Pubblica sicurezza e libertà religiosa
Sommario: 1. Premessa generale – 2. Libertà religiosa come manifestazione della fede attraverso l’abbigliamento (e non solo) – 3. Limiti opponibili – 4. Il possibile contrasto con le norme penali – 5. L’operatività della libertà religiosa come scriminante – 6. Il caso particolare del sikhismo
1. Premessa generale
La significativa presenza di differenziate comunità in Italia e la richiesta di accesso all’intesa avanzata da alcune di esse ha smosso un quadro stagnante. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale il nostro paese ha dovuto fare fronte ad una domanda di (libertà in genere, e in particolare di) libertà religiosa cui non eravamo attrezzati a rispondere.
Gli ecclesiasticisti hanno sempre pensato al tema della libertà religiosa avendo in mente che l’effettività della tutela acquistasse rilievo soltanto per i cittadini; non è certo sfuggito loro che l’art. 19 recita “Tutti hanno diritto di professare liberamente … “, ma la maggiore estensione soggettiva della garanzia (rispetto alle altre libertà costituzionalmente garantite) è stata utilizzata al ben diverso fine di qualificare la libertà religiosa quale libertà “privilegiata”. I recenti fenomeni di immigrazione hanno con il tempo cambiato i termini del problema. In via esemplificativa, si è passati dalle occupazioni di luoghi pubblici per occasionali cerimonie di culto alla richiesta di assegnazione di aree per l’edificazione di appositi edifici; dalla presenza di guide spirituali “private” alla richiesta di assistenza religiosa negli istituti di detenzione e di pena, laddove la presenza di detenuti di religione musulmana, ad esempio, è divenuta percentualmente significativa; dalla macellazione rituale clandestina alla richiesta di approntare mense (nelle strutture pubbliche e private) atte a fornire il cibo preparato in modo conforme alle prescrizioni religiose, e così via dicendo; ed è’ necessario a questo punto chiedersi, in via preliminare, (se, e) come l’ordinamento italiano possa rispondere a queste richieste di tutela.
L’affermazione che la nostra Carta abbia dato “grande risalto ai diritti dell’uomo, in un certo senso disancorandoli dalla cittadinanza”, ed abbia consentito di allacciare così “la condizione del cittadino ad un ordine assai più grande, ben oltre le frontiere dello stato nazionale” appare suggestiva. E tuttavia occorre un esame approfondito per verificare il fondamento normativo di siffatti diritti se non si voglia incorrere in giusnaturalismi “di ritorno” che non promettono nulla di buono per l’assetto democratico delle istituzioni (nazionali ed ultra nazionali). Quanto alla libertà religiosa – che molti stati riconoscono come un diritto fondamentale della persona, ma per la quale tarda ancora la stipula di un’apposita convenzione internazionale – l’interprete della Costituzione italiana non ha necessità alcuna di rinvenire i parametri normativi in principi più o meno indeterminati: la titolarità e l’esercizio di questo diritto (al pari della manifestazione del pensiero, della difesa in giudizio, ecc.) prescindono dalla cittadinanza per espresso dettato della Carta e sono riconosciuti anche allo straniero senza il limite della condizione di reciprocità di cui al primo comma dell’art. 16 disp. prel. al codice civile. Va, anzi, ricordato come il diritto di libertà religiosa dello straniero, in forza della espressa garanzia costituzionale accordata ai soggetti privati in quanto tali, non può essere limitato né da norme o accordi internazionali né da accordi con le confessioni religiose.
Se tutti hanno diritto di professare la propria fede in forma individuale o associata e di organizzare le correlative esigenze con strutture associative o di altro tipo, purché funzionali ai bisogni che le hanno determinate, non si vede perché la Repubblica (cioè tutte le articolazioni competenti del potere pubblico) non dovrebbe occuparsi del fenomeno e disciplinarne liberamente le garanzie, le modalità di estrinsecazione ed attuazione delle esigenze corrispondenti e le forme di loro promozione.
Relativizzato, meglio, utilizzato in maniera appropriata il termine confessione religiosa, si ridimensionano anche i pretesi vincoli che si vuole fare discendere agli articoli 8 e 7 della Costituzione. Occorre perciò riconoscere che, queste fonti costituiscono un sottosistema del diritto ecclesiastico, istitutivo di un regime di più intensa attenzione alle esigenze particolari che possono essere manifestate dalla peculiare categoria di soggetti collettivi religiosi: le confessioni religiose, senza tuttavia prevedere alcuna possibilità di eccezione ai principi fondamentali di libertà ed uguaglianza.
Occorre riconoscere che, questa categoria di soggetti collettivi religiosi è riguardata in un settore della Costituzione in chiave strumentale alla più generale finalità della soddisfazione delle esigenze religiose della persona, per la più significativa incidenza sociale delle forme apicali della religiosità organizzata riconosciuta dal nostro ordinamento costituzionale. La disciplina contrattata fra confessioni religiose e Stato è un settore rilevante, ma neppure tanto esteso rispetto all’insieme di norme giuridiche che si ascrivono al cosiddetto diritto ecclesiastico, basta maneggiare una delle raccolte che si titolano come codice di diritto ecclesiastico per rendersene conto. Davvero si vuol sostenere che ogni esigenza di carattere religioso giuridicamente rilevante deve essere oggetto di rapporti fra confessioni religiose e Stato?
Si può fare luogo a rapporti fra una confessione religiosa e lo Stato, in quanto: a) questo soggetto collettivo si renda conoscibile dinanzi alle istituzioni statali secondo le norme della legge civile (personalità giuridica, iscrizione in registro pubblico, etc.); b) la stessa manifesti un rilievo sociale, cioè un nucleo di appartenenti che dia luogo al manifestarsi di esigenze religiose significative e giuridicamente rilevanti, non solo in quanto ascrivibili al diritto di libertà religiosa, ma così significativamente presenti nella realtà sociale e così peculiari rispetto all’esperienza comunemente condivisa, da richiedere una apposita rilevazione particolare da parte dell’ordinamento; c) le esigenze che la confessione religiosa chiede di regolamentare in forma pattizia, non potendo costituire privilegi discriminanti o statuti personali, siano specificazione e adattamento specifico di quelle libertà che già la legge civile garantisce a tutte le formazioni religiose ed ai singoli; d) le relazioni oggetto della contrattazione siano espressione di esigenze di coordinamento organizzativo, di corrispondenza linguistica, o di sottrazione particolare a vincoli (non determinanti) derivanti da regole civili generali, contrastanti con le proprie idee e valori, che siano cioè accogliibili dall’autorità civile senza intaccare i valori fondanti della convivenza e l’uguaglianza nel suo nucleo fondamentale.
Pur nella consapevolezza che, la possibilità di disciplina contrattata dei rapporti fra le confessioni e lo Stato rimane espressione di una mera discrezionalità politica di apparati centrali di governo, va rilevato che tale discrezionalità è altresì condizionata dal fatto che, le esigenze individuali e collettive in materia religiosa sono sempre più diffusamente oggetto della competenza della rete dei poteri pubblici in cui si articola la Repubblica italiana. Inoltre, nonostante che da parte delle chiese dominanti in ogni singolo stato europeo si sia prodotta una strenua resistenza al ridimensionamento dei privilegi goduti nel proprio specifico contesto istituzionale, a livello europeo si è ormai prodotta una solida piattaforma di documenti, atti, norme, che tutelano la religiosità come diritto della persona, anche contro le limitazioni e prevaricazioni provenienti dai gruppi religiosi, anche di quelli di appartenenza.
Questo diritto ecclesiastico europeo, che pacificamente limita le sovranità interne dei singoli Stati, orientandone i rispettivi ordinamenti verso un sistema di valori comuni, va erigendo un argine sempre più robusto ai confessionismi più o meno espliciti ovunque emergenti. Questo è il quadro istituzionale e politico nel quale oggi si manifesta il problema della disciplina del fenomeno religioso.
La legge che si auspica ha anche lo scopo di reimpostare, nel rispetto dei nostri avanzatissimi principi costituzionali, un quadro normativo di settore, per inquadrare quello vigente, troppo legato a vecchi schemi istituzionali, non più corrispondenti all’attuale forma di Stato; per adeguarlo alla nuova situazione istituzionale e sociale.
