Psicologia della testimonianza: il minore presunta vittima di violenza sessuale
Secondo la giurisprudenza di legittimità, in tema di violenza sessuale, l’ imputato può essere condannato sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa.
Il delitto de quo, infatti, è spesso perpetrato in assenza di altri testimoni nonché mediante violenza, minaccia od abuso di autorità: circostanze tali da indurre la vittima a chiudersi nel silenzio e denunciare i fatti, eventualmente, a distanza di molto tempo, con la conseguenza che l’ unica prova utile sarà soltanto la sua parola.
La pregnante tutela riconosciuta dalla Suprema Corte alla presunta vittima di violenza sessuale, tuttavia, cela un’ insidia: la non necessarietà di riscontri probatori ulteriori, rispetto al suo racconto, può condurre ad imperdonabili errori giudiziari.
Gli Ermellini, proprio per questo motivo, hanno precisato che le dichiarazioni della persona offesa, prima di essere poste a fondamento di una sentenza di condanna per violenza sessuale, debbono essere assoggettate ad una verifica particolarmente rigorosa rispetto al vaglio avente ad oggetto la deposizione di un testimone qualunque; con il collegato obbligo, per il Giudice, di motivare in merito all’ attendibilità intrinseca del racconto ed alla credibilità soggettiva del dichiarante, specie se costituitosi parte civile e rivelatosi, come tale, portatore di un interesse economico connesso agli esiti del procedimento.
Il giudizio di attendibilità e credibilità si fa ben più complesso ove la prova del delitto in questione sia rappresentata dalla parola di un minore, per definizione considerato un “testimone fragile”.
Preliminarmente, sul concetto di “minore”, appurato che la maggiore età si raggiunge al compimento dei 18 anni, è bene distinguere due subcategorie: bambini (fino ai 10 anni) e adolescenti (fino ai 18 anni); la capacità di comprendere se stessi e la realtà circostante, infatti, è alquanto differente.
I bambini, in particolare, sono portatori di una fervente immaginazione creativa la quale, per un verso, è fonte naturale di menzogne “in buona fede” e cioè dirette a raggiungere un fine dagli stessi ritenuto primario (ad esempio, evitare una punizione), per altro verso, consente loro di convincersi intimamente che i fatti sono effettivamente andati in quel modo, sebbene ciò non corrisponda al vero.
Peraltro, se interrogati da un adulto, i bambini tendono a dimostrarsi particolarmente suggestionabili: essendo educati a non contraddirlo, risultano istintivamente portati ad uniformarsi a ciò che, nella loro visione, l’ adulto vuole sentirsi dire.
In concreto, il pericolo è che si crei una vera e propria commistione tra l’ esperienza realmente vissuta dal fanciullo e ciò che gli è stato suggerito, ancorché involontariamente, dall’ interrogante.
Esemplificando, si pensi a quanto potrebbe rivelarsi fuorviante la domanda “È vero che Tizio ti toccava le parti intime?” o la più sottile insinuazione “Quando Tizio ti faceva il bagno, come toccava le tue parti intime?”.
Non a caso, in sede di esame testimoniale sono espressamente vietate le domande che, in qualsiasi modo, tendono a suggerire le risposte (c.d. “domande suggestive”).
È interessante richiamare un celebre esperimento effettuato da J. Varendonck nel 1911: a diciotto scolari di 7 anni era stato chiesto di pensare ad un certo loro insegnante e quindi domandato di che colore fosse la sua barba; ebbene, sedici alunni su diciotto avevano risposto che la barba era nera, benché l’ uomo non avesse affatto la barba.
Di qui, la massima ancora oggi attuale: “Una domanda mal formulata può portare a risposte completamente errate, anche rispetto a persone che un bambino vede tutti i giorni”.
Negli adolescenti, invece, inizia ad affiorare quella malizia tipica dell’ età adulta. Enrico Altavilla, pioniere della psicologia giuridica italiana, ha rilevato che il periodo della pubertà, in cui si sveglia la curiosità sessuale, è il più favorevole alle menzogne aventi ad oggetto, appunto, reati sessuali.
Si richiama, fra i tanti, un recente caso giudiziario riguardante un quarantanovenne di Lecce, accusato di violenza sessuale dalla figlia dodicenne della compagna.
La ragazza aveva raccontato, tanto alla Polizia Giudiziaria quanto al Giudice, che l’ uomo si insinuava abitualmente nel suo letto con la complicità della notte. Per effetto di tali dichiarazioni, il “mostro” era stato condannato, in primo grado, a 7 anni e 4 mesi di reclusione; ma il processo d’ appello, da ultimo, ha riconosciuto una diversa verità: l’ uomo non aveva fatto alcunché.
