Quando la condotta dello psichiatra diventa un abbandono penalmente rilevante
Suprema Corte di Cassazione, sezione I, sentenza 2 settembre 2015, n. 35814
Negli ultimi anni la psichiatria si conferma la branca medica di maggior interesse in ambito penalistico.
Ciò deriva non solo dal crescente allarme sociale, dovuto al proliferare di episodi criminosi derivanti da atti auto od eterolesivi posti in essere da pazienti affetti da morbilità psichiatrica, ma anche dall’imprevedibilità delle patologie psichiatriche, caratteristica che mal si concilia con gli istituti classici della teoria generale del reato, indispensabili per ancorare un’eventuale responsabilità in capo a tale specialista.
Sono queste le premesse di fondo sulle quali si inserisce la recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 35814/2015, la quale fornisce, senza dubbio, nuova linfa all’acceso dibattito e permette una ricognizione dei contenuti specifici che devono assumere gli istituti di diritto penale correlati affinché possa addebitarsi a tale specialista una responsabilità per il delitto di cui all’art. 591 c.p. (Abbandono di persona incapace), semplice o aggravato.
La ravvisabilità di tale delitto non è da sottovalutare, specie per chi opera quotidianamente con “soggetti deboli”, in quanto non deve sfuggire che nell’ipotesi di contestazione alternativa dei delitti di cui all’art. 591 c.p., aggravato, e del 589 c.p., il primo è sicuramente più grave del secondo, prevedendo, infatti, una pena detentiva massima di 8 anni, contro i 5 dell’omicidio colposo.
Prima, però, di addentrarsi nelle questioni di diritto è bene partire dal fatto su cui è intervenuta la Corte di legittimità, che, apparentemente banale, vede un paziente psichiatrico in ricovero presso una casa di cura “aperta” (struttura caratterizzata dal fatto di permettere ai pazienti una libera uscita, essendo a loro disposizione i meccanismi di apertura delle porte di ingresso, senza l’ausilio di portieri o vigilanti, ma solo di videocamere di sicurezza) che si dà alla fuga e perde la vita.
Tale tragica vicenda viene imputata inizialmente al responsabile del reparto psichiatrico e al coordinatore infermieristico e, indipendentemente dal caso di specie, conclusosi negativamente a causa dell’intervenuta prescrizione della fattispecie contestata, la sentenza in esame motiva proficuamente circa la sussistenza della responsabilità penale del primo soggetto in rapporto al delitto di abbandono d’incapace, con la conseguente permanenza degli obblighi civili di risarcimento del danno.
Primariamente, rispetto alla condotta di abbandono, la stessa si assume come realizzata nel caso di specie, dovendosi intendere per tale, anche alla luce dei costanti orientamenti della stessa Suprema Corte, non più solo il necessario allontanamento dal soggetto incapace, che presuppone necessariamente una condotta attiva, bensì qualunque azione od omissione in contrasto con il dovere generale di custodia gravante sul soggetto, da cui deriva uno stato di pericolo per il soggetto, anche meramente potenziale (Cass., Sez. V, 2149/2014; Cass., Sez. II, 10994/2012), con la fondamentale conseguenza che risulta ininfluente il fatto che garante e soggetto sottoposto a custodia si trovino fisicamente nello stesso luogo.
Ecco, allora, che, sommando gli elementi di fatto emersi durante l’istruttoria (tentativi di scavalcare il balcone nei giorni precedenti, momenti di psicomotricità alternata, perdita del paziente nella struttura) si ottiene l’abbandono rimproverabile al medico psichiatra di turno presso la struttura, consistito, quindi, nell’omessa sorveglianza di un soggetto patologico a rischio di fuga, assegnato alla sua custodia e nella mancata adozione di misure idonee ad impedirne l’allontanamento clandestino dalla struttura.
Tali condotte hanno comportato che lo stesso fosse lasciato in balìa di se stesso, esponendolo, infine, ad una situazione di pericolo, in questo caso rivelatasi concreta.
Presupposto logico per l’applicazione della fattispecie di cui all’art. 591 c.p. è la sussistenza, in capo al medico, di una posizione di garanzia, rispetto alla quale la Corte di Cassazione assume una rigida posizione, affermandone l’esistenza e chiarendone il contenuto.
In particolare, oltre a riaffermare la validità della “teoria del garante”, quindi la presenza in capo a particolari soggetti di un dovere giuridico di impedire l’evento in virtù di uno speciale vincolo che fa sì che il garante protegga un bene giuridico di un altro soggetto, incapace di tutelarlo da solo, la stessa ha elencato, destando alcune perplessità, le fonti da cui l’obbligo di garanzia nascerebbe: indifferentemente la legge, il contratto, una situazione precedente o, come nel caso giudicato, la situazione di fatto, consistente, ad esempio, nell’esercizio del turno di lavoro dentro la struttura.
Rispetto, invece, al contenuto del dovere giuridico, questo deve essere dedotto attraverso l’analisi delle finalità protettive e dei beni giuridici coinvolti. In questo senso, allora, proprio in vista della tutela a cui mira la fattispecie contestata, cioè la sicurezza della persona fisica verso situazioni di pericolo, ricade sullo psichiatra l’obbligo di garanzia di sorvegliare il paziente a rischio di fuga, essendo egli l’unico dotato dei poteri decisionali necessari per impedire l’evento, situazione da cui scaturisce il pericolo verso l’integrità fisica dell’incapace.
Continuando, ulteriore spunto di riflessione concerne l’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione della fattispecie in esame.
Il delitto di abbandono di persona incapace, infatti, in ossequio al granitico orientamento della Suprema Corte, richiede il dolo generico, consistente nella coscienza di abbandonare il soggetto passivo, che non ha la possibilità di provvedere a se stesso, in una situazione di pericolo per la sua integrità fisica, percepita dal garante (Cass. Sentenze n. 15147/2007; 10994/2012; 2149/2014).
Il garante, quindi, è responsabile per non essersi attivato per impedire l’evento di cui aveva l’obbligo giuridico di impedire, in questo caso, per non aver predisposto misure idonee ad impedire la fuga di soggetto patologico.
Infine, rispetto alla configurabilità dell’aggravante di cui al comma 3 dell’art. 591 c.p., la pronuncia assume la presenza del nesso causale tra l’abbandono del soggetto incapace e la morte dello stesso quale elemento indefettibile per l’applicazione della circostanza, non essendo sufficiente la provata incapacità a sopravvivere a lungo del soggetto senza l’apposita terapia, cura e assistenza continue, ma dovendosi applicare i consueti criteri rispetto all’accertamento del nesso eziologico.
Sulla base di tali osservazioni, non essendo stato possibile accertare, nel caso di specie, la causa della morte del soggetto e non potendosi, quindi, escludere che la stessa possa imputarsi a cause naturali o eccezionali intervenute dopo la fuga, si è concluso per l’inapplicabilità dell’aggravante in esame.
Dall’analisi della pronuncia scelta, ultima di una lunga serie, emerge chiaramente l’attenzione che il mondo del diritto pone rispetto alla professione medica, evidenziandone l’importanza e i relativi doveri, nell’augurio che ciò non porti all’incremento del fenomeno, repellente, della cd. medicina difensiva.
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Giulia Scalzo
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