Proposta irrevocabile, opzione, preliminare “aperto”, preliminare “chiuso” e patto di prelazione

Proposta irrevocabile, opzione, preliminare “aperto”, preliminare “chiuso” e patto di prelazione

Proposta irrevocabile, opzione, preliminare “aperto”, preliminare “chiuso” e patto di prelazione, con particolare attenzione sugli strumenti di tutela in caso di violazione del vincolo

La proposta irrevocabile, l’opzione, il patto di prelazione ed il contratto preliminare sono meccanismi che possono inserirsi nel procedimento di formazione del contratto o che possono comunque produrre effetti nell’ambito dello svolgimento del rapporto contrattuale, alla luce di ciò bisogna soffermarsi sulle differenze che presentano gli istituti e le forme di tutela che l’ordinamento offre in presenza di eventuali violazioni.

La proposta irrevocabile, compiutamente disciplinata dall’art. 1329 c.c., è la dichiarazione – completa, dotata di attitudine vincolativa e direttamente indirizzata al futuro accettante – caratterizzata dal fatto che il proponente “si obbliga per un certo tempo” a mantenerla ferma. La proposta irrevocabile, quindi è la proposta che contiene la clausola di irrevocabilità che è un elemento accessorio della proposta che, tuttavia, quando è inserito in una proposta contrattuale necessita di un elemento essenziale, il termine di irrevocabilità, cioè il termine scaduto il quale la proposta torna ad assumere quel carattere di caducità che le è proprio, sancito dall’art. 1326 co. 2 c.c. Ciò premesso, dato il carattere essenziale del termine di irrevocabilità, si pone il problema di capire cosa accada alla proposta che manchi di tale elemento. Sul punto, la dottrina ha evidenziato la possibilità di qualificare la proposta definita “irrevocabile” dal proponente, ma sprovvista del termine di irrevocabilità, quale proposta semplice. Invero, si afferma, se il proponente aveva intenzione di legarsi ad una proposta irrevocabile, a maggior ragione vorrà essere vincolato ad una proposta semplice che lascia certamente maggiore spazio alla sua autonomia negoziale. Nel caso in esame, quindi, troverà applicazione l’art. 1419 c.c. in tema di nullità parziale, anche se parte della dottrina non esclude la possibilità di procedere alla conversione del contratto nullo sancita dall’art. 1424 c.c.

Il secondo comma dell’art. 1329 prevede che la proposta non perda il carattere di irrevocabilità anche a seguito di morte o sopravvenuta incapacità del proponente, salvo “che la natura dell’affare o altre circostanze escludano tale efficacia” come nel il caso di proposta fatta intuitu personae. Analizzando tale norma, parte della dottrina ha attribuito natura negoziale alla proposta irrevocabile. Si nota, infatti, che la sopravvivenza della proposta irrevocabile ad alcune vicende sopravvenute (morte, perdita della capacità del proponente) siano l’esemplificazione di un distacco tra la persona del proponente e la sua volontà, indice di una sorta di oggettivizzazione di una volontà già formata, come accadrebbe nei casi di contratto già concluso nel quale non è necessario che la volontà delle parti perduri durante tutta la sua esecuzione, essendo invece necessario che questa sussista nel momento di formazione dell’accordo. Altra parte della dottrina attribuisce, viceversa, una natura prenegoziale alla proposta irrevocabile poiché, si evidenzia, la volontà è “ancora in movimento”, e non può dirsi oggettivizzata, in quanto ancora “legata” alla parte proponente.  Il 1329 c.c. afferma apertis verbis che quando la proposta è irrevocabile, una successiva sua revoca è senza effetto. Da quanto premesso discende che, l’eventuale revoca della proposta irrevocabile comporti una tutela reale nel senso che il proponente continuerà ad essere legato alla sua proposta e la revoca si reputerà tamquam non esset. In altri termini, in caso di revoca della proposta irrevocabile non si potrebbe addivenire al diverso rimedio obbligatorio in base al quale il proponente-revocante sarebbe tenuto a risarcire il danno, cagionato dalla revoca della proposta, alla controparte che vi aveva fatto affidamento.