Certo è che, una normazione di carattere generale, che definisca i diritti basilari di tutti i soggetti in materia religiosa, avendo una funzione di indirizzo e di attuazione costituzionale, avrebbe conseguenze indirette anche sulla legislazione vigente contrattata con le singole confessioni religiose, per le eventuali parti in cui tale legislazione contrattata stabilisse regole contrarie o di preferenza.
L’ambito dei rapporti fra confessioni e Stato, dunque, andrebbe limitato alla indispensabile materia dell’applicazione dei principi generali alle forme specifiche dell’organizzazione di ciascuna confessione religiosa cosicché tutti possano sentirsi “cittadini” del paese che li ospita.
2. Libertà religiosa come manifestazione della fede attraverso l’abbigliamento (e non solo)
La manifestazione attraverso gli indumenti e gli accessori della propria fede religiosa è un caso particolare dell’espressione della propria cultura: i legami con la divinità ed il modo di esternarli rappresentano indubbi vincoli culturali e possono agire da motivatori di un reato culturalmente orientato.
Come è stato recentemente sottolineato, si potrebbe delineare all’interno del genus reati culturalmente orientati un sottoinsieme rappresentato dai reati religiosamente orientati.
La tendenza evidenziabile nell’ordinamento italiano, infatti, ha condotto negli ultimi anni ad eccessi alimentati dalla forte demagogia nello scontro politico su questioni così sensibili. Un esempio palese, sintomatico di un atteggiamento di chiusura aprioristica alla diversità anche in Paesi di più lunga tradizione assimilazionista, è relativo alla questione circa l’abbigliamento rituale, “settore” a cui più e più volte si è cercato di dare un confine preciso. Un esempio lampante è la norma incriminatrice che viene in gioco in relazione ad imputate che indossino il burqa o veli analoghi: è l’art. 5 della l. 22 maggio 1975, n. 152, che punisce chiunque ostacoli con caschi o qualunque altro mezzo la propria riconoscibilità, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. Nata per fronteggiare le emergenze legate al terrorismo nazionale, la norma è stata talvolta piegata al più modesto compito menzionato. Un aumento di pena per il reato in questione è stato introdotto con la l. 31 luglio 2005, n. 155 con il malcelato scopo di vietare più severamente la pratica culturale.
Un caso del genere è stato archiviato dal GIP del Tribunale di Treviso il 3 marzo 2005 perché, secondo il P.M., il copricapo in questione non era un mezzo per occultare la propria presenza, bensì un indumento indossato per finalità diverse da quelle perseguite dalla norma; nel caso concreto, inoltre, non vi era stato alcun ostacolo nelle procedure di riconoscimento e, argomento ancora più rilevante, sussisteva il giustificato motivo previsto dalla norma, ovvero la libertà di espressione religiosa, tutelata dalla Costituzione e da fonti sovranazionali (art. 9 CEDU[1]).
In un caso analogo, deciso dal Tribunale di Cremona il 27 novembre 2008, l’imputata fu assolta per ragioni preliminari all’analisi del giustificato motivo[2] della manifestazione della propria cultura, ossia perché il fatto non sussisteva: la donna non oppose alcuna resistenza a scoprirsi il volto nell’atto del riconoscimento, annullando ogni possibile riferimento alla condotta astrattamente prevista dalla norma.
Una presa di posizione più generale in merito alla non riducibilità dell’uso del burqa al fatto integrante reato ex art. 5 è stata effettuata dal Consiglio di Stato, con la sent. 19 giugno 2008, n. 3076, con la quale il giudice amministrativo ha sancito che “soltanto nel caso in cui esigenze effettive di ordine pubblico impongano il riconoscimento della donna velata e questa si rifiuti di sottoporsi all’identificazione è possibile la configurazione del reato in questione”. In quest’ultima circostanza l’abbigliamento rituale non sarebbe giustificato, dal momento che le clausole generali quali sicurezza e ordine pubblico assumono un senso solo laddove esse rappresentino le condizioni necessarie alla tutela di beni di indiscusso rilievo costituzionale, come la vita e l’incolumità personale. Quest’interpretazione costituzionalmente orientata, per la quale sicurezza e ordine pubblico possono limitare la libertà ex art. 19 Cost. soltanto allorquando nel caso concreto tendano a proteggere beni di rilievo costituzionale, sembra trovare conferma anche negli orientamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Un tentativo ancora più radicale, fortunatamente rimasto allo stadio di progetto di legge, fu rappresentato dal disegno n. 2769 presentato il giorno 8 ottobre 2009, che proponeva la seguente modifica dell’art. 5 della legge Reale: “è vietato l’uso di caschi protettivi o di qualsiasi altro mezzo atto a rendere impossibili o difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, intendendosi per difficoltoso ogni mezzo che non renda visibile l’intero volto, inclusi gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa”. La proposta di legge, dal violento contenuto ideologico, mostrava un’ignoranza del legislatore nella tematica multiculturale, laddove faceva riferimento ad una mera affiliazione religiosa e non alla manifestazione della propria cultura; un dispregio del principio di eguaglianza, dal momento che il fattore culturale avrebbe continuato a scriminare il porto di coltelli rituali[3], ad esempio, e non il velo. Inoltre, privare la pratica del velo del suo potenziale fattore scriminante non tiene conto del fatto che comunque il giudice, nell’interpretazione della fattispecie, potrebbe ritenere che in concreto non sia stato reso impossibile o difficoltoso il riconoscimento, vanificando l’intento repressivo della norma. La mancata approvazione di tale norma non può dunque che destare sollievo ed è prova del fatto che i problemi delle società multiculturali non si risolvono con un semplice tratto di penna.
Di recente il dibattito giurisprudenziale e dottrinale italiano, sul principio di laicità, è legato alle vicende relative all’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche e a tal proposito è possibile riportare diverse sentenze della giurisprudenza di merito. In primis quella del Tribunale dell’Aquila in cui il giudice delegato, a seguito di un ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c., con ordinanza, ha disposto la rimozione, in via cautelare, del simbolo dalle pareti delle aule della scuola materna ed elementare di Ofena, al fine di evitare la lesione del diritto di libertà religiosa degli alunni ricorrenti; condividendo, quindi, l’impostazione della Cassazione e ritenendo che la laicità delle istituzioni pubbliche si concreti nella loro neutralità, quale contegno cui devono conformarsi.
L’ordinanza viene emessa sulla base di una ben argomentata motivazione in cui si richiamavano tanto le conclusioni cui era giunta la Corte di Cassazione con la sentenza n. 439 del 2000, quanto le pronunce emanate dalla Corte Costituzionale, nel corso degli anni. Essa si fondava, da un lato, sull’indubbia valenza religiosa del simbolo, con la conseguenza che la sua presenza comunicava l’implicita adesione della struttura pubblica a valori che non sono patrimonio comune di tutti i cittadini così ledendo principi fondamentali quale il pluralismo religioso e l’imparzialità dello Stato e, dall’altro, sull’assenza di norme vigenti che prescrivessero l’esposizione del crocefisso, da cui discendeva il potere del giudice di condannare la pubblica amministrazione a porre in essere un comportamento attivo, volto all’eliminazione della situazione di illegittimità.
In particolare, poi, nell’ordinanza veniva sottolineato il principio di uguaglianza che assume un valore particolare nelle società pluraliste e multietniche; e proprio in tale contesto, il principio di uguaglianza si pone come strumento di tutela delle minoranze, cosi come sancito dalla Corte Costituzionale nelle sue precedenti pronunce. All’ordinanza appena citata fece, poi, seguito l’ordinanza con cui il Tribunale dell’Aquila, in sede di gravame, giungeva a conclusioni del tutto diverse. Infatti, in tal caso il Tribunale non affrontò il merito della vicenda, stabilendo che l’esame del caso dovesse ritenersi sottratto alla competenza del giudice ordinario, e che rientrando nelle ipotesi ex art., 2° comma, del D.lgs n. 80 del 1988, la competenza appartenesse alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tale questione pregiudiziale comportava, quindi, l’annullamento del provvedimento di primo grado, contribuendo a rinvigorire le istanze conservatrici a favore del crocefisso.
