Processo Studium 2000: prescritto il reato di avvelenamento colposo di terreni e della falda acquifera
Depositate in data 24.10.2018 le motivazioni della sentenza n. 48548 del del 25 settembre 2018, con cui la IV Sezione della Cassazione penale ha annullato – sulla base di un percorso logico-giuridico intriso di richiami alla nota vicenda Eternit, nonché fondato sulle differenze tra la fattispecie di avvelenamento delle acque e quella di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. – la condanna emessa dalla Corte d’Appello di Lecce nei confronti di un imprenditore del settore idrocarburi, dichiarando l’estinzione dei reati di cui agli artt. 439 e 452 c.p. per prescrizione.
I punti centrali sui quali si è focalizzata l’attenzione del Collegio riguardano, fondamentalmente:
la contestazione circa l’effettivo avvelenamento delle acque, il momento in cui si sarebbe realizzato e la sua riconducibilità all’imputato;
la natura del reato di cui agli artt. 439 c.p. e 452 c.p., nonchè il dies a quo della prescrizione;
la ascrivibilità all’imputato dei reati di cui al D. Lvo. n. 152/2006, artt. 257 e 242, ancorchè in qualità di proprietario del suolo e non di responsabile dell’inquinamento.
In primo luogo, nella sentenza in commento, la Suprema Corte ha evidenziato come la configurabilità del reato di avvelenamento (ipotizzato, nella specie, come colposo) di acque o sostanze destinate all’alimentazione, pur qualificandosi come reato di pericolo presunto, necessiti di un avvelenamento dì per sé produttivo di pericolo – scientificamente accertato – per la salute pubblica. Tale pericolosità deve ritenersi scientificamente accertata quando possa dirsi riferita a “dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute, non essendo sufficiente il mero superamento dei limiti soglia di carattere precauzionale, che costituiscono una prudenziale indicazione sulla quantità di sostanza, presente in alimenti, che l’uomo può assumere senza rischio, quotidianamente e sul lungo periodo”. Siffatto superamento non sarebbe, a parere della Corte, sufficiente ad integrare nemmeno la fattispecie prevista dall’art. 257, D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, la quale sanziona condotte di “inquinamento” causative di un evento che costituisce un minus rispetto all’ipotesi di “avvelenamento”. Sul punto, gli ermellini hanno poi precisato che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 439 c.p., l’avvelenamento delle acque destinate all’alimentazione non debba avere necessariamente potenzialità letale, essendo sufficiente che abbia la potenzialità di nuocere alla salute.
Nell’operare un confronto tra la fattispecie di cui all’art. 439 c.p. e quella di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., la Suprema Corte ha evidenziato dapprima come la differenza tra le due fattispecie delittuose risieda nel fatto che, nel caso dell’art. 439 c.p., il reato si configura nel momento in cui si realizza l’avvelenamento delle acque, mentre nel disastro innominato, di cui all’art. 434 c.p., se l’evento-disastro si è realizzato sussiste l’ipotesi aggravata di cui al secondo comma, ma se il disastro non si è verificato il reato si configura comunque (nella forma semplice di cui al primo comma) per la sola sussistenza di un concreto pericolo di disastro. Gli ermellini hanno poi ricordato come la natura del reato di avvelenamento di acque, ex art. 439 c.p., sia quella di reato “istantaneo ad effetti permanenti che si realizza nel momento in cui le condotte inquinanti, per la qualità e la quantità della polluzione, divengono pericolose per la salute pubblica, non avendosi, in tal genere di reati, il protrarsi dell’offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, in quanto ciò che perdura nel tempo sono le sole conseguenze dannose del reato”. Questo diversamente da quanto avviene in altri reati, quale, per l’appunto, quello di disastro innominato di cui all’art. 434, co. 2, c.p.
Orbene, secondo la definizione più comune, il reato è consumato allorchè la fattispecie è compiutamente realizzata e si ha così piena corrispondenza tra modello legale e fatto concreto. Autorevole dottrina e una parte considerevole della giurisprudenza distinguono, però, perfezione e consumazione, osservando che la realizzazione di tutti gli elementi della fattispecie, nel loro contenuto “minimo”, coincide con la perfezione del reato, ma non sempre e non necessariamente ne esaurisce la consumazione, da intendere quale momento in cui si chiude l’iter criminis e il reato perfetto raggiunge la massima gravità concreta riferibile alla fattispecie astratta. Ne deriva, pertanto, che esaurimento della consumazione non significa fine di tutti gli effetti dannosi collegati o collegabili alla realizzazione della fattispecie, in quanto o tali effetti dannosi coincidono con l’evento, ed allora l’esaurimento coincide con la consumazione oppure si tratta di effetti ulteriori, ed allora questi possono essere presi in considerazione ai fini della gravità del reato o del danno risarcibile, ma non incidono sul momento consumativo del reato.