La proposta irrevocabile non deve essere sovrapposta all’opzione. L’opzione è disciplinata dall’art. 1331 c.c. il quale stabilisce che le parti possono “convenire” che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione. Da ciò si evince chiaramente che l’opzione è un vero e proprio contratto che, solo quanto agli effetti, presenta similitudini con la proposta irrevocabile. Infatti, è lo stesso art. 1331 c.c. a richiamare l’applicazione del 1329, ma dalla natura contrattuale dell’opzione discendono importanti differenze rispetto alla proposta irrevocabile, qualificabile pacificamente come atto unilaterale.

Invero, il contratto di opzione, che tra l’altro presenta spesso la richiesta di corresponsione di un corrispettivo, può essere ceduto, può essere stipulato per persona da nominare o a favore di terzo. Inoltre, se le parti non hanno previsto un termine per l’accettazione, questo può essere fissato dal giudice. Le differenze tra opzione e proposta irrevocabile sinteticamente evidenziate sono state tuttavia messe in discussione da quella parte della dottrina che ha negato la possibilità di distinguere la proposta irrevocabile dall’opzione gratuita. Sul tema, si afferma che l’opzione gratuita sarebbe un contratto concluso con le modalità di cui all’art. 1333 c.c. perché, effettivamente, porrebbe obbligazioni solo a carico del proponente. È evidente quindi che, in siffatti casi, distinguere una proposta irrevocabile da una proposta finalizzata a concludere un contratto di opzione gratuita, sarebbe pressoché impossibile, posto che entrambi i contratti si concluderebbero con il mero silenzio dell’accettante, o meglio con il suo mancato rifiuto. Altra parte della dottrina, tuttavia, ponendosi il problema di distinguere le due fattispecie, ha affermato che l’opzione gratuita, se considerata nell’ambito di rapporti negoziali più ampi, può assumere una propria autonomia rispetto alla proposta irrevocabile. In particolare, si evidenzia che spesso il contratto di opzione sia inserito in contratti onerosi nell’interesse di entrambi i contraenti, come ad esempio accade nell’ambito dei contratti di leasing a titolo oneroso ma che prevedono la possibilità di esercitare l’opzione che è invece gratuita.

Viceversa, distinguere l’opzione gratuita, avulsa da un più ampio spettro di rapporti negoziali, dalla proposta irrevocabile si profilerebbe quantomai complesso, se non impossibile. L’opzione, si è detto, è un contratto. Da ciò discende, stando all’opinione maggioritaria, oltre alla generale applicabilità delle regole sancite sul tema, la previsione di una responsabilità contrattuale da inadempimento che può manifestarsi quando, ad esempio, il concedente alieni il bene oggetto dell’opzione. Sul punto, si è registrato un indirizzo contrario al riconoscimento della natura contrattuale a questo tipo di responsabilità che viene qualificata da alcuni come precontrattuale alla luce del fatto che il contratto di opzione porrebbe in carico al concedente una serie di obblighi di correttezza consistenti nell’evitare che il bene oggetto dell’opzione possa subire un pregiudizio o venga alienato, in vista di un futuro contratto che, al momento della pattuizione dell’opzione, non è ancora concluso. Ci si chiede se la responsabilità da inadempimento del contratto di opzione dia luogo al solo rimedio risarcitorio ovvero ad una tutela reale a favore dell’opzionato in base alla quale lo stesso potrebbe opporre l’opzione al terzo acquirente del bene oggetto del contratto di opzione. La tesi oggi dominante si fonda sul principio di tassatività dei casi di trascrizione ex art. 2643 c.c. ed afferma che nel caso sopra prospettato l’unico rimedio prevedibile a favore dell’opzionato sia il risarcimento del danno e non anche la possibilità di recuperare il bene dal terzo acquirente. Invero, il contratto di opzione non è trascrivibile poiché non è compreso nell’elenco tassativo di cui all’art. 2643 c.c. In altri termini, laddove il bene oggetto di opzione, ad esempio un immobile, sia trasferito ad altro soggetto e costui trascriva il suo acquisto, non è possibile ipotizzare che l’opzionato possa chiedere al terzo il bene in forza di un contratto di opzione (non trascrivile) concluso prima dell’alienazione del bene, come avverrebbe invece nei casi di contratto preliminare.

