partiamo dal presupposto che la funzione valutativa si articola in due stadi; il primo prende in considerazione la singola attività probatoria e il suo risultato, il secondo si sofferma, invece, sull’istruzione dibattimentale presa nel suo insieme; il giudice, infatti, non può rimettersi semplicemente alle opinioni degli scienziati, ma deve assumere, come abbiamo già anticipato nei precedenti paragrafi, il ruolo di gatekeeper, cioè deve “controllare attivamente” l’affidabilità dello strumento probatorio.

Il primo stadio, dunque, che può sembrare analogo all’attività compiuta in sede di ammissione, differisce nettamente in quanto il giudice al  momento della valutazione dispone di conoscenze molto più ampie rispetto alla fase iniziale. Il suo controllo riguarda, innanzitutto, i dati utilizzati dallo specialista per la sua attività e, successivamente la corretta applicazione dei principi, regole e metodi nel caso concreto.

A questo punto il giudice verifica che l’esperto non abbia abusato o fatto un cattivo uso della scienza, verificando, appunto, che costui  abbia preso in considerazione tutti i dati rilevanti per la formulazione delle sue conclusioni.

L’organo giudicante deve, poi, procedere con la comprensione della prova scientifica acquisita; infatti, nella prima fase questa era comprensibile, poi attraverso le tecniche di assunzione è stato possibile comprenderla, altrimenti il giudice non avrebbe potuto usarla per il suo giudizio[43].

Nel secondo stadio si compie, come suddetto, una valutazione complessiva della prova; tale attività è basata sul principio valutativo di cui all’art.192 comma 1 c.p.p. secondo cui il giudice, nel valutare i risultati dell’istruzione dibattimentale, non deve fare riferimento ai singoli apporti cognitivi, ma deve effettuare una valutazione complessiva della prova utilizzando criteri logici, tecnico-scientifici propri del sapere comune.

In tale ottica il giudice, quindi, compie una verifica incrociata dei giudizi di attendibilità di tutti i mezzi di prova e delle relative inferenze, fissa il factum probans complessivo e lo confronta con il thema probandum, per giungere quindi alla enunciazione finale dei fatti principali in termini di esistenza o inesistenza[44].

Il momento valutativo, ovviamente, si conclude con un esito e, sarà compito dell’organo giudicante, alla luce del risultato ottenuto, affermare o negare la sussistenza del fatto: nel caso in cui, al termine del primo stadio, il giudice abbia considerato attendibile l ‘elemento di prova, si passa al secondo stadio; qualora, invece, la valutazione del giudice, circa l’idoneità probatoria, risulti negativa, l’elemento probatorio non sarà oggetto del secondo step.

La fase decisionale: oltre ogni ragionevole dubbio

Esaurita la fase di valutazione delle prove, il giudice procede alla deliberazione della decisione che si sostanzia in una sentenza di assoluzione o di condanna, salvo che, ai sensi dell’art.529 c.p.p., non debba emanare una sentenza di non doversi procedere.

E’ il Pubblico Ministero, nel processo penale[45], ad avere l’onere di provare la reità dell’imputato in modo da eliminare ogni ragionevole dubbio. La regola è significativa: il dubbio rileva esclusivamente in relazione alla colpevolezza e non anche in merito all’innocenza[46]. Detto in altri termini, vige una presunzione di innocenza tale per cui se vi è dubbio circa la colpevolezza dell’imputato, questo necessariamente dovrà essere assolto; ma se vi è dubbio circa la sua innocenza, dovrà ugualmente essere assolto, non potendo essere condannato sulla base di un sospetto (“in dubio pro reo).

Prima di addentrarci nel vivo della tematica, però, proviamo ad interrogarci sul significato della locuzione “ragionevole dubbio”.

Molto spesso, nei film e nelle serie tv americane ci è capitato di sentire il giudice chiedere alla giuria: “avete raggiunto un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio?”. Al riguardo, mi sembra opportuno fare alcune considerazioni circa la diversa natura del processo penale italiano rispetto a quelli dei paesi del cosiddetto common law (attualmente in vigore in Regno Unito, Stati Uniti d’America, Australia, Canada e Hong Kong). Tra le numerose differenze esistenti tra gli ordinamenti penali del common law rispetto a quelli cosiddetti di civil law (di derivazione romanistica) vi è la circostanza che i primi si basano, in gran misura, sui precedenti giudiziari pronunciati relativamente a casi analoghi, più che su leggi e normative adottate dalle autorità politiche.

