Prova della titolarità del diritto vantato
Con la sentenza n. 2951 del 2016, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno affrontato l’annosa questione della spettanza della prova della titolarità del diritto vantato ed entro quali limiti essa possa essere contestata, oltre ad avere ribadito il principio del risarcimento del danno al titolare del diritto di proprietà al momento in cui il danno fu sofferto e quello della sufficienza della scrittura privata per provare la proprietà.
Preliminarmente, occorre discernere tra la carenza di legittimazione ad agire e quella di titolarità del diritto.
Invero, la prima attiene alla possibilità di stare in giudizio a sostegno di una certa posizione, ossia alla prospettazione che la parte stessa assume in relazione alla propria condizione sostanziale, valida o meno, sia dal lato attivo, che passivo, tanto che la relativa carenza è rilevabile anche d’ufficio.
Pertanto, la questione inficia l’aspetto processuale, stante il dettato dell’art. 81 c.p.c., ove è sancito che nessuno può far valere, salvi i casi previsti dalla legge, in nome proprio un diritto altrui.
Sul punto, la sentenza in esame asserisce che le questioni siano poco frequenti e formula unicamente un’enunciazione esemplificativa.
Il nodo gordiano della motivazione delle Sezioni Unite riguarda, però, l’effettiva titolarità del diritto vantato ed il criterio fondamentale dell’onere della prova.
In merito, l’art. 2697 c.c. sancisce che chi voglia far valere un diritto in un giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, e chi eccepisce l’inefficacia di quest’ultimi, ovvero che il diritto si sia modificato od estinto, deve parimenti provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.
Invero, l’onere della prova è a carico di chi afferma, non di chi nega qualcosa.
In tale ottica, è utile porre mente al dettato dell’art. 112 c.p.c., che cristallizza il principio del c.d. “tantum devolutum quantum iudicatum”, a norma del quale il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa, e non possono sollevarsi d’ufficio eccezioni proponibili unicamente dalle parti.
Indi, occorre discernere tra eccezioni in senso stretto, subordinate all’iniziativa di parte, ed in senso lato, ossia mere difese, argomenti che il giudice può porre a sostegno della fondatezza o meno della domanda.
Pertanto, il fulcro della questione trattata nella sentenza n. 2951 del 2016 dalle Sezioni Unite è comprendere se in mancanza di eccezione di controparte, il giudice possa d’ufficio ritenere infondato il diritto vantato e, specificatamente, se la questione dell’inconsistenza affermata titolarità del diritto possa essere eccepita in appello dalla parte contumace in primo grado.
La maggiore criticità inficia il regime delle preclusioni, instaurato a norma dell’art. 167 c.p.c. dal 30 aprile 1995, che impone al convenuto di prendere posizione sui fatti posti a fondamento della domanda ed avanzare, a pena di decadenza, le proprie eccezioni nella comparsa di costituzione e risposta.
Inoltre, con l’introduzione della l. n. 69 del 2009, il primo comma dell’art. 115 c.p.c. dispone che, salvi i casi previsti dalla legge, il giudice debba porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal P.M., nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita, derogando così al principio “qui tacet neque negat neque utique fatetur”.
Indi, l’assunto di cui al primo comma dell’art. 115 c.p.c., ha valore soltanto per la parte costituita e non anche per quella contumace.
Lo stato di assenza è una libera scelta della parte, dalla quale alcunché può essere desunto dal giudice.
Nel caso in esame, le Sezioni Unite hanno osservato che, trattandosi di azione risarcitoria per lesione al diritto di proprietà, l’attore è tenuto a far valere tutti gli elementi a sostegno del proprio diritto.
Ergo, aderendo all’orientamento minoritario delle sezioni semplici, quelle Unite hanno asserito che la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio, quale elemento costitutivo della domanda, deve essere provata dallalttore con contratto anche ufficioso del giudice, mentre le controdeduzioni o argomentazioni contrarie della controparte hanno natura di mere difese, dunque proponibili in ogni fase del giudizio, sicché l’eventuale contumacia non rende incontestati i fatti allegati dall’attore, né altera il riparto dell’onere probatorio.
Tale assunto pare ineccepibile, specie alla stregua del dettato dell’art. 2697 c.c. di cui si è data menzione poco sopra.
Ciò posto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si sono espresse in merito all’ulteriore nodo interpretativo concernente il risarcimento per il danno alla proprietà nei casi di trasferimento della medesima da un soggetto ad un altro.
Nello specifico, si tratta di un depauperamento del bene compravenduto e quindi, secondo la tesi testé enunciata, il risarcimento del danno prodotto anteriormente alla vendita spetta all’acquirente, anche qualora questo non fosse stato a conoscenza della preesistenza del danno, salva espressa riserva da parte del venditore, poiché dal trasferimento consegue anche la titolarità del diritto.
Tuttavia, il danno all’immobile fa sorgere in capo al proprietario un diritto di credito personale, che non si trasferisce in casi di alienazione del bene, salva espressa cessione ex art. 1260 c.c., e quindi compete soltanto a chi ha subito, da proprietario del bene, la relativa diminuzione patrimoniale.
Pertanto, la sentenza n. 2951 del 2016 enuncia il principio in base al quale il diritto al risarcimento dei danni subiti da un bene spetta al titolare del diritto di proprietà sul bene al momento dell’evento dannoso, che è dunque autonomo rispetto al diritto di proprietà stesso.
Tale costrutto logico è parimenti condivisibile, poiché sancisce che il risarcimento spetta a chi ha sofferto il danno, visto che v’è stata una diminuzione del valore che ha inciso sul prezzo di vendita.
Ulteriore aspetto rilevante inficia la necessità o meno della presenza di un notaio per il trasferimento di un immobile.
Invero, è usuale che per assicurare la continuità delle trascrizioni in vista di un eventuale futura vendita, la trascrizione vada eseguita tramite atto notarile ovvero attraverso scrittura accertata giudizialmente ex art. 2657 c.c. .
Tuttavia, al di là di tale prescrizione, valgono le ordinarie regole codicistiche, specie il dettato dell’art. 1350 c.c., a norma del quale si devono sottoscrivere per atto pubblico o scrittura privata i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili.
Nel caso di specie, concernente un diritto di credito, constatato il perfezionamento del contratto e per effetto dell’avveramento delle condizioni e del pagamento del prezzo al momento del danno, spettava al titolare dei diritti nascenti dal contratto di acquisto ottenere il ristoro del danno subito.
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