Può configurarsi il reato continuato nonostante vi sia aberratio ictus?
È il quesito posto all’attenzione della Suprema Corte di Cassazione, che, con la recentissima sentenza n. 4119 del 28 gennaio 2019 è intervenuta, nuovamente, sull’applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva.
La pronuncia trae origine dall’istanza di un condannato di vedersi riconosciuta l’esistenza del nesso di continuazione tra vari omicidi consumati durante la partecipazione ad un clan mafioso, oggetto di sentenze già divenute irrevocabili. Il giudice dell’esecuzione, di contro, esclude la sussistenza dell’unicità del disegno criminoso tra i vari delitti commessi. Le ragioni di tale diniego risiedono in due diverse considerazioni. Innanzitutto, il primo degli omicidi compiuti risulta molto più grave rispetto agli altri. In secondo luogo, alcuni di questi delitti sono stati compiuti a danno di persona diversa da quella originariamente prefigurata e, dunque, non possono costituire oggetto di un’originaria ideazione, insorta al momento dell’adesione al sodalizio, quanto piuttosto un’azione criminosa del tutto occasionale.
Avverso tale ordinanza, veniva proposto ricorso per Cassazione, deducendo l’illogicità della motivazione riguardo al disconoscimento della continuazione rispetto al primo omicidio, nonché l’erronea applicazione dell’articolo 81 c.p. in relazione all’ipotesi dell’aberratio ictus per i restanti delitti.
LA CONTINUAZIONE NEI REATI ASSOCIATIVI
La questione che si sottopone all’esame della Corte di Cassazione richiede una preventiva analisi circa l’applicazione del reato continuato alle fattispecie associative. Tale tema, di per sé, pone svariate problematiche, dal momento che i due istituti ricoprono finalità completamente differenti.
Difatti, la ratio dei reati associativi è tipicamente repressiva, dal momento che rivestono l’esigenza di eliminare il pericolo che vengano commessi i reati oggetto del progetto criminoso, anticipando, così, l’intervento penale. Pertanto, é punibile tanto colui che si associa al fine di commettere più delitti, oggetto di un indeterminato programma criminoso, quanto chi li realizza concretamente, con conseguente aggravio del carico sanzionatorio.
Invece, secondo quanto disposto dall’articolo 81[1], il reato continuato si realizza quando un soggetto con più azioni [2] od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette, anche in tempi diversi, una pluralità di reati. In considerazione del vincolo della continuazione [3], si riconosce un trattamento sanzionatorio più mite, prevedendo l’applicazione del cumulo giuridico delle pene anziché di quello materiale [4]. La scelta di un diverso trattamento sanzionatorio trova la sua ratio, piuttosto che nel diverso grado di offensività della pluralità di condotte, nella minore pericolosità sociale di chi, pur commettendo molti reati, cede una tantum ai motivi per delinquere, così ribellandosi una sola volta alle disposizioni del codice penale.
Pertanto, occorre valutare se sia, concretamente, possibile l’applicazione dell’articolo 81 c.p. alle fattispecie associative. A tal fine, è necessario distinguere tra l’ipotesi della continuazione tra il reato associativo e i vari reati-scopo [5] (cd. verticale) e quella fra i vari reati-scopo (cd. orizzontale).
Sull’unicità del disegno criminoso esistente tra i vari reati scopo e il delitto di associazione a delinquere, la giurisprudenza non ha mai assunto un orientamento costante. Inizialmente, era stata completamente esclusa la configurabilità del vincolo della continuazione dal momento che il reato di associazione a delinquere è caratterizzato da un generico programma di attività delinquenziale, mentre nel reato continuato occorre che il soggetto abbia preveduto “ab origine” tutte le azioni od omissioni nei loro elementi essenziali (Cass. Pen., 22 marzo 2011, n. 13609; Cass. Pen., 6 dicembre 1988, n. 17416; Cass. Pen., 6 maggio 1987, n. 7811). Di contro, la giurisprudenza più recente ritiene che vi sia piena compatibilità del vincolo della continuazione tra reato associativo ed i singoli reati scopo, qualora l’agente, all’atto della costituzione o dell’adesione all’organizzazione criminale, abbia già ideato l’iter criminoso da percorrere ed i singoli delitti attraverso cui il sodalizio è destinato ad esplicarsi (Cass. Pen., 9 novembre 2017, n. 1534; Cass. Pen., 4 luglio 2013, n. 40318; Cass. Pen., 19 febbraio 2010, n. 8603; Cass. Pen., 21 gennaio 2009, n. 8451; Cass. Pen., 16 aprile 2007, n. 24750; Cass. Pen., 12 maggio 2006, n. 35797; Cass. Pen., 17 novembre 2005, n. 46576).
Diversa è la questione relativa alla sussistenza del medesimo disegno criminoso tra i vari reati-scopo di una medesima associazione a delinquere. In tal caso, è ammessa, da tempo, la continuazione tra i vari delitti, alla cui realizzazione l’associazione a delinquere è preordinata, qualora, ovviamente, gli stessi siano stati preventivamente ideati (Cass. Pen., 5 febbraio 1986, n. 1311; conf: Cass. Pen., 10 marzo 1982, n.7758).
Ciò premesso, la Suprema Corte di Cassazione rileva che la motivazione del provvedimento impugnato risulti alquanto carente, derivandone, dunque, un vizio di legittimità. Difatti, il giudice dell’esecuzione aveva motivato il rigetto dell’istanza, rispetto al primo omicidio, con riferimento all’insussistenza della continuazione “verticale”, diversamente da quanto espressamente richiesto dal condannato di vedersi riconosciuto tale nesso soltanto tra i reati scopo e non con il delitto di cui all’art. 416 bis del codice penale.