Nel sistema penale del common law le decisioni giudiziarie adottate in precedenza per la risoluzione di casi assimilabili creano, come si dice, un precedente vincolante per i successivi giudizi. Il giudice, in buona sostanza, nella decisione di una determinata questione giudiziaria, sarà vincolato da quanto deciso, in precedenza, per i casi analoghi.

Nel nostro sistema processuale,  invece,  appartenente al sistema del civil law,  i precedenti giudiziari non sono vincolanti. Anche le decisioni della nostra massima autorità giurisdizionale, la Corte di cassazione, non costituiscono un precedente vincolante quanto, piuttosto, un’autorevole e pregevole decisione dalla quale, comunque, il giudice può anche discostarsi se non ne condivide i presupposti e le conclusioni.

Fatta questa breve premessa, possiamo dire che il principio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, costituisce, in un certo senso, un limite al principio del cosiddetto  ”libero convincimento del giudice” e deriva direttamente dal sistema processuale statunitense.

Nel processo penale statunitense, infatti, i reati vengono giudicati da una Giuria popolare composta da 12 membri, costituiti da privati cittadini, mentre un singolo Giudice di professione si limita a decidere in merito alle prove da assumere ed a dirigere il dibattimento regolando l’esame dei testimoni (cross-examination) e decidendo in merito all’ accoglimento (sustained) o al rigetto (overruled) delle opposizioni (objection) formulate dagli Avvocati della difesa e dell’ Accusa in merito alla legittimità delle domande proposte ai testimoni nel processo. Al termine del dibattimento, la Giuria popolare si ritira in camera di consiglio al fine di tentare di raggiungere un verdetto che potrà essere di innocenza (not guilty) o di colpevolezza (guilty). E’ importante rilevare che, negli Stati Uniti di America, sia il verdetto di innocenza che il verdetto di colpevolezza devono essere raggiunti all’unanimità di tutti i componenti della giuria. Ne consegue che qualora il verdetto raggiunto sia di colpevolezza, ciò significa che tutti i 12 componenti della Giuria popolare statunitense, hanno ritenuto l’imputato colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. Nei casi in cui non sia possibile raggiungere, all’ unanimità, e ciòè anche in base al parere contrario di un singolo giudice popolare, un verdetto di innocenza o di colpevolezza, la Giuria dovrà dichiarare di non essere riuscita a raggiungere un verdetto unanime, con la conseguenza che la persona accusata potrà essere nuovamente processata per il medesimo fatto a causa dell’ annullamento del processo per mancato raggiungimento del verdetto (mistrial).

Tale  principio, dunque, mutuato dalla regola “beyond any reasonable doubt” degli ordinamenti di common law, è stato introdotto nel nostro ordinamento con la c.d. Legge Pecorella del 20 febbraio 2006 per mezzo della quale è stato modificato l’art. 533 del codice di procedura penale al fine di introdurre tale fondamentale principio anche nel nostro ordinamento processuale penale.