In questo contesto di dibattito sul principio di laicità e sull’esposizione del crocefisso si inserisce anche una sentenza del Tar Veneto del 2005, la quale si contrappone alle precedenti pronunce della Cassazione e del Tribunale dell’Aquila. Il Tar Veneto ha sostenuto la legittimità dell’esposizione del crocefisso con una complessa argomentazione basata sulla circostanza che il crocefisso rivesta un valore culturale e non univocamente religioso e che proprio il significato religioso dello stesso testimoni e comprovi la laicità dello Stato. Infatti, il Tribunale ritiene che il “nonostante l’inquisizione, l’antisemitismo e le crociate, si può agevolmente individuare nel cristianesimo il principio di dignità dell’uomo, di tolleranza, di libertà anche religiosa e quindi in ultima analisi il fondamento della stessa laicità dello Stato” e conclude che “il crocefisso debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta Costituzionale”. Tale decisione lega in maniera significativa la laicità al principio di identità nazionale e ne discende che “il simbolo del crocefisso, anche per i non credenti, esprime in forma sintetica valori civilmente rilevanti, posti a fondamento del nostro ordinamento (tolleranza, rispetto dei diritti e delle libertà della persona, solidarietà, non discriminazione). Ne consegue che l’esposizione del suddetto simbolo nelle aule scolastiche, in quanto propugnazione dei suddetti valori laici, non viola il principio di laicità dello Stato (che è anch’esso principio fondamentale del nostro ordinamento)”.
Dalle decisioni giurisprudenziali, cui si è accennato, emerge la distinzione dottrinale tra ‘laicità per addizione’ (cioè ammissione ed esposizione di tutti i simboli) e ‘laicità per sottrazione’ (ammissione di alcuni simboli ad esclusione di altri). Infatti, la Corte di Cassazione, in una sua sentenza del 2011, ha statuito che “nel nostro ordinamento costituzionale la laicità dello Stato costituisce un principio supremo idoneo a risolvere talune questioni di legittimità costituzionale. Trattasi di un principio che sebbene non sia proclamato espressi verbis dalla Carta fondamentale assume comunque rilevanza giuridica potendo evincersi dalle norme fondamentali del nostro ordinamento” ed ha proseguito sancendo che “sul piano teorico il principio di laicità è compatibile sia con un modello di equiparazione verso l’alto che consenta ad ogni soggetto di vedere rappresentati nei luoghi pubblici i simboli della propria religione, sia con un modello di equiparazione verso il basso. Tale scelta legislativa, però, presuppone che siano valutati una pluralità di profili, primi tra tutti la praticabilità concreta ed il bilanciamento tra l’esercizio della libertà religiosa da parte degli utenti di un luogo pubblico con l’analogo esercizio della libertà religiosa negativa da parte dell’ateo e del non credente, nonché il bilanciamento tra garanzia del pluralismo e possibili conflitti tra pluralità di identità religiose tra loro incompatibili”.
3. Limiti opponibili
Le implicazioni del principio di laicità evidenziate in apertura spingono ora ad affrontare il problema del “conflitto multiculturale” nascente dalla pretesa della esteriorizzazione delle proprie convinzioni religiose mediante simboli accostati al corpo, con particolare attenzione al porto del velo islamico.
Si tratta di uno tra gli usi al centro dell’ampio dibattito sul multiculturalismo, in particolare per quel che riguarda l’atteggiamento delle democrazie verso quelle culture che non tributano alla parità tra i sessi il ruolo che – almeno, formalmente – tale principio ricopre nel mondo occidentale. A fronte di questioni così complesse ed in molti casi inedite, nel dibattito scientifico si intrecciano una molteplicità di punti di vista, sia nell’universo del diritto sia al di fuori di esso, poiché, ad es., anche la filosofia politica, la sociologia o l’antropologia culturale offrono contributi di non poco rilievo. Alla luce delle riflessioni svolte nei diversi contesti, possono immaginarsi, in astratto, una molteplicità di soluzioni praticabili da parte delle istituzioni democratiche, a seconda che si privilegi un punto di vista liberal ovvero si acceda ad una prospettiva comunitaria oppure ancora si tenti di mediare tra i due. Tale ultimo approccio è senz’altro quello più convincente per il nostro ordinamento, dato che la formula dell’art. 2 Cost. non cristallizza una soluzione netta nel caso di conflitto tra diritti dei singoli e diritti delle formazioni sociali ma tratteggia la necessità del bilanciamento tra gli uni e gli altri.
In verità, è noto che, per un verso, nel nostro ordinamento permangono forme di privilegio a vantaggio della Chiesa cattolica (specie di natura economica), che nulla hanno a che vedere con la menzionata eccezione prevista all’art. 7, c. 2, Cost., riguardante esclusivamente il particolare regime cui è sottoposta la regolamentazione dei rapporti tra Stato e Chiesa; per l’altro, di fatto la mancanza dell’intesa finisce per costituire elemento di discriminazione tra i gruppi acattolici, nonostante tale circostanza integri una violazione del dettato costituzionale (Corte cost., sent. n. 195 del 1993).
Tuttavia, in almeno un settore sembra raggiunta una piena equiparazione tra tutte le confessioni: si tratta della disciplina vilipendio della religione, uno dei punti di maggior attrito tra libertà di espressione (intesa anche come libertà dell’arte e della scienza) e libertà di culto. In questo senso, nel quadro di un intervento a più ampio respiro, si muove la riforma realizzata dalla l. n. 85 del 2006 (“Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione”), a coronamento del notissimo orientamento che, operando una vistosa inversione rispetto al pregresso indirizzo, nell’arco di un decennio ha “smantellato” il “microsistema” degli artt. 402-406 c.p. Come si è accennato, mediante la prescrizione legislativa del divieto di discriminazioni per motivi religiosi nel corpus delle norme limitatrici del potere dei datori di lavoro pubblici e privati (a partire da quelle introdotte dalla l. n. 300 del 1970 per finire a quelle predisposte dal d. lgs. n. 216 del 2003, in attuazione della dir. n. 78/2000/CE), il principio di laicità si innerva anche nelle dinamiche dei rapporti tra i cives, contribuendo, in particolare, ad orientare il bilanciamento tra i diritti dei lavoratori e quelli legati all’organizzazione dell’attività imprenditoriale scaturenti dall’art. 41 Cost. Tuttavia, la dialettica tra le due libertà trova una delle sue più complesse estrinsecazioni proprio in tale ambito, sia pure in contesti differenti, con riguardo ai quali entrano in gioco valori costituzionali non sempre coincidenti. Per un verso, infatti, viene in luce il riproporsi dell’eterno contrasto tra i diritti del singolo e i diritti delle formazioni sociali nella disciplina delle “organizzazioni di tendenza”, per l’altro la conflittualità tra libertà di religione e libertà di espressione amplia il proprio raggio d’azione laddove si includa, in quest’ultima, la libertà di insegnamento e si abbia perciò riguardo tanto alla particolare situazione in cui versano gli insegnanti di religione nelle scuole pubbliche, ancora dopo la riforma introdotta dalla l. n. 186 del 2003, quanto al sacrificio inflitto alla libertà di insegnamento all’interno dell’Università Cattolica. La particolare attenzione alla diversità, che grazie all’apporto degli artt. 3, 8 e 19 Cost., assurge a componente strutturale del principio di laicità, pone in luce un ulteriore profilo problematico di particolare rilievo ai fini delle riflessioni che appaiono pertinenti al discorso qui affrontato. Inevitabilmente, infatti, a tale principio ci si appella dinanzi ai conflitti delle società multiculturali, laddove questi nascano in conseguenza della rivendicazione, da parte di comunità più o meno vaste, del diritto alla propria identità religiosa, mediante la pretesa all’esercizio di usi e pratiche peculiari, tali da apparire in urto con i valori costituzionali. L’impervio tema dei conflitti multiculturali e quello dei limiti alla adottabilità di “politiche di riconoscimento” nei contesti democratici impegnati a costruire un “consenso per intersezione” è evocato in quanto non appare peregrino inscrivere nell’orbita delle notazioni che si andranno a sviluppare i casi in cui l’appartenenza religiosa venga “esteriorizzata” attraverso simboli accostati al corpo: ci si soffermerà sul porto del coltello kirpan, al centro di un ampio dibattito (anche) a causa dell’incisione sul principio di uguaglianza tra le religioni. Vero è che l’esperienza dimostra come non necessariamente, in questo caso, venga in luce il desiderio di aderire ad un precetto religioso: tuttavia, l’esibizione di un simbolo del genere può dar vita ad un ulteriore ed interessante “intreccio” tra le due libertà, in cui il porto del segno si trasforma in una comunicazione simbolica volta a rendere nota l’appartenenza ad un’identità minoritaria in dissenso rispetto ai valori della maggioranza.