Ciò posto, la Suprema Corte ha affermato come “ai fini del decorso del termine della prescrizione, nei reati a consumazione protratta per definizione normativa – quali sono i reati permanenti in cui la fattispecie è caratterizzata dal fatto che la durata dell’offesa è espressa da una contestuale duratura condotta colpevole dell’agente o i reati necessariamente abituali – la differenza tra perfezione e consumazione possa assumere rilievo, non esplicando, invero, alcuna funzione ai fini della individuazione del momento consumativo, e quindi anche del dies a quo della prescrizione, in riferimento agli effetti prolungati o permanenti dei reati istantanei o a condotta comunque esaurita”. Ciò, appunto, perchè nei reati istantanei ad effetti permanenti non si ha il protrarsi dell’offesa dovuta alla persistente condotta del soggetto agente, ma ciò che perdura nel tempo sono le sole conseguenze dannose del reato.
Numerosi, sul punto, i richiami dagli ermellini alla nota sentenza Eternit – Cass. Pen., Sez. I, n. 7941/2014 – in cui, a fronte di un reato aggravato dall’evento (disastro doloso ex art. 434 c.p. aggravato ai sensi del secondo comma dal fatto che il disastro era avvenuto), fu sancito che la prescrizione decorresse dalla consumazione del reato che si ha quando la causa imputabile ha prodotto interamente l’evento che forma oggetto della norma incriminatrice e si affermò che non potesse annettersi rilevo alla circostanza della mancata o incompleta bonifica dei siti, in quanto attribuirne la penale responsabilità all’imputato a titolo di protrazione della condotta costitutiva del disastro avrebbe postulato che si potesse ricostruire la fattispecie in termini bifasici: una prima commissiva e una seconda omissiva, violativa dell’obbligo di far cessare la situazione antigiuridica prodotta. Da qui l’impossibilità di porre a carico di un medesimo soggetto, in via generale, la responsabilità per un reato costruito nella forma di reato commissivo e poi addebitargli anche l’omessa rimozione delle conseguenze di quel reato.
Su tali premesse, la Suprema Corte ha dichiarato l’estinzione dei reati di cui agli artt. 439 e 452 c.p. per intervenuta prescrizione.
Passando, da ultimo, ad analizzare la questione relativa alla ascrivibilità all’imputato dei reati di cui al D. Lvo. n. 152/2006, artt. 257 e 242, in qualità di proprietario del suolo e non di responsabile dell’inquinamento, la Suprema Corte ha colto l’occasione per ricordare come l’art. 257 D. Lvo. n. 152/2006 richiami genericamente l’art. 242(il riferimento deve ritenersi effettuato alla comunicazione di cui al primo comma di tale ultima disposizione e non anche agli altri obblighi di informazione previsti dagli altri commi, dal momento che lo scopo evidente della disposizione penale è quello di sanzionare l’omessa preliminare informazione dell’evento potenzialmente inquinante ai soggetti individuati dalla legge, affinché prendano cognizione della situazione e possano verificare lo sviluppo delle attività ripristinatorie), risultando del tutto incongruo il ricorso alla sanzione penale con rifermento alla violazione degli ulteriori obblighi, quando gli organi competenti siano già informati dell’inquinamento, se posti in condizione di attivarsi. Il riferimento al primo comma dell’art. 242 porterebbe a concludere, secondo la Suprema Corte, che gli obblighi di comunicazionesorgano per il solo fatto che si sia verificata una situazione di potenziale pericolo, prescindendo, quindi, dall’eventuale superamento delle soglie di contaminazion
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Ha conseguito la laurea magistrale in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi “Aldo Moro”di Bari, con votazione di 110/110 e lode e plauso della commissione.
Al termine del percorso universitario ha svolto positivamente, per un periodo di diciotto mesi, il tirocinio formativo ex art. 73 D.Lvo. n. 69/2013 presso gli uffici giudiziari della Procura della Repubblica – Tribunale di Taranto – sezione G.I.P / G.U.P..
Ha conseguito, presso la Universidad de León, il Bachelor’s Degree in International Law and Legal Studies, nonché il Master Universitario en el Ejercicio de la Abogacìa di II livello presso la Universidad Internacional de La Rioja.
Ha frequentato il corso frontale di alta formazione giuridica “LexFor” per la preparazione al concorso di uditore giudiziario (Cons. Caringella – Garofoli – Fratini).
Ha svolto la pratica forense occupandosi principalmente di diritto penale, superando l’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato nell’ottobre del 2017 presso la Corte d’Appello di Lecce.
Ha maturato una specifica esperienza in materia di reati contro la persona, colpa professionale, delitti contro la pubblica amministrazione, reati ambientali (processo "Ambiente svenduto", altrimenti noto come "caso Ilva") e nel settore della responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (D.Lgs. 231/2001).
È iscritta all’Albo degli Avvocati di Milano da febbraio 2018.
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