Nel nostro sistema il limite più evidente di applicabilità del principio del ragionevole dubbio, è costituito dal fatto che, per condannare una persona, non occorre l’ unanimità dei singoli Magistrati o Giudici popolari che compongono il Tribunale o la Corte di Assise. I Tribunali collegiali e le Corti di assise giudicano, infatti, a maggioranza e non all’ unanimità dei propri componenti, così come stabilito dall’ art. 527 c.p.p. che detta le regole per la deliberazione collegiale nei processi penali: tale norma, prevede che, “sono poste in decisione le questioni di fatto e di diritto concernenti l’imputazione”, e che “tutti i giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione”. Ciò significa che, nei procedimenti penali per i gravi reati di competenza del Tribunale in composizione collegiale, non essendo richiesta, dalla legge, per condannare una persona, l’ unanimità dei consensi dei singoli Magistrati, nel caso in cui due Magistrati, al termine della Camera di Consiglio, votino per la condanna dell’ imputato, mentre il terzo Magistrato voti per l’ assoluzione dell’ imputato, l’ imputato verrà condannato nonostante un Magistrato giudicante abbia ritenuto l’ imputato innocente. E’ quindi evidente che soltanto all’ esito dei processi celebrati negli Stati Uniti e negli altri ordinamenti di common law, ed al contrario di quanto accade nel nostro ordinamento, potrà affermarsi che un’ eventuale condanna è stata pronunciata al di là di ogni ragionevole dubbio secondo l’ opinione espressa da tutti i componenti della Giuria popolare. Infatti, negli Stati Uniti e negli altri paesi anglosassoni nei quali la Giuria popolare giudica secondo il giudizio unanime dei propri componenti, nei casi in cui anche soltanto uno dei singoli giudici popolari che compongono la Giuria si discosti dall’ opinione e dal voto espresso dagli altri componenti, il verdetto, tanto di innocenza che di colpevolezza, non potrà essere emesso. Nel nostro ordinamento, i Tribunali e le Corti di assise, non potranno invece in nessun caso dichiarare di non aver raggiunto l’ unanimità necessaria per raggiungere una decisione: ne consegue che, nel processo penale italiano, in caso di condanna, potrà soltanto affermarsi che un imputato è stato condannato “al di là di ogni ragionevole dubbio” secondo il parere espresso dalla maggioranza, e non dall’unanimità dei singoli giudici che compongono il Tribunale o la Corte di Assise.

Pertanto, gli articoli di riferimento contenuti nel codice di procedura penale, sono: l’art.530[47] e l’art.533[48].

L’art. 530 c.p.p. è diretto ad individuare le ipotesi di proscioglimento nel merito, in particolare, il primo comma prevede una serie di formule assolutorie, mentre il secondo e il terzo comma sono espressione della presunzione di innocenza volti a determinare l’assoluzione qualora vi sia un ragionevole dubbio, un’insufficienza, una contraddittorietà o un’incertezza probatoria.

E’ proprio in tale scenario che occorre valutare la rilevanza della regola di decisione in questione con riferimento alla prova (neuro)scientifica; sebbene attraverso una corretta esplicazione delle varie fasi probatorie sia possibile acquisire nel processo principi e metodologie affidabili e di sicuro ausilio per il giudice ai fini della decisione finale, il solo fatto di ricorrere a questi saperi extra giuridici non deve esonerare da una particolare attenzione, sulla base di una loro presunta superiorità cognitiva. Invero, la prova scientifica deve essere considerata in sede decisionale come qualsiasi altro mezzo di prova e, pertanto, dovrà sottostare alle regole ex artt. 530 e 533 c.p.p.[49]

L’art.533 c.p.p., invece, è diretto a considerare l’eventualità di una condanna dell’imputato e costituisce oggi la traduzione normativa espressa del principio costituzionale della presunzione di innocenza (art. 27, comma 2, Cost.) in forza del quale l’imputato è presunto innocente.

La disposizione codicistica parla di “ragionevole dubbio”, non richiede, pertanto, che la colpevolezza sia provata “al di là di ogni dubbio”. La ragionevolezza rappresenta un elemento determinante: infatti ,se il legislatore avesse omesso tale caratteristica, l’accusa sarebbe stata caricata di un grosso peso in quanto avrebbe dovuto dimostrare con assoluta certezza l’infondatezza di qualsiasi ricostruzione del fatto alternativa.

La Corte di Cassazione[50], pronunciatasi al riguardo, ha precisato che l’ipotesi di condanna di cui all’art. 533 c.p.p. va a concretizzarsi nel momento in cui non sussistono dubbi interni (quelli che riguardano la contraddittorietà o l’insufficienza esplicativa dell’ipotesi dell’accusa) ed esterni alla ricostruzione dell’accusa (quelli in grado di prospettare un’ipotesi alternativa rispetto a quella dell’accusa che non sia solo possibile dal punto di vista logico, ma anche razionale e plausibile).

La revisione scientifica

L’incontro tra le regole del procedimento penale e le neuroscienze, oltre a rendere più agevole la risoluzione di una controversia, può essere rilevante anche per la sua riapertura.