4. Il possibile contrasto con le norme penali
Come deve reagire il diritto penale di fronte ad un reato commesso per (asseriti) motivi culturali da un immigrato? deve conferire un qualche rilievo alla situazione di conflitto normo-culturale che ha fatto da sfondo alla commissione del reato? in particolare, deve riservare un trattamento speciale, e segnatamente più mite, all’immigrato autore di un reato culturalmente motivato? oppure il diritto penale deve rimanere assolutamente indifferente alla “motivazione culturale”, o addirittura considerarla come un elemento aggravatore della responsabilità? A livello processuale si pone poi un interrogativo, che pesa come un macigno sulle questioni qui evocate: come si prova in giudizio la cultura dell’imputato?
Questa folla di punti di domanda non ha finora trovato risposta a livello legislativo negli ordinamenti giuridici dei Paesi occidentali recettori di flussi immigratori, all’interno dei quali è assente qualsiasi norma di parte generale appositamente rivolta a disciplinare i reati culturalmente motivati. Occorrerà, allora, interrogare il diritto penale vigente per verificare se una risposta possa essere comunque trovata nelle sue pieghe, sulla base di norme ed istituti già esistenti, attraverso i quali si possa conferire rilevanza alla motivazione culturale all’interno di uno dei quattro elementi del reato (fatto, antigiuridicità, colpevolezza, punibilità) o, in subordine, in fase di commisurazione della pena (art. 133 c.p. e circostanze del reato).
Sarà in tal modo possibile constatare che sono già presenti, nel nostro ordinamento, plurime norme ed istituti in qualche modo permeabili al fattore culturale: l’accertamento del fatto concreto nella sua effettiva “dimensione culturale”; la valutazione degli elementi normativi culturali di fattispecie anche alla luce della cultura dell’agente (al più tardi, in sede di accertamento della colpevolezza); l’eventuale rilievo scriminante o quasi scriminante del diritto esercitato; la possibile rilevanza della motivazione culturale in sede di accertamento e graduazione della colpevolezza; l’inopportunità di punire un fatto tipico, antigiuridico e colpevole che risulti, nella specie, connotato da “particolare tenuità” o “irrilevanza”; infine, i plurimi canali attraverso i quali il fattore culturale potrebbe incidere sulla misura della risposta sanzionatoria; offrono già una completa piattaforma di strumenti attraverso i quali si potrebbe giungere, caso per caso, ad una corretta soluzione dei reati culturalmente motivati. Rispetto alla superflua ed incerta introduzione di future norme – di difficile formulazione per il legislatore, e di ancor più difficile comprensione per l’opinione pubblica – pare, quindi, preferibile sollecitare, fin da subito, una giurisdizione sensibile alla cultura che, interpretando ed applicando norme ed istituti già esistenti, ricerchi una risposta sanzionatoria equa ed adeguata per ogni reato culturalmente motivato, prendendo in attenta considerazione le tante variabili del caso concreto (tra le più significative: il livello di offensività del fatto commesso; la natura della norma culturale osservata; il grado di integrazione del soggetto agente nella cultura del Paese d’arrivo). La scelta di affidarci a giudici sensibili alla cultura, senza introdurre norme ad hoc per i reati culturalmente motivati, non pare, peraltro, una scelta rinunciataria, né una soluzione viziata dal difetto di fare affidamento alla sola buona volontà dei giudici, chiamati per l’ennesima volta a svolgere funzioni di supplenza del legislatore. Essa, invece, è una scelta ancorata al rispetto della legge vigente; legge da interpretare ed applicare in piena fedeltà al principio di uguaglianza. È una scelta, inoltre, che rifugge l’enfasi della novella legislativa, ma che pretende dai giudici il rispetto di criteri il più possibile razionali, trasparenti e quindi controllabili. È una scelta, in definitiva, che, senza inutili clamori, ci mette a portata di mano la possibilità di raggiungere l’obiettivo di conciliare il rispetto della diversità culturale con il rispetto della uniformità e della credibilità del sistema penale[4].
Il giudice delle leggi, che in anni lontani ha incluso il sentimento religioso tra i beni a “rilevanza costituzionale”[5], ha poi configurato, con il paravento del principio di laicità, nella versione italiana della laicità “positiva”, e della sua correlazione con la tutela della libertà religiosa, un obbligo di tutela penale che non appare conforme al quadro complessivo dei fini-valori della Carta. L’avere individuato per via giurisprudenziale un obbligo costituzionale implicito di incriminazione che amplia la gamma dei fatti (psichici, di sentimento) penalmente rilevanti, per un verso, ha sospinto la Corte verso uno sconfinamento nel campo delle scelte discrezionali di politica criminale riservate al legislatore che avrebbe avuto davanti a sé una pluralità di opzioni alternative (sull’an e sul quomodo); e, per altro verso, appare un’opzione connotata ideologicamente, perché non desumibile dal dettato e dai principi ispiratori della Carta che mai prevede in questo ambito (in forma espressa o in modo implicito) poteri/doveri di intervento promozionale suscettibili di estendersi anche ai profili penalistici della tutela di “un dato spirituale che, sorgendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità”.
Un fatto, pertanto, non oggettivizzato e tipizzato che, come tale, appare inidoneo a “fare emergere al livello della giuridicità la situazione della vita rispetto alla quale i problemi di vita si vanno ponendo” e, dunque, estraneo ai procedimenti di qualificazione giuridica. La riconduzione della tutela del sentimento all’ambito della libertà religiosa impone, invece, per il giudice delle leggi, l’estensione della tutela penale a tutte le confessioni proprio per dare “piena attuazione” al diritto di libertà religiosa che resterebbe solo “parzialmente” attuato da una tutela differenziata, malgrado la stessa Corte avesse affermato la regola basilare che “dal punto di vista giuridico”, le manifestazioni esteriori […] sono le sole a contare come esercizio della libertà di coscienza”. È questa la prima preoccupazione della Corte: il ripristino della “equidistanza” tra le diverse fedi religiose quanto alla loro tutela. Infatti, non a caso, nella sola sentenza totalmente ablativa in materia, si può avvertire il rammarico della Corte che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 402 c.p. solo perché “coartata” dal principio di riserva di legge in materia penale che vieta le “sentenze d’incostituzionalità aventi valenze additive”. Il destro per risolvere il possibile contrasto con l’art. 21 della Costituzione è offerto alla Corte dal riconosciuto rango costituzionale del bene “sentimento religioso”, riconducibile ad un diritto previsto e riconosciuto dalla stessa Carta, all’art. 19. Questa circostanza consentirebbe dunque che, dopo avere esperito tutti i necessari bilanciamenti richiesti dalla contemporanea presenza di beni di pari rango confliggenti, le fattispecie di reato poste a tutela del sentimento religioso limitino le altre libertà costituzionali, e tra queste la libertà di pensiero.
Il diritto di libertà religiosa è così configurato – unico tra i diritti di libertà costituzionalmente garantiti – come inscindibilmente connesso al “sentimento” che gli individui nutrono a riguardo del valore protetto dalla norma costituzionale, come se la violazione del primo comporti di necessità la lesione del secondo, e viceversa; e come se il “sentimento” meritevole di tutela fosse soltanto quello di chi esercita il diritto ex art. 19 Cost. professando una fede, e non fosse il sentimento di chi esercita il medesimo diritto con valenza negativa, ossia non professandone alcuna, ovvero, da convinto assertore della non credenza, facendo propaganda e associandosi per professare e propagandare convinzioni ateistiche. In altre parole, nella prospettazione del giudice della legge, non si tutela il sentimento che l’individuo nutra “in ordine al fatto religioso”, quale che esso sia, ma il sentimento dei soli credenti, con una palese ed irragionevole discriminazione ex art. 3 Cost., e con la contraddizione insanabile di porre il fondamento della tutela del sentimento religioso di questi ultimi proprio in “quelle disposizioni della Costituzione che riconoscono a tutti il diritto di professare come di non professare una religione”[6].