Se l’opzione, nonostante la sua natura contrattuale, presenta alcuni profili quantomeno di affinità con la proposta irrevocabile, l’istituto de quo deve essere certamente distinto dal patto di prelazione. In particolare, la prelazione è un diritto che comporta che il soggetto che ne è titolare sia preferito ad altri, a parità di condizioni, nel momento in cui venga posto in essere un negozio giuridico. Nello specifico, la prelazione può essere convenzionale, quando sorge per volontà del soggetto definito “concedente”, ovvero legale quando è attribuita ex lege. Sono esempi di prelazione legale il diritto dello Stato nei confronti del soggetto-alienante di beni di interesse artistico, storico etc., il diritto del coltivatore diretto del fondo in caso di vendita dello stesso e quello del coerede nella divisione ereditaria. Ciò premesso, occorre notare che la legge non accorda, in via generale, uno strumento di tutela reale nel caso di violazione della prelazione. Il diritto ad essere preferito è violato ogniqualvolta il titolare del bene oggetto di prelazione alieni lo stesso a terzi soggetti senza prima sottoporre la propria offerta al titolare del diritto di prelazione ed attendere la sua risposta. È evidente quindi che il diritto di prelazione ponga due obblighi per il titolare del bene: un obbligo negativo di “non alienare” a terzi il bene oggetto della prelazione prima di averlo offerto al titolare del diritto ed uno positivo di “denuntiatio”, cioè di manifestazione allo stesso della propria volontà di alienare il bene a determinate condizioni. I rimedi previsti in caso di violazione di questi obblighi sono, generalmente, di natura obbligatoria: l’alienante sarà tenuto a risarcire il danno al titolare del diritto di prelazione e l’ammontare del danno riconosciuto sarà tanto più elevato, quanto maggiore sarà la prova fornita dal titolare del diritto sul fatto che lo stesso avrebbe concluso il contratto avente ad oggetto il bene alle condizioni proposte dall’alienante. Ci sono tuttavia dei casi, come ad esempio quello previsto dall’art. 732 c.c. in tema di retratto successorio, in cui la tutela fornita al soggetto titolare del diritto di prelazione pretermesso è di natura reale e consente quindi il recupero del bene alienato al terzo, anche se in buona fede.

I casi di tutela reale, che impattano quindi con la tutela degli interessi dei terzi in buona fede, sono evidentemente solo quelli discendenti ex lege che, a ben vedere, coincidono con i casi di prelazione legale. Un caso particolare su cui si è posta l’attenzione della dottrina riguarda la possibilità di “elusione” della prelazione. Si tratta, ad esempio, dei casi in cui il titolare del bene oggetto di prelazione offre il bene al titolare del diritto, preferendolo quindi agli altri, ma nel frattempo venda il bene ad un terzo. Un esempio di quanto premesso, riguarda i casi di c.d. “doppia vendita immobiliare” in cui, mentre il titolare della prelazione deve determinarsi sull’accettare o meno le condizioni del proponente, quest’ultimo vende il bene ad un terzo che iscrive il contratto con cui ha ottenuto la proprietà di quel bene. In questi casi, emerge chiaramente che il venditore abbia aggirato la prelazione e ci si chiede, pertanto, quale sia il rimedio concesso al titolare del diritto di prelazione. Secondo una prima impostazione, il titolare della prelazione potrebbe solamente chiedere il risarcimento del danno commisurato alla perdita del bene, dimostrando che lo avrebbe acquistato. Su altro fronte, si registrano le opinioni di coloro che, argomentando che in tal modo si aggirerebbe facilmente la disciplina della prelazione, ammettono che il pretermesso possa agire nei confronti del terzo acquirente del bene, per riottenerlo. Il diritto di prelazione, che non è un contratto ma che può essere inserito in un contratto, è però assimilabile all’opzione avendo riguardo del fatto che anche la prelazione non pone in capo al titolare del bene un obbligo di contrarre.