CONTINUAZIONE E ABERRATIO ICTUS: QUID EST VERITAS?
Non ricorrendo orientamenti contrastanti in merito alla continuazione tra i vari reati fine di una medesima associazione a delinquere, più problematica risulta l’applicazione della continuazione al caso in cui uno dei reati commessi abbia esito aberrante ex articolo 82 del codice penale.
Trattasi di una peculiare ipotesi in cui, l’autore di un reato, anziché ledere il bene giuridico di un soggetto cui l’offesa era diretta, offende lo stesso bene ma di un altro (cosiddetta “aberratio ictus monolesiva[6]“). L’evento diverso non è assolutamente voluto dall’agente, né direttamente né indirettamente (altrimenti ricorrerebbe il differente istituto del concorso materiale di reati) e il fatto illecito si realizza soltanto in ragione dell’errore che viene ad incidere nella fase esecutiva del reato, ossia quando vi è difformità tra lo sviluppo dell’avvenimento preveduto e quello concretamente verificatosi. Tale divergenza pone il problema di capire a che titolo l’agente risponda dell’evento diverso. In effetti, secondo il diritto penale costituzionalmente orientato, è indispensabile che ciascuno degli elementi della fattispecie penale sia soggettivamente ascrivibile all’agente (cioè sia investito del dolo e della colpa). Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione attribuisce la responsabilità per la parte di fatto non voluta a titolo di dolo, mediante una traslazione normativa dell’elemento psichico dal fatto per cui l’offesa è diretta, verso quello, poi, ottenuto concretamente (Cass. Pen., 6 aprile 2006, n.15990; Cass. Pen., 1 luglio 1994, n. 7649; Cass. Pen., 5 giugno 1988, n. 8353; Cass. Pen., 28 luglio 1984, n. 6869). In sostanza, sussiste, ugualmente, il dolo nei confronti della persona offesa per errore, dal momento che l’esito divergente dell’azione posta in essere non altera la direzione della volontà del soggetto agente.
Tale impostazione risulta coerente con altre due considerazioni operate sempre della giurisprudenza di legittimità della Suprema Corte in materia di reato aberrante. La prima attiene alla piena compatibilità di tale istituto con l’aggravante soggettiva della premeditazione, non rientrando nell’alveo delle circostanze attinenti le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra autore e vittima (Cass. Pen., 22 gennaio 2007, n.1811). La seconda, invece, riguarda la configurabilità del concorso morale, nell’omicidio di persona diversa da quella originariamente prefigurata, di colui che non abbia materialmente eseguito il fatto, dal momento che l’errore esecutivo non ha incidenza sull’elemento soggettivo del partecipe morale (Cass. Pen., 8 settembre 2014, n.38549).
Alla luce di tali osservazioni, dunque, la Corte rileva che non vi è alcun motivo ostativo alla configurabilità del reato continuato, qualora uno dei reati, facenti parte dell’ideazione originaria dell’agente, abbia, poi, un esito aberrante, in quanto solo per mero errore esecutivo l’evento si è realizzato a danno di una persona diversa rispetto a quella originariamente prefigurata. Difatti, tale circostanza non inficia l’elemento psicologico richiesto per la sussistenza della continuazione del reato (ossia l’aver già previsto e programmato tutte le diverse azioni od omissioni), il quale, piuttosto, rimane invariato e non subisce alcuna modifica per il solo fatto che la condotta si sia realizzata a danno di soggetto diverso.
In conclusione, il medesimo disegno criminoso deve essere valutato alla luce del momento ideativo iniziale dell’azione delittuosa e non con riguardo ai soggetti materialmente lesi, motivo per cui il ricorso del condannato non può che essere accolto.
[1] La formulazione originaria dell’articolo 81 c.p. prevedeva che la continuazione potesse realizzarsi solamente tra più reati omogenei, ossia delitti disciplinati dalla stessa fattispecie penale incriminatrice. Nel 1974, però, il legislatore modifica tale disposizione, ampliandone l’ambito applicativo anche al reato continuato eterogeneo, cioè tra reati previsti da più fattispecie incriminatrici.
[2] La norma, dunque, disciplina una peculiare ipotesi di concorso materiale di reati, commessi dalla stessa persona, alla cui base risiede l’unicità del disegno criminoso.
[3] Con riferimento alla sua nozione, non esiste, nel codice penale, una disposizione che possa fornire una corretta definizione. Pertanto, secondo giurisprudenza ormai consolidata, deve ritenersi che il medesimo disegno criminoso sia un requisito di natura psicologica, secondo cui l’autore deve aver già previsto le diverse azioni od omissioni “ab origine” e nei loro elementi essenziali (Cass. Pen., 17 novembre 2015, n. 896; Cass. Pen., sez. I, 5 novembre 2014, n. 45908). In altri termini, l’unicità del disegno criminoso sussiste soltanto quando la decisione di commettere i vari reati sia stata presa dall’agente in un momento precedente la consumazione del primo e sia estesa a tutti gli altri, già programmati nelle loro linee generali.
[4] La differenza tra i sistemi di computo della pena è alquanto rilevante: il cumulo materiale prevede che saranno irrogate tante pene quanti sono i reati commessi (tot crimina tot poenae); di contro, il cumulo giuridico comporta l’applicazione della pena prevista per il reato più grave, aumentata fino al triplo.
[5] Per “reati-scopo” (o anche detti “reati fine”) s’intende quell’insieme indeterminato di fattispecie criminose, che danno esecuzione al programma dell’organizzazione criminale.
[6] Differisce dall’aberratio ictus “plurilesiva”, che ricorre ogniqualvolta l’agente offenda non solo la persona diversa, ma anche la prima a cui l’offesa era intenzionalmente diretta.
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Serena Anna Mormile
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