Emblematica di tale tendenza è parsa una pronunzia della Cassazione del 2005 – relativa a un caso in cui veniva contestata l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di droga a un movimento religioso i cui adepti sarebbero dediti a fare uso rituale di una bevanda stupefacente – la quale, seguendo un orientamento molto rigoroso e netto, si escluse “che il fatto potesse trovare qualche causa di giustificazione nell’esigenza di praticare un certo culto religioso o di farne opera di proselitismo perché neppure in presenza di questi fenomeni (certamente liberi e anzi tutelati) è giammai consentito lo sconfinamento nell’illecito penale”[7] . In tal modo, la Corte sembrerebbe avere incondizionatamente avvalorato l’ipotesi che ogni rivendicazione relativa al diritto di libertà religiosa troverebbe un limite insormontabile in un eventuale contrario disposto della norma penale.
Bisogna ammettere che la massima enunciata dalla Cassazione è pienamente accettabile se riferita a un assetto normativo che complessivamente rispecchi, in modo fedele e coerente, la tavola dei valori espressa dalla Costituzione. Si è visto che la libertà religiosa, per quanto tutelata al massimo delle potenzialità espansive, trova pur sempre il limite della salvaguardia dell’insieme degli altri beni e valori costituzionali con cui può entrare in conflitto: un limite che non ne dovrebbe comportare il totale sacrificio, ma una rimodulazione in funzione della tutela del bene o interesse concorrente. Ne deriva che le norme penali incriminatrici rilevano, come altrettanti limiti, all’esercizio della libertà di religione nella misura in cui rappresentino effettivamente forme di tutela di beni e interessi fondamentali dell’ordinamento che abbiano diretto innesto in valori costituzionali. Di fronte alla esplicita garanzia di un diritto fondamentale, non basterebbe a paralizzarne ogni effetto, non solo una norma penale confliggente con alcuno dei principi costituzionali, ma neppure una norma penale che non tutelasse beni costituzionalmente significativi. Nel caso invece, di norma penale che tutelasse beni avente diretto innesto in Costituzione, la massima espansione della salvaguardia della libertà di religione dovrà comunque implicarne un bilanciamento che non comporti il totale sacrificio dell’interesse concorrente.[8]
Un ulteriore parallelismo si può cogliere con la vicenda che, nel 2002, ha visto per protagonista un fedele delle Assemblee di Dio in Italia, sottoposto alla misura del soggiorno obbligato nel comune di residenza (nel quale non esistevano comunità di fedeli, né luoghi di culto appartenenti alla predetta confessione), che si è visto rifiutare dal tribunale competente l’autorizzazione, proprio per tale motivo richiesta, a recarsi “periodicamente e continuativamente” in altro comune, dove sarebbe stato invece possibili partecipare alle funzioni religiose della Chiesa pentecostale. Il provvedimento del tribunale risultava conforme alle prescrizioni della normativa di settore (art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, introdotto dall’art. 11 della legge 13 settembre 1982, n. 646, in materia di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e la pubblica moralità)[9], che consentiva l’autorizzazione all’allontanamento dal comune di residenza solo per ragioni di salute, ma è parso di dubbia costituzionalità, in rapporto alle garanzie offerte dall’art. 19 Cost. in materia di libertà religiosa. Chiamata a pronunziarsi sulla questione, la Corte Costituzionale respinse i dubbi di validità della norma[10]. Dopo aver assunto come parametro di valutazione direttamente l’art. 19 Cost., la Corte non apparve invero del tutto insensibile alle ragioni del ricorrente, sottolineando che “la sospensione degli obblighi per consentire la partecipazione periodica e continuativa a cerimonie religiose sarebbe in insuperabile contraddizione con le esigenze in vista delle quali la misura di prevenzione è adottata, sia perché l’autorizzazione dovrebbe valere in generale per tutta la durata della misura, sia perché sarebbe impossibile assicurare idonee misure di pubblica sicurezza nei luoghi di culto e durante la celebrazione di cerimonie religiose”; eppure non si può escludere – aggiungono i giudici – che “compatibilmente con le esigenze di sicurezza, l’obbligo di soggiorno possa essere fissato, in conformità con la richiesta dell’interessato, in un comune in cui esistano una comunità di fedeli e luoghi di culto e nel quale la persona sottoposta alla misura di prevenzione vada a fissare la proprio residenza”.
La sentenza appena menzionata dimostra come sia possibile trovare forme di bilanciamento tra professioni religiose e limiti posti dall’ordinamento giuridico ed ha il fine di dimostrare che anche in rapporto al kirpan potrebbe non sembrare impossibile trovare forme di accomodamento che rispettino le istanze di carattere religioso senza vanificare del tutto le esigenze di sicurezza della collettività. Basterebbe manifestare la disponibilità a portare indosso l’oggetto, privato, attraverso alcune modifiche strutturali e adattamenti delle sue caratteristiche che lo rendono assimilabile a un’arma e custodito in modo tale da impedirne la disponibilità immediata da parte di chi lo esibisce[11]. Ad oggi si ha notizia di alcuni tentativi già promossi in tal senso, essendo stata elaborata congiuntamente dai rappresentanti dei sikh e dal Consiglio scientifico incaricato di attuare la Carta dei valori della cittadinanza e dell’immigrazione un ipotesi di accordo che avrebbe consentito di superare i problemi di compatibilità del porto in pubblico dell’oggetto con i divieti sanciti dalla legislazione italiana . Nella fattispecie l’accordo prevedeva una riduzione delle dimensioni del pugnale, in modo da attenuarne anche visivamente il carattere di arma e pericolosità; inoltre la punta sarebbe stata arrotondata, la custodia lievemente decorata, e l’impugnatura ridotta al minimo fino a divenire quasi simbolica. Infine, si prevedeva una chiusa ermetica del pugnale, con una chiavetta in possesso dell’interessato. In questo modo, nessuno avrebbe più potuto mettere in dubbio che si trattava di un simbolo religioso neanche teoricamente associabile a un’arma. Progetto che purtroppo non ha mai visto la luce.
5. L’operatività della libertà religiosa come scriminante
Bisogna considerare che la libertà religiosa è, per sua natura, quella che forse più di ogni altra può dar vita a contrasti o conflitti con altri beni o valori costituzionali concorrenti. Infatti, il “sistema” o “ordine etico”, cui si rifanno le principali istituzioni fideistiche, si traduce normalmente in un ventaglio di precetti, vincolanti per il fedele, destinati ad abbracciare aspetti anche diversissimi della vita umana reale, ed è quindi molto probabile che essi entrino in conflitto con il quadro dei valori o principi sanciti, nelle più diverse materie, dalla Legge fondamentale (in quanto ritenuti essenziali per il governo della comunità civile, non meno della salvaguardia di quella libertà). Se, pertanto, dal “diritto di professare liberamente la propria fede religiosa” (espressamente sancito dall’art. 19 Cost.) si pretendesse di ricavare un diritto, praticamente incondizionato, di agire prestando adesione ai propri convincimenti religiosi, stante il suddetto tipico “contenuto totalizzante” del messaggio religioso, e quindi la sua intrinseca idoneità a entrare potenzialmente in conflitto con numerosi valori o interessi costituzionalmente protetti, bisognerebbe mettere in conto l’esito, del tutto irragionevole, di una parziale o monca attuazione dei principi della Legge fondamentale.