Sulla scorta di tale assunto, ben si coglie la differenza tra il patto di prelazione ed il contratto preliminare. Il contratto preliminare è un negozio che consente alle parti contraenti di obbligarsi a contrarre in un successivo momento e di salvaguardare gli elementi del futuro contratto su cui costoro hanno già raggiunto l’accordo. Il codice civile riserva al contratto preliminare una disciplina scarna, ma quantomai significativa. Orbene, occorre analizzare tre norme in particolare. Innanzitutto, l’art. 1351 c.c. sancisce la nullità del contratto preliminare “se non è fatto nella stessa forma che la legge prescrive per il contratto definitivo”, stabilendo così casi in cui la forma è richiesta ad substantiam. Altra norma cardine in tema di contratto preliminare è 2645-bis c.c. sulla trascrizione dello stesso, da cui discendono i cc.dd. “effetti prenotativi” del contratto preliminare, come stabilito dal secondo comma della stessa disposizione. La norma si comprende alla luce del fatto che la trascrizione di un contratto preliminare non avrebbe una ragione logica, se considerata isolatamente, poiché con esso non si trasferisce alcunché sino a che non si addivenga alla conclusione del contratto definitivo che deve a sua volta essere trascritto. Invero, la ratio di siffatta previsione può essere descritta nei termini che seguono: la trascrizione del preliminare fa in modo che la trascrizione del successivo contratto definitivo prevalga sulle trascrizioni eseguite contro il promittente alienante nella fase intercorrente tra il contratto preliminare ed il definitivo.

È quindi una trascrizione con cui il promissario acquirente “prenota” gli effetti del futuro contratto definitivo anche se concluso dopo le trascrizioni di terzi aventi ad oggetto il bene a propria volta oggetto del preliminare. Sul punto, è bene evidenziare che i medesimi effetti discendono dalla sentenza che accoglie la domanda diretta ad ottenere l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare: in questo caso gli effetti “prenotativi” discenderanno dalla iscrizione della domanda giudiziale. Sussiste quindi un vero e proprio privilegio che sorge ex lege per il solo fatto della trascrizione del contratto/iscrizione della domanda ma che, stando alla giurisprudenza e dottrina dominanti, non prevale sulle ipoteche anteriori, in opposizione alla regola generale per cui il privilegio prevale sempre sull’ipoteca, proprio in ragione di questa sua particolarità legata alla nascita dalla mera trascrizione. L’art. 2932 c.c. riguarda il rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto. È noto, infatti, che dal contratto preliminare, sorge l’obbligo di concludere il contratto definitivo. Dalla violazione del vincolo discendente dal contratto preliminare deriva quindi la possibilità di agire per ottenere una sentenza che “produca gli stessi effetti del contratto non concluso”. In punto di rimedi applicabili emergono quindi con ogni evidenza i tratti distintivi del vincolo derivante dal contratto preliminare, rispetto al contratto di opzione rispetto al quale questo tipo di tutela non è ipotizzabile posto che il contratto di opzione non obbliga a concludere un contratto, bensì a mantenere ferma la proposta. Il contratto preliminare sinora descritto è spesso definito “chiuso” per distinguerlo dal preliminare c.d. “aperto”, noto anche come preliminare di preliminare o pre-preliminare. La dottrina e la giurisprudenza, fino a pochi anni orsono, rifiutavano l’idea che le parti potessero “obbligarsi ad obbligarsi”, cioè concludere un contratto con il quale si obbligavano a stipularne uno successivo che a sua volta li avrebbe obbligati a concludere un contratto definitivo.