Come ben sappiamo, il giudicato determina la non modificabilità di un eventuale accertamento del fatto; nonostante ciò, il nostro sistema prevede la possibilità di far venir meno gli effetti del giudicato attraverso tre tipologie di impugnazioni straordinarie[51], tra cui si evidenzia la revisione che rappresenta il mezzo di impugnazione in relazione al quale le neuroscienze producono effetti più rilevanti, anche in ragione della particolare importanza che la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo assegna alle nuove prove neuroscientifiche. L’istituto si connota di particolarità proprie in quanto strutturato per il controllo della giustizia e della legalità di provvedimenti giurisdizionali già divenuti irrevocabili (art.629 c.p.p.). La revisione tende, per definizione, ad una reformatio in melius della sentenza di condanna, qualificandosi come situazione che legittima l’aspettativa ad ottenere una sentenza di proscioglimento[52]. E’ previsto, però, che il meccanismo della revisione si attivi pure in vista della reformatio in peius della sentenza irrevocabile[53].

I casi di revisione sono collegati a situazioni ben definite dal punto di vista legislativo[54]: l’articolo 630 comma 1, c.p.p. che, appunto, disciplina i casi di revisione, alla lettera c prevede la possibilità di richiederla “se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631”, ovvero sono idonee a far sorgere un ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza del condannato.

In riferimento a tale punto, la problematicità fa riferimento all’ipotesi in cui la consulenza tecnico-scientifica riguardi elementi già valutati nel processo concluso; dopo una serie di iniziali controversie, si è giunti al punto in cui, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, possono essere sperimentati nuovi metodi che, applicati alle risultanze del processo, potrebbero produrre esiti diversi[55]. A tale orientamento si sono adeguati anche le corti di altri ordinamenti, tra cui la Commission de Revision presso la Chambre Criminelle della Suprema Corte francese e il Tribunal Supremo del Regno di Spagna.

Ai fini quindi dell’efficace incidenza della prova scientifica nel giudizio di revisione, il giudice deve compiere un’attività che si snoda in cinque momenti: l’apprezzamento della novità del metodo introdotto; la valutazione della sua scientificità, alla stregua delle pregresse conoscenze, nel processo già celebrato; il giudizio di concreta novità dei risultati ottenuti grazie al nuovo metodo; la loro valutazione nel contesto delle prove già raccolte nel precedente giudizio allo scopo di stabilire se essi sono idonei a determinare una decisione diversa rispetto a quella di condanna già intervenuta[56].

Rilievi critici

Le neuroscienze, dunque, sono come un grande fiume carsico emerso all’improvviso e che tumultuosamente ed invasivamente sta occupando la scena della ricerca scientifica nelle più disparate discipline tra cui, come abbiamo visto, anche il processo penale[57]. Sebbene sia ipotizzabile il coinvolgimento di esperti neuroscienziati sin dagli esordi del procedimento, è in sede dibattimentale, come abbiamo appurato, che emergono gli aspetti più attuali e problematici di questa nuova prova scientifica. Ecco perchè, nei paragrafi precedenti abbiamo provato a slegare i nodi creati dall’impiego in sede processuale di questa nuova realtà, che, in quanto per molti profili ancora incerta e non nettamente definita e definibile, rischia di collidere con alcune delle garanzie imprescindibili previste dal nostro ordinamento e degli istituti disciplinati nel Codice di procedura penale. Sappiamo per certo che le garanzie che devono essere assicurate affinché possa parlarsi di giusto processo, riguardano il diritto di difesa ed il riconoscimento della sua inviolabilità in ogni stato e grado del procedimento, la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla prova e alla controprova, la formazione della prova nel dibattimento nel contraddittorio delle parti, le modalità di assunzione, la tipicità e tassatività, le sanzioni, i diritti dell’accusato, la condanna soltanto in caso di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

Quando analizziamo l’impatto e i contributi della scienza nel processo penale, dobbiamo tuttavia guardare anche l’altra faccia della medaglia; attraverso la prova scientifica si compiono attività che possono incidere la sfera giuridica della persona e ledere diritti fondamentali, infatti, bisogna tener presente che gli strumenti in questione hanno ad oggetto il cervello della persona e, dunque, il corpo umano.