È, al contrario, proprio l’esigenza (implicita, ma ovvia) della salvaguardia dell’insieme, ossia della totalità, dei beni e valori costituzionali a far sì, nei casi concreti, che questi operino come altrettanti limiti esterni della libertà in parola. Ad adeguate forme di bilanciamento tra la libertà di cui all’articolo 19 Cost. e le altre esigenze e interessi concorrenti si può poi pervenire quando, di questi ultimi, la Costituzione non esiga una tutela assolutamente incondizionata, destinata in tal caso senz’altro a prevalere sull’interesse sotteso alla libertà religiosa. In presenza di beni (costituzionalmente rilevanti, ma) non dotati di tale livello di pregevolezza, si dovrebbe, invece, provare ad attuare entrambi gli interessi in conflitto, senza il totale sacrificio (l’”azzeramento”) di quello tutelato dalla norma dell’articolo 19 Cost., né di quello concorrente. Sarebbe frutto di una analisi superficiale e inesatta l’idea che l’attenzione per le esigenze di sicurezza, assunte in funzione limitativa delle libere espressioni fideistiche, si sia manifestata solo di recente e dipenda dalla diffidenza preconcetta degli occidentali verso alcune religioni e in particolare verso l’Islam.
È vero piuttosto che diversi fattori – tra i quali, in primis, il terrorismo religioso, con cui la società occidentale si è dovuta drammaticamente confrontare negli ultimi tempi, come anche il diffondersi di pratiche religiose “eccentriche” – hanno reso quanto mai attuale e vivo un dibattito fin qui confinato prevalentemente alle ipotesi teoriche o di scuola. Non è un caso che la Corte costituzionale abbia di recente ribadito, in termini molto puntuali e specifici, proprio giudicando della legittimità costituzionale della legge lombarda c.d. “anti-moschee”, che tra “gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto […] sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza”.
Ma è altrettanto vero che, sin dalla sentenza n. 27 del 1959, la stessa Corte aveva ritenuto essere “ammesso in via generale dalla Costituzione il principio di una limitazione dei diritti di libertà per le esigenze della sicurezza sociale”. Bisognerebbe, a questo punto, ricercare, di fronte alla varietà delle situazioni indotte dal crescente manifestarsi delle rivendicazioni identitarie religiosamente motivate, concrete forme di integrazione, tra la libertà religiosa e le esigenze di sicurezza, capaci di realizzare una sintesi soddisfacente e sostenibile dei rispettivi valori, al massimo delle potenzialità espansive del diritto umano fondamentale, compatibili con altrettanto irrinunciabili attività di contenimento e prevenzione di concreti pericoli per la collettività. È quanto in sostanza invita a fare la Corte costituzionale richiamando al “rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità” nel “modulare la tutela della libertà di culto”: indicazione assolutamente corretta, sebbene non sempre attuabile attraverso test che non implichino apprezzamenti di carattere sostanzialmente discrezionale.
Anche ammessa, in linea di principio, la possibilità di riconoscere efficacia scriminante alla libertà in parola, non può, del resto, sfuggire che essa sussisterebbe solo in rapporto alle facoltà garantite dalla previsione costituzionale e solo nei limiti entro cui le stesse sono giuridicamente tutelate. E se, sotto il primo aspetto, nel caso in esame – pur non venendo in gioco un atto di culto vero e proprio (vale a dire un “rito” costituente “esercizio del culto” in senso stretto, cui è sicuramente applicabile la norma costituzionale), ma piuttosto una pratica religiosa – non appare irragionevole ritenere esistente un legame sufficientemente stretto, tra motivazione e condotta, da rintracciarvi le caratteristiche di “atto di professione della fede” tutelato dal primo inciso della disposizione, dal punto di vista dei limiti, non è, invece, seriamente dubitabile che le norme penali in questione siano dettate a tutela della sicurezza della collettività e della incolumità delle persone e trovino, quindi, diretto innesto in un bene o interesse, come si è visto più sopra, riconosciuto senz’altro idoneo dalla Costituzione a contenere la capacità espansiva del diritto di libertà religiosa[12].
Nella sempre più crescente società multiculturale e multiconfessionale odierna innumerevoli sono i casi in cui l’osservanza di dati precetti confessionali collide con il rispetto dell’ordinamento penale statale: si tratta dei noti conflitti di lealtà, posti in essere da soggetti legati parimente sia da regole di carattere etico-religiose che da norme giuridiche cogenti.
Quindi delicato risulta il rapporto tra normativa penale, motivo religioso e libertà religiosa stessa: infatti l’ordinamento italiano, in presenza di un contrasto tra comportamento religioso e comando penale, non attribuisce al fedele un diritto incondizionato di professare liberamente la propria fede.
Alla luce del sempre più incalzante pluralismo religioso, dunque, numerosi sono stati i casi in cui un dato reato sia stato determinato da motivo o movente religioso: secondo una definizione formale ed analitica, per reato determinato da motivo religioso (o reato religiosamente orientato) si intende “qualunque fatto che viene vietato giuridicamente sotto minaccia di una pena criminale, ma che viene compiuto in vista di sanzioni o remunerazioni trascendentali al fine di obbedire ed accattivarsi il favore della potenza sovraumana in un’ottica di subordinazione a tale potenza”.
Fondamentale è la distinzione tra reato oggettivamente religioso e reato determinato da movente religioso: il primo è un fatto illecito, avente un motivo di qualsiasi natura, che lede un dato bene religioso; il secondo, invece, trova la sua causa nella religione professata dal soggetto agente. Prendendo a prestito una distinzione terminologica elaborata per il reato politico, parte della giurisprudenza rinomina il primo fatto illecito quale “reato religioso improprio (o soggettivamente religioso)”, in contrapposizione al secondo denominato “reato religioso proprio”.
Il motivo religioso viene escluso quando la religiosità costituisce solo un mascheramento d’una motivazione di altra natura, essendoci quindi un fine secondario da raggiungere tramite l’attuazione della fattispecie principale; oppure quando l’elemento religioso rappresenta solo un pretesto, sussistendo sì l’ideale religiosa ma con un fattore determinante diverso.
In nessun sistema giuridico il motivo religioso può essere assunto come scriminante di applicazione generale in quanto, ad eccezione degli ordinamenti confessionali, legittimare l’atto criminoso per il motivo religioso comporta una subordinazione netta dell’ordinamento giuridico statale.
Il motivo può, invece, scriminare legittimamente il reato in determinate singole fattispecie che vengono ricondotte nei limiti previsti dall’art 52 c.p., qualora – quindi – si atteggi come impulso a difendere la propria religione: esempi validi sono l’imposizione della mano sulla bocca del bestemmiatore oppure l’allontanamento del profanatore dal tempio.
Nonostante ciò, in innumerevoli ordinamenti il motivo religioso assume valore di esimente rispetto a singole e determinate fattispecie di reato: ad esempio in Inghilterra, in ragione dello scopo, non sono considerate come illegali alcuni “club e società formate per fini religiosi e caritatevoli”; in altre legislazioni straniere addirittura il motivo religioso può giustificare il rifiuto di prestare giuramento. Contro tale posizione è intervenuto il Parlamento Europeo raccomandando più volte agli stati di respingere simili atteggiamenti di tolleranza o giustificazione quando il delitto viene commesso in ossequio a convinzioni religiose.
Per quanto riguarda la possibilità della valutazione del motivo religioso quale aggravante o attenuante della pena, negli ordinamenti teocratici e confessionali il reato improprio riceve una valutazione differenziata a seconda del credo che motiva il gesto: se tale religione è quella di Stato è possibile la legittimazione del motivo quale attenuante; viceversa il motivo sarà qualificato come contrastante con i principi morali e sociali dell’ordinamento in questione e, di conseguenza, designato quale aggravante comune o specifica.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano il codice penale non menziona espressamente il motivo religioso tra le circostanze aggravanti o attenuanti, dovendosi determinare caso per caso, con un’analisi di fatto, il rilievo della data motivazione quale circostanza del reato. Restano così esclusi dall’ambito di operatività della scriminante i reati offensivi di beni di elevato rango costituzionale[13], essendo questi destinati inesorabilmente a prevalere rispetto alla libertà culturale, come ci insegna la corposa giurisprudenza in merito alla libertà religiosa, che rappresenta nient’altro che una species del genere più ampio “cultura”[14] . Tuttavia, l’art. 51 c.p. presenta una funzionalità maggiore in relazione a quei reati, spinti dal fattore culturale, che non offendono beni giuridici di rilievo fondamentale o che, pur in astratto dotati di un forte disvalore, manifestano in concreto una scarsa carica di lesività.
Finora abbiamo analizzato fattispecie di reato che, per loro natura originaria o per la loro interpretazione, inquadrano comportamenti permessi, tollerati o inculcati da culture minoritarie, deducendo da ciò una certa propensione assimilazionista dell’ordinamento italiano, pur in un contesto generale di ibridazione dei modelli.
Nonostante, dunque, il riconoscimento del diritto alla cultura come diritto costituzionalmente tutelato, non bisogna dimenticare che l’art. 51 c.p.[15] veicola diritti non assoluti, ma limitati sia in via interna che in via esterna. I limiti interni riguardano la definizione stessa del diritto ed entrano in gioco quando, come nel caso che ci interessa, la norma scriminante riconosce genericamente un diritto senza descrivere le condotte rese lecite. Viene affidato all’interprete il compito di circoscrivere l’estensione materiale del diritto stesso e, in questo accertamento, la delimitazione dei limiti interni spesso si confonde con quella dei limiti esterni, ovvero controinteressi di rilievo superiore o pari, quand’anche concretizzati in norme incriminatrici che, in quanto leggi ordinarie, riposano su un grado gerarchico inferiore rispetto a quello costituzionale. Strettamente connesso a ciò è il tema relativo all’abuso del diritto: l’attività realizzata, in ipotesi coincidente con un reato, deve essere una corretta estrinsecazione delle facoltà desunte dal diritto. Non basta il mero fine di esercitare il proprio diritto per rendere lecita l’azione, ma occorrerà un’analisi oggettiva circa la reale funzionalità di una condotta all’espletamento di tale diritto. Tenendo presente tali criteri, si ritiene che la scriminante dell’esercizio del diritto possa esprimere una soluzione condivisibile benché parziale per i reati culturalmente orientati, in via generale e sussidiaria rispetto alla contingente presenza nel caso concreto di altre forme di esclusione lato sensu della punibilità.
6. Il caso particolare del sikhismo
La libertà religiosa, come già ribadito più volte, è sicuramente quella che più di ogni altra si presta a generare conflitti con altri beni e valori costituzionalmente concorrenti, proprio perché l’ordine morale cui si rifanno le principali confessioni religiose si traduce generalmente in una serie di precetti vincolanti per il fedele che coinvolgono i più diversi aspetti della sua vita umana. Sulla base di queste considerazioni è quindi possibile comprendere per quali ragioni i Paesi europei siano animati da molti anni da un vivace dibattito circa l’opportunità di esibire i simboli religiosi negli spazi pubblici e sul valore, pubblico o privato, che deve essere assegnato al fenomeno religioso negli ambienti istituzionali.
Il bilancio di quasi vent’anni di dibattito su questi temi si riassume nelle due distinte dimensioni in cui è stata affrontata la questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico europeo e che ha visto, da un lato, quella dell’uso personale di simboli o indumenti con tale valenza con cui la persona manifesta la propria specifica appartenenza confessionale (il velo delle donne islamiche, il turbante o pugnale dei Sikh, i crocifissi portati al collo, la kippah ebraica), e dall’altro, quella dei simboli religiosi collettivi tra cui, con tutta evidenza, l’ormai noto caso del kirpan portato dal fedele sikh.
Il problema se tenere indosso il kirpan configuri o meno il reato di porto abusivo di armi o comunque di oggetti pericolosi non si è certo posto solo in Italia, tant’è che in taluni Paesi — tra i quali, ad esempio, il Regno Unito e alcuni Stati dell’Australia quali il Queensland e il Victoria — ormai da vari decenni sono state varate norme permissive ad hoc. In molti altri Paesi, poi, specialmente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, la giurisprudenza ha avuto modo di affrontare a più riprese tale questione facendo ricorso a una pluralità di approcci, ma comunque nella massima parte dei casi scegliendo di non punire tale condotta. Così, per esempio, in una sentenza pilota del 1989 emessa dalla Criminal Court di New York, i giudici riconobbero l’astratta riconducibilità del fatto in oggetto al reato di Possession of knives or instruments, ma al contempo optarono per la sua archiviazione, in quanto a loro avviso la prosecuzione del processo non sarebbe andata “a beneficio della giustizia” e non sarebbe servita “ad alcuna finalità utile”.
Ulteriori, analoghi casi negli Stati Unitisi sono conclusi con l’assoluzione dell’imputato, e addirittura in Canada la Corte Suprema ha esplicitamente riconosciuto ai ragazzi sikh il diritto di portare a scuola il loro pugnale. Anche nella maggior parte dei Paesi europei (ad esempio, in Germania e in Olanda) il porto del kirpan risulta, almeno sinora, generalmente consentito. Non è chiaro quanto il succitato approccio tollerante sovente riscontrabile anche in Stati a noi vicini abbia influenzato i giudici italiani. È peraltro inconfutabile che rispetto al kirpan la nostra giurisprudenza di merito abbia manifestato, quantomeno in un primo momento, un atteggiamento di prevalente indulgenza. Quando infatti, nel primo decennio del nuovo secolo, anche nel nostro Paese il kirpan è entrato nelle aule dei tribunali penali, i suoi portatori sono il più delle volte usciti assolti: vuoi perché il movente religioso alla base del porto di questo particolare coltello è stato considerato configurare quel “giustificato motivo” in presenza del quale, ai sensi dell’art. 4 comma secondo della legge 18 aprile 1975 n. 110 a disciplina delle armi, è lecito portare fuori della propria abitazione un’arma impropria; vuoi perché a tale movente è stato attribuito un effetto scriminante ai sensi dell’art. 51 c.p., integrando una ipotesi di esercizio del diritto di professare liberamente la propria religione; vuoi, infine, perché al kirpan sono state attribuite caratteristiche oggettive tali da essere considerato inidoneo all’offesa, e dunque non riconducibile nemmeno nel novero delle armi improprie. Solo a partire dall’inizio del secondo decennio del nuovo secolo le pronunce di alcuni giudici di merito si sono dimostrate più rigoristiche, tant’è che sia il Tribunale di Latina, sia quello di Mantova hanno considerato vietato il porto del kirpan al di fuori della propria abitazione, condannando coloro che lo indossavano.
Anche in tale ultimo periodo, tuttavia, questo più severo orientamento giurisprudenziale non è divenuto egemone, risultando al contrario inframezzato da pronunce nelle quali l’assoluzione dell’imputato veniva motivata riconoscendo sia la sussistenza del “giustificato motivo” derivante dall’appartenenza alla religione sikh, sia la sostanziale innocuità del coltello rituale. Per parte sua, pur con taluni distinguo qui inutili da riproporre nei dettagli, la dottrina italiana si era espressa pressoché all’unanimità a favore dell’approccio “indulgenziale” manifestato dalla maggioranza dei giudici di merito. Nel nostro Paese, l’inizio del nuovo secolo aveva coinciso con la presa di coscienza del montante “multietnicismo” delle società occidentali, con una accresciuta attenzione verso le politiche “multiculturali” di taluni Paesi guida dell’esperienza giuridica e con il conseguente riconoscimento del “fattore culturale” quale possibile causa financo di esclusione dell’illiceità penale. In questo complessivo quadro, la mancata conoscenza di casi in cui il pugnale sacro fosse stato usato alla stregua di un’arma aveva indubbiamente favorito un atteggiamento benevolo verso quei condizionamenti culturali e religiosi che inducono i sikh a non separarsi mai dal proprio pugnale; e le poche sentenza di condanna (peraltro a pene miti e talora sospese) venivano considerate come prese diposizione improntate a un rigorismo poco in linea con la tolleranza e con il tradizionale spirito di accoglienza propri del nostro Paese, dunque come espressive di un orientamento minoritario destinato a non trovare ulteriore seguito[16].