Invero, ciò veniva reputato una “inutile superfetazione”, un contratto nullo perché privo di causa. Tuttavia, nel 2016, le SS.UU. sono tornate sul tema e, valorizzando la teoria della causa in concreto, hanno ammesso, seppur a certe condizioni, la validità di un contratto preliminare “aperto”, in grado di obbligare le parti a proseguire nelle trattative, cioè a contrattare. Invero, nella pronuncia in esame, il Supremo Consesso, nella sua più autorevole composizione, ha negato che il pre-preliminare sia un vero e proprio contratto ed ha affermato che con esso si ponga in capo alle parti un rafforzamento del dovere di correttezza e buona fede nella prosecuzione trattative. Sulla scorta di tali premesse, la Corte ha affermato che il dovere di correttezza, per il tramite del pre-preliminare, diviene l’oggetto di una vera e propria obbligazione. I doveri di correttezza e buona fede nelle trattative che sorgono dal preliminare “aperto” si porrebbero quindi quale “altro atto o fatto” idoneo a produrre obbligazioni in conformità con l’ordinamento giuridico, come stabilito nell’ultima parte dell’art. 1173 c.c. che notoriamente pone un principio di atipicità delle fonti dell’obbligazione. Le SS.UU. affermano, inoltre, che il pre-preliminare sia valido laddove, in concreto, presenti elementi diversi rispetto al preliminare “chiuso” e persegua uno scopo utile alle parti.

Invero, l’utilità del contratto preliminare si rinviene tutte le volte in cui le parti vogliono “bloccare” la trattativa con riferimento ad elementi del futuro contratto su cui già si è addivenuti ad un accordo e proseguire con la contrattazione rispetto ad altri elementi sui quali non c’è ancora accordo ma che sono parimenti di loro interesse e che, laddove non disciplinati, verrebbero integrati, ex art. 1374 c.c., “secondo la legge, o, in mancanza, gli usi e l’equità”. Il preliminare di preliminare assumerebbe allora una propria individualità laddove le parti pur avendo necessità di più tempo per giungere alla stipulazione del contratto definitivo, vogliono “tenere fermi” i punti su cui hanno raggiunto l’accordo senza subire l’eterointegrazione che invece si avrebbe ex lege se fossero costretti a concludere il definitivo. Se al contratto preliminare c.d. “chiuso”, cioè quello che procede il definitivo, è riconosciuta l’applicabilità del rimedio ex art. 2932 c.c., lo stesso non può però dirsi per il preliminare “aperto” al quale, infatti, la Corte non ha riconosciuto la natura di contratto. La violazione di pre-preliminare comporta la violazione di un obbligo di correttezza dal quale discenderebbe, invero, l’obbligo di risarcimento del danno consistente nella spendita di tempo per procedere alle trattative. Nel motivare il predetto assunto, la Corte afferma che la responsabilità di cui si discute sia di tipo precontrattuale. Negato quindi che il pre-preliminare sia un contratto, è invece evidente che il contratto preliminare “chiuso” sia un vero e proprio contratto. La differenza, come si è sinteticamente esposto, ben emerge in punto di rimedi applicabili in caso di mancato adempimento dell’uno o dell’altro, stante la possibilità di esperire il rimedio in forma specifica sono nel caso di preliminare “chiuso”. Sul punto merita di essere formulata una considerazione di carattere generale. Infatti, emerge che sino al pre-preliminare, cioè nella fase “precontrattuale” le parti non sono legate da un dovere di correttezza, ma dal più generico dovere di neminem laedere oggetto di responsabilità aquiliana: seppur latamente, tale asserto dimostra l’adesione, da parte della Suprema Corte, alla teoria che attribuisce alla responsabilità precontrattuale la natura di responsabilità aquiliana, tematica di vivo interesse nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale.


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