Il difensore, infatti, è riuscito a dimostrare come il racconto della presunta vittima fosse intrinsecamente inattendibile; a tal fine, ha sottoposto all’ attenzione del Collegio il diario nel quale la stessa era solita esprimere astio verso quel padre naturale da cui non aveva mai ricevuto affetto, dichiarandosi per contro fortunata ad aver conosciuto il nuovo compagno della madre.
Ebbene, significativamente tale ultima confidenza era datata due mesi dopo l’ inizio dei presunti abusi.
Il caso di specie rende evidente come la psiche di un adolescente risulti difficilmente interpretabile da un adulto; l’ adolescenza, infatti, è un periodo in cui la non piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie dichiarazioni, unitamente alla citata scoperta della sfera sessuale, possono sfociare in pesanti accuse alla caccia di un “mostro” che talvolta purtroppo esiste, talaltra non lo è affatto.
Spesso, tra le cause scatenanti le “false accuse” vi è proprio la volontà di attirare l’ attenzione di un genitore “assente”.
Al fine di garantire, per quanto possibile, la genuinità della testimonianza di un minore presunta vittima di violenza sessuale, nel corso degli anni sono stati approntati diversi protocolli.
Si ricorda, fra tutti, la Carta di Noto, frutto della collaborazione interdisciplinare tra avvocati, magistrati, psicologi, psichiatri, criminologi e medici legali.
La stessa esordisce con la seguente affermazione: “La memoria non è una riproduzione precisa degli eventi percepiti in quanto essa è un processo dinamico e (ri)costruttivo”.
Al fine di ridurre al minimo pericolosi fenomeni di rielaborazione e contaminazione delle informazioni, l’ art. 2 della Carta di Noto stabilisce che “il minore va sentito in contraddittorio il prima possibile”.
Qui emerge l’ importanza del c.d. “incidente probatorio”: un istituto processuale che consente di anticipare, rispetto alla naturale fase dibattimentale, l’ assunzione della testimonianza, collocandola nel corso delle indagini preliminari.
Si noti che, nel caso di specie, se il Giudice ammette l’ incidente probatorio, è tenuto ad adottare particolari cautele definite, dagli addetti ai lavori, “audizione protetta”.
L’ audizione protetta si propone di soddisfare due fondamentali esigenze: assumere una testimonianza scevra da condizionamenti; preservare il minore da interviste eccessivamente intrusive ed affaticanti.
A tal fine, ove praticabile, il giovane testimone non sarà esaminato in un’ austera aula di Tribunale, bensì all’ interno di una struttura predisposta nella maniera più accogliente possibile (ad esempio, attraverso la collocazione di giocattoli, libri o riviste); l’ esame non avrà luogo nelle classiche forme della cross examination, tali per cui il PM e gli avvocati, a turno, pongono le domande direttamente al teste, bensì attraverso la mediazione del Giudice o, meglio ancora, di un esperto in psicologia.
Resta comunque arduo valutare con assoluta certezza la credibilità soggettiva del minore e l’ attendibilità intrinseca del suo racconto, dovendosi peraltro sottolineare che, sovente, nella pratica vita di un Tribunale le citate cautele non sono così rigorosamente rispettate.
Insomma, è un campo oltremodo delicato e, se è vero come è vero che il Giudice pronuncia sentenza di condanna solo se l’ imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio, sorge spontaneo un interrogativo: “È giusto punire un essere umano sulla base delle sole dichiarazioni di un altro essere umano?”
Siamo di fronte ad una responsabilità enorme, nella quale emerge la solitudine del Giudicante che, frequentemente, si vede costretto a rispondere non solo alla propria coscienza, ma altresì a quanto è già stato deciso dal popolo nel processo mediatico celebratosi all’ interno dei tanti salotti televisivi.
L’ opinione pubblica brama un “colpevole”. Lo pretende velocemente. È assetata di giustizia. Una giustizia fatta di pregiudizio e pressapochismo: gramigne capaci di soffocare, a poco a poco, quel giusto processo che, costituzionalmente, dovrebbe essere garantito a chiunque, persino al peggior criminale.
È questa la vera essenza del concetto di “giustizia”, un concetto riassumibile nella seguente riflessione: “Se capitasse a me di risultare indagato per un grave delitto che non ho commesso, come vorrei essere giudicato?”
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