Rimanendo fermi sull’ordinamento italiano, è sufficiente ricordare l’art. 2 della Costituzione, che esprime il carattere pluralista della nostra democrazia e riconosce il ruolo delle formazioni sociali nello sviluppo della personalità dell’individuo; e ancora, più specificamente, l’art. 8 della Carta, che proclama, al comma 1, tutte le confessioni religiose “egualmente libere davanti alla legge”, esprimendo così quel principio del pluralismo confessionale che è strettamente connesso con la garanzia del diritto di libertà religiosa di ognuno. Un pluralismo, quello confessionale e culturale, che secondo la storica sentenza n. 203 del 1989 della Corte Costituzionale[17], è persino costitutivo del “regime” ordinamentale da cui è stato desunto il principio supremo di laicità, e che proprio della laicità non può che essere la luce interpretativa di riferimento per una lettura in chiave democratica[18].
La diversità culturale transita così da elemento discriminatorio – quale storicamente è stato nel passato – a mezzo di inclusione sociale al fine di riequilibrare, con azioni appositamente mirate, la condizione minoritaria di determinati gruppi sociale.
Il grande dilemma, sorto anche in altri casi e in altri paesi, è se debba prevalere l’interesse pubblico oppure la libertà religiosa dei singoli. Ricordiamo che la maggior parte dei paesi hanno risolto il problema modificando la legge. L’Inghilterra, per esempio, dove è presente un’ampia comunità di sikh, ha una legge speciale che autorizza questi credenti a portare il pugnale rituale. Negli Stati Uniti e in Canada sono state emesse delle sentenze che fanno prevalere il principio della libertà religiosa sull’ordine pubblico e la sicurezza. Nell’Europa continentale invece c’è una giurisprudenza costante che dà la precedenza all’interesse dello Stato.
L’Italia invece, dice Introvigne (sociologo e saggista italiano), ospita la seconda comunità sikh più grande d’Europa, dopo il Regno Unito: “Secondo alcune stime, sono circa 60.000 i fedeli nel nostro paese. Abbiamo avuto una forte ondata immigratoria di sikh dovuta soprattutto al loro impiego nell’agricoltura, in cui si sono mostrati molto abili ed efficienti. Alcuni imprenditori raccontano per esempio che un agricoltore sikh munge sei mucche nello stesso lasso di tempo in cui un italiano ne munge una”. Abitano soprattutto nelle città della pianura padana, infatti “i tre templi principali al di fuori dell’India si trovano a Novellara (inaugurato dallo stesso Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione europea), nel Cremonese e nel Bresciano”. Davanti a questi numeri, sostiene Introvigne, lo Stato deve quindi porsi il problema di come gestire, anche a livello di normative, questa integrazione. Introvigne rileva inoltre che “in 28 milioni di sikh nel mondo, sono pochissimi i casi in cui un fedele abbia usato il proprio coltello in maniera offensiva. Il portarlo appeso alla cintura ha solo un significato rituale”. Personalmente è convinto che “tra il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa deve sempre prevalere il primo. Ma per quanto questo caso sia al limite, credo che la soluzione sia adottare delle leggi ad hoc che tutelino questa minoranza religiosa. Come abbiamo fatto delle leggi speciali per i musulmani che consentono la macellazione halal (da noi illecita perché va contro le nostre norme igieniche e le nostre pratiche a tutela degli animali), allo stesso modo si potrebbe pensare a nuove leggi per i sikh”.
[1] Articolo 9 – Libertà di pensiero, di coscienza e di religione: “Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti.
La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.
[2] La lettura del giustificato motivo in un’ottica multiculturale, sia nel caso dell’art. 5 della legge Reale sia a proposito della normativa sul porto d’armi, fa di questo elemento normativo un veicolo di autoresponsabilizzazione, senza imposizioni paternaliste: il soggetto ha la possibilità di realizzare se stesso e la propria identità, dovendo in cambio comportarsi in maniera conforme all’ordinamento (ad es. evitando di rendere difficoltoso il riconoscimento da parte degli agenti addetti). Sembra un modus operandi improntato ad una dialettica e ad un giusto contemperamento tra il riconoscimento del fattore culturale e la tutela delle esigenze della società; il che getta le basi per una migliore e spontanea adesione ai valori espressi dall’ordinamento giuridico.
[3] Il porto del kirpan è solo un ulteriore caso di abbigliamento rituale potenzialmente integrante una fattispecie di reato. Nei casi giurisprudenziali in proposito è stata sostenuta la natura del kirpan quale semplice coltello, e non arma bianca, come tale non intrinsecamente e univocamente teso ad offendere; secondariamente, è stato ritenuto che l’utilizzo di questa arma impropria possa essere finalizzato ad un uso legittimo rappresentato dalla finalità culturale, integrante il giustificato motivo, come interpretato nel caso concreto. Da notare che in tali casi il verificarsi del giustificato motivo ha escluso già la realizzazione del fatto tipico. Cfr. Tribunale di Cremona, sentenza 19 febbraio 2009, n. 15, Singh. Il caso rappresenta anche un primo tentativo di procedimentalizzazione dell’accertamento giudiziale dei reati culturalmente motivati, come auspicato dalla dottrina dominante: il giudice ha dapprima perimetrato il gruppo etnico di riferimento (i sikh); secondariamente ha analizzato, o meglio, spiegato, il motivo culturale, depurandolo da presunte influenze psicologiche proprie dell’autore e argomentando la coincidenza di reazione, ovvero il risvolto oggettivo della motivazione. Infine, ha confrontato il divario esistente tra la cultura minoritaria e quella espressa dall’ordinamento, cercando una soluzione ragionevolmente conforme.
[4] F. Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati ;Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 30 del 2018.
[5] Corte cost., sentenza n. 188 del 1975: “Il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20”.
[6] G. Casuscelli, Appartenenze/credenze di fede e diritto penale: percorsi di laicità; Rivista Telematica (www.statoechiese.it) Novembre 2008.
[7] Cass. pen., sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 44227
[8] A. Licastro, op. cit.
[9] Si veda, ora, l’art. 12 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggo antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).
[10] Corte Cost., sent. n. 309 del 2003.
[11] Vale la pena di ricordare che uno degli elementi che concorre a definire il concetto stesso di “porto” (di oggetto atto a offendere), nel significato assunto dall’art. 4, secondo comma, della legge n. 110 citata, è proprio la disponibilità immediata di utilizzo dell’oggetto stesso.
[12] A. Licastro; Il motivo religioso non giustifica il porto fuori dell’abitazione del kirpan da parte del fedele sikh (considerazioni in margine alle sentenze n. 24739 e n. 25163 del 2016 della Cassazione penale), Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 1/2017.
[13] C. De Maglie, I reati culturalmente motivati: ideologie e modelli penali, Pisa, 2010, 209. Si è soliti definire questo atteggiamento come «dottrina dello sbarramento invalicabile»: i diritti fondamentali dell’individuo e il principio di eguaglianza impongono un rifiuto netto rispetto alla possibilità di sovvertire i risultati conseguiti dalle democrazie occidentali. Cfr. Cass. pen., sent. 16 dicembre 2008, n. 46300.
[14] F. Viganò, sub art. 51 c.p., in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini – G. Marinucci, II, 2ª ed., Milano, 2006, 553. La libertà religiosa non può essere limitata alle sole facoltà di professione, propaganda e culto, ma deve estendersi alla libertà di coerenza pratica, ovvero di vivere secondo le proprie credenze. In quest’ottica i limiti in questione sono essenzialmente esterni, ovvero sono rappresentati da interessi prevalenti nell’ottica del bilanciamento.
[15] “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità.
Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine.
Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo.
Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”.
[16] A. Bernardi, Populismo giudiziario? L’evoluzione della giurisprudenza penale sul Kirpan; Rivista Italiana di Diritto e Procedura penale, Fasc. 2/2017.
[17] Corte Cost., n. 203/1989. Cfr. anche Corte Cost., n. 440/1995, in cui la Consulta ha ricordato che nella nostra comunità nazionale devono “convivere fedi, culture, tradizioni diverse”, nonché Corte Cost., n. 63/2016, richiamata anche dalla Cassazione nella sentenza qui annotata, in cui si ritrova un’ulteriore sottolineatura del “regime di pluralismo confessionale e culturale” delineato dalla nostra Costituzione.
[18] J. Pasquali Cerioli, La laicità nella giurisprudenza amministrativa: da principio supremo a “simbolo religioso”, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica, marzo 2009, p. 9.
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Sara Saggese
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