Sorge quindi una contrasto tra l’impiego di nuovi strumenti tecnologici e la tutela dei diritti fondamentali, spingendoci a riflettere sui limiti del progresso scientifico e sulle regole di utilizzo delle tecnologie, al fine di rispettare quei beni giuridici riconosciuti in capo alla persona, quale la salute, la libertà fisica e la libertà morale che trovano esplicito riconoscimento negli artt. 2- 13- 32 Cost.

 

 

 


[1] SAMMICHELI L. – SARTORI G., Neuroscienze giuridiche, cit., p.17.
[2] C.BRUSCO, Il vizio di motivazione nella valutazione della prova scientifica, in Diritto penale e processo, 2007, p.38
[3] Ibidem, cit., p.45
[4] DAMASKA, Il diritto delle prove alla deriva, ed. it., Bologna, 2003, p. 182 s. che lo definisce tale pur evidenziandone la progressiva erosione nel XX secolo, tanto che la sua importanza si è ridotta e la sua attuale funzione “sembra più ornamentale che funzionale in molti contesti processuali”.
[5] DOMINIONI O., La prova penale scientifica: gli strumenti tecnico-scientifici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè Editore, Milano, 2005, p. 116.
[6] TARUFFO M., Le prove scientifiche nella recente esperienza statunitense, Riv. trim. dir. proc. civ., 1996, p.233
[7] “Sufficientemente affermato per aver ottenuto un’accettazione generale nel particolare settore di appartenenza …”
[8]  Rule 401. Definition of “Relevant Evidence”.- “Relevant Evidence” means evidence having any tendency to make the existence of any fact that is of consequence to the determination of the action more probable or less probable than it would be without the evidence.
[9] Rule 402. Relevant Evidence Generally Admissible; Irrelevant Evidence Inadmissible. – All relevant evidence is admissible, except ad otherwise provided by the Constitution of the United States, by the Act og Congress, by these rules, or by other rules prescribed by the Supreme Court pursuant to statutory authority. Evidence which is not relevant is not admissible.
[10] Rule 702. Testimony by Expert. – If scientific, technical, or other specialized knowledge will assist the trier of fact to understand the evience or to determine a fact in issue, a witness qualified as an expert by knowledge, skill, experience, training, or education, may testify thereto in the form of an opinion or otherwise, if the testimony is based upon sufficient facts or data, the testimony is the product of reliable principles and methods, and the witness has applied the principles and methods reliably to the facts of the case.
Questa previsione è stata inizialmente interpretata dalle Corti federali con grande generosità, rendendo possibile l’introduzione nel processo di ogni prova presentata come “scientifica”.
[11] Rule 703. Bases of an Expert. – An expert may base an opinion on facts or data in the case that the expert has been made aware of or personally observed. If experts in the particular field would reasonably rely on those kinds of facts or data in forming an opinion on the subject, they need not be admissible for the opinion to be admitted. But if the facts or data would otherwise be inadmissible, the proponent of the opinion may disclose them to the jury only if their probative value in helping the jury evaluate the opinion substantially outweighs their prejudicial effect.
Si è affermato in dottrina che il requisito del “ragionevole affidamento”ricorre quando la parte che chiede l’ammissione della prova riesce a convincere la Corte “che gli elementi sono analoghi a quelli su cui gli esperti del settore fanno normalmente affidamento e che sono sufficientemente fidati tanto da far risultare ragionevole tale affidamento.
[12] STERLOCCHI C., Gli standards di ammissibilità della prova penale scientifica nel processo statunitense, in Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, CONTI C., (a cura di), Giuffrè Editore, Milano, 2011, p. 400.
[13] LORUSSO S., La prova scientifica, cit., p. 16.
[14] Nella relazione al progetto preliminare del 1978, 162, si legge che non è concepibile che all’organo giudicante sia consentito di avvalersi di mezzi di prova atipici o innominati: in ordine ad essi la difesa non potrebbe esprimersi con tutta l’incisività e la pienezza richiesta dalle norme costituzionali.
[15] G. Tabasco, Prove non disciplinate dalla legge nel processo penale, cit., p.52
[16] Ibidem, cit., p.55
[17] Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, in Gazz. Uff., 24 ottobre 1988 n.250, suppl. ord. n.2, p.60
[18] V.BOZIO, La prova atipica, in Trattato sulla prova penale, Giappichelli, 2013
[19] In realtà, l’attuale  codice di procedura penale non fornisce alcuna definizione neanche del concetto di prova in generale. Secondo Autorevole dottrina è prova:”..quell’insieme di elementi aventi la funzione di consentire l’accertamento della verità o meno di uno degli enunciati fattuali integranti il thema probandum”, così G. Ubertis, Prova ( in generale), in Dig. disc. pen., X, Utet, 1995, p.300. Volendo sintetizzare la tripartizione in cui viene ordinariamente scomposto il termine “prova” si può distinguere in: “elemento di prova” da intendersi il dato che, introdotto nel procedimento, può essere utilizzato dal giudice per la decisione; “fonte di prova” intesa come il soggetto ( testimone) o l’oggetto ( documento) da cui può trarsi un elemento di prova e “ mezzo di prova” ovvero l’attività attraverso la quale viene introdotto l’elemento di prova nel procedimento.
[20] TONINI P., Il diritto delle prove penali, 2014, Milano, Giuffrè Editore, p.199
[21] C. MARINELLI, Intercettazioni processuali e nuovi mezzi di ricerca della prova, cit., p. 109. parla in questo caso di “atipicità acquisitiva”.
[22] Ad esempio il riconoscimento in udienza dell’imputato da parte del testimone, riconoscimento che avviene senza appunto osservare le modalità della ricognizione. La giurisprudenza è peraltro unanime nel ricondurre tale ipotesi al caso di un atto di identificazione diretta che non richiede le formalità della ricognizione ex art. 213 c.p.p. perché parte integrante della dichiarazione testimoniale e come tale del tutto ammissibile.
[23] MARTUCCI P., Neuroscienze e processo penale, cit., p. 27.
[24] I mezzi di prova tipici, cioè regolamentati dalla legge nelle loro modalità di assunzione, previsti nel codice sono: la testimonianza, l’ esame delle parti, il confronto, la ricognizione, l’esperimento giudiziale, la perizia, la prova documentale; mentre i mezzi di ricerca della prova tipici sono: l’ispezione, la perquisizione, il sequestro, l’intercettazione.
[25] Corte cost., 4 dicembre 2009, n.320, in Giur. cost., 2009, p.4822; Cass., sez. VI, 10 novembre 2011, in C.E.D. Cass., n.251563; Cass., sez. un. 28 marzo 2006, in Dir. pen. proc. , 2006, p.1347
[26] G. CONSO – V. GREVI- G. NEPPI MODONA, Il nuovo codice di procedura penale dalle leggi delega ai decreti delegati, il progetto preliminare del 1988, cit., p.553.
[27] TONINI P., Manuale di procedura penale, Milano, 2014, p.165
[28] TONINI P., Progresso tecnologico, cit., p. 62
[29] TONINI P., La cassazione accoglie e criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza, in Diritto penale e processo, 2011, p. 1343. La Corte, per giustificare il requisito della indipendenza dell’esperto, spiega come sia diverso infatti il caso di una indagine condotta da un organismo pubblico, istituzionale, davvero indipendente, da quello in cui l’indagine è commissionata o gestita da soggetti implicati in dispute giuridiche.
[30] A. PROCACCINO, Prove atipiche, cit., p.273
[31] Ibidem, cit
[32] A. FURGIUELE, La prova per il giudizio nel processo penale, cit., p.108
[33] Cass., 11 giugno 1992, in Cass. pen., 1994, p.125.
[34] S.L ONATI, Il contraddittorio nella formazione della prova orale e i principi della CEDU: una proposta de iure condendo,
[35] Nel modello statunitense non esiste una prova del giudice; spetta alle parti ricercare le prove e chiederne l’ammissione in dibattimento; esse possono affidarsi a testimoni esperti che operano in segreto, formulano un parere e sono sottoposti ad esame incrociato in aula. Il giudice può non ammettere quel testimone, reputandolo non affidabile, ma non può procedere lui stesso alla nomina, d’ufficio o su richiesta di parte, a dimostrazione di un ruolo passivo e sottomesso all’iniziativa di parte.
[36] L’urgenza emerge quando la prova riguarda una persona, una cosa, o un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile (art. 392 comma 1, lett. f c.p.p.).
[37] TONINI P., Progresso tecnologico, cit., pp. 67-68
[38] Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 13095 del 17 marzo 2017
[39] LORUSSO S., in Prova penale e metodo scientifico, cit., pp. 36 ss.
[40] RIVELLO P., La prova scientifica, cit., p. 6
[41] A.A.DALIA, M.FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, 2018, p.818
[42] Ibidem, cit
[43] LORUSSO S., La prova scientifica, cit., p.45.
[44] Ibidem, cit.
[45] Nel processo civile invece, lo standard probatorio si riassume con la regole del “più probabile che no”; l’attore deve provare i propri fatti costitutivi del diritto in modo da convincere il giudice che la sua ricostruzione è più probabile delle altre, pur potendo mantenere qualche dubbio, TONINI P. – CONTI C., Il diritto delle prove penali, cit., p. 72
[46] DOMINIONI O., La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 352 ss
[47] Art. 530 c.p.p. – Sentenza di assoluzione: «1. Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un’altra ragione, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione indicandone la causa nel dispositivo. 2. Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile. 3. Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1. 4. Con la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi previsti dalla legge, le misure di sicurezza»
[48] Art. 533 c.p.p. – Condanna dell’imputato: «1. Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misura di sicurezza. 2. Se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione. Nei casi previsti dalla legge il giudice dichiara il condannato delinquente o contravventore abituale o professionale o per tendenza. 3. Quando il giudice ritiene di dover concedere la sospensione condizionale della pena o la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, provvede in tal senso con la sentenza di condanna. 3-bis. Quando la condanna riguarda procedimenti per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), anche se connessi ad altri reati, il giudice può disporre, nel pronunciare la sentenza, la separazione dei procedimenti anche con riferimento allo stesso condannato quando taluno dei condannati si trovi in stato di custodia cautelare e, per la scadenza dei termini e la mancanza di altri titoli, sarebbe rimesso in libertà».
[49] DOMINIONI O., La prova penale scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Giuffrè, 2005, p. 360
[50] Cass., Sez. I, 24 ottobre 2011, Javad, in C.E.D. Cass., n. 251507.
[51] Le impugnazioni straordinarie sono quegli strumenti che consentono di reagire ad una sentenza divenuta irrevocabile. Oltre la revisione, le altre tipologie di impugnazioni straordinarie garantite al condannato sono il ricorso straordinario per Cassazione (art.625 bis c.p.p.) e la rescissione del giudicato (art.625 ter c.p.p.).
[52] DALIA A.A., FERRAIOLI, Manuale di diritto processuale penale, Cedam 2018, pp.903 ss.
[53] Ciò avviene quando il procuratore generale presso la Corte d’Appello, nel cui distretto la sentenza è stata pronunciata, si accorga che le circostanze attenuanti, comuni e speciali, previste in materia di collaborazione, sono state applicate per effetto di dichiarazioni false o reticenti, oppure prenda atto che chi ha beneficiato delle predette circostanze attenuanti ha commesso, entro 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza, un delitto per il quale sia obbligatorio l’arresto in flagranza, indicativo della permanenza del soggetto nel circuito criminale.
[54] Oltre all’ipotesi su delineata, la revisione può essere richiesta: a) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale; b) se la sentenza o il decreto penale d condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’art.3 ovvero una delle questioni previste dall’art.479; c) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato.
[55] CONTI C., La prova scientifica, cit., p. 115
[56] Cass., sez. I, 8 marzo 2011, Ghiro, in Guida dir., 2011 n. 25, p. 75
[57] A.BIANCHI, G.GULOTTA, G.SARTORI, Manuale di neuroscienze forensi, p.195

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24 anni Dott.ssa in Legge Tirocinante ex art.73 Corte d'Appello (SA) Praticante Avvocato Segretaria Commissione Pari Opportunità (Baronissi-